Il mito inglese dell’orsacchiotto

Un guestpost d’autore: Alessandra Libutti, autrice di “Thomas Jay“, romanzo opera prima tra i più apprezzati e recensiti di quest’anno, finalista al Premio Calvino e (mommy)blogger della prima ora, ci regala questa riflessione sul teddy-bear, l’amico di ogni bambino inglese. Anche dei nostri bambini italiani molto spesso, ma la differenza è che gli inglesi, come solo loro son capaci, fanno di ogni abitudine una solida tradizione.
E allora proviamo a pensare all’orsacchiotto come amico e sostenitore di autostima durante la crescita.

Gran parte della trilogia “I materiali oscuri” di Philip Pullman si svolge in una Oxford contemporanea ma parallela. Un luogo oscurantista, dominato da una Chiesa ferma al medioevo. E’ una delle infinite ‘possibilità’: quella che ci avrebbe accolto se non ci fosse stato l’illuminismo. In questo universo, le persone sembrerebbero come noi se non fosse per un dettaglio: la loro anima non è qualcosa d’interno ed invisibile, piuttosto un’appendice esterna dalle sembianze animali.
C’è chi ha una scimmia e chi un gufo, chi una tigre e chi un orso. Nei romanzi si chiamano demons, non in un’accezione malefica, ma semplicemente di essenza, l’anima appunto. Se separati da essi gli esseri umani si riducono al nulla, come contenitori vuoti.

Non so cosa abbia fatto venire in mente questa idea a Philip Pullman, ma a me piace pensare che abbia qualcosa a che vedere con il mito inglese dell’orsacchiotto (o qualunque soft toy).
Sarà perché all’epoca in cui lessi i romanzi, Figlio-uno era all’apice della sua unione spirituale con il proprio gorilla, ma quando mi capitò di osservarlo ritto su un pilastro, innalzando il suo fedele compagno come un totem allo scopo di richiamare la platea, pensai immediatamente che quel pupazzo fosse qualcosa di più di un compagno, ma una vera e propria appendice: quella da cui dipendeva l’autostima ed il carisma di mio figlio.

Non c’è inglese, neanche settantenne, che non abbia ancora da qualche parte in casa o in soffitta il proprio orsacchiotto. I soft toys dell’infanzia vengono ricuciti, rattoppati, ricostruiti, ma non si danno mai via, al limite si passano ai propri figli, come cosse una parte di se stessi.

Nel corso del mio ultimo viaggio a Roma, un giorno ricevemmo una visita. La signora entrando vide i miei figli che guardavano la televisione: Figlio-uno abbarbicato al suo gorilla e Figlio-due che sbaciucchiava il suo Max the Teddy. Il viso le si illuminò di uno strano stupore. All’inizio non capivo cos’è che l’aveva colpita tanto. “Come sono inglesi con i loro orsacchiotti!” Esclamò.
Effettivamente, vivendo da tanti anni in Inghilterra, non ci avevo mai pensato a quanto peculiare sia il rapporto che questo popolo ha con i propri orsacchiotti. I bambini ci vivono in simbiosi. Ed è qualcosa di culturalmente accettabile anche in età quando in altri Paesi i più grandi storcerebbero il naso. Da parte dei genitori esiste una forte consapevolezza della sua necessità psicologica nel non forzare mai distacco: come se recidendo il legame tra il bambino e la sua appendice, lo si privasse di qualcosa di intimo e profondo.
Ad ogni gita scolastica o degli scout che prevede pernottamento mi viene consegnata una check list contenente il necessario alla permanenza. Il soft toy non manca mai. Poco importa che a undici anni alcune delle bambine sembrino già donne e alcuni bambini portino il quaranta di scarpe, arrivano sorridenti all’appuntamento, ciascuno con il proprio borsone e il proprio orsacchiotto, perché è qualcosa d’indispensabile: è sicurezza, conforto. Con lui accanto si sentono invincibili.

di Alessandra Libutti

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12 thoughts on “Il mito inglese dell’orsacchiotto”

  1. Il bambino che coccola il pesce marcio perchè non ha più il suo daimon mi rende certa del fatto che io non leggerò MAI questa trilogia di Pullman. Grazie lanterna per avermi messo sull’avviso. E ora questa immagine mi perseguiterà nei sogni…

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  2. Io avevo un gigantesco “Pippo” imbottito, ma credo di ricordare che fosse stato buttato perché ero allergica alla polvere, poi mai più peluche. Ho ricominciato sporadicamente a ficcare peluche in valigia dopo i 20 anni nei miei viaggi O.o E che mi dite del distacco dal ciuccio? Quello è indipendente dal soft toy?

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  3. Anch’io ho dormito col mio orsetto praticamentr fino al giorno del matrimonio…beh quasi dai.
    Mia figlia invece zero. Ogni tanto chiede un pupazzetto prima di andare a dormire,ma gia il giorno dopo lo scaraventa giu dal letto poveretto. Bu vedremo come continuera crescendo.

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  4. Io col mio ci ho dormito fino a 21 anni, poi sono andata via di casa e ovviamente me lo sono portato dietro, però mi hanno perso la valigia in aeroporto con lui dentro. Se ci penso ci sto male ancora adesso :(((

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  5. io non ho mai avuto niente del genere, i miei tutto sommato neanche, boy-two ha iniziato a portarsi Scruffy (un cagnolino) ma piu’ per gioco che per effettivo bisogno, anche se quando ha i brutti sogni dice che lo aiuta. Ora stanno tutti e due con tre pupazzetti a testa, ma sospetto di nuovo che sia piu’ moda che altro

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  6. Il mio amico del cuore era l’orso Bruno. Ce l’ho ancora, guai a chi me lo tocca. Superboy, invece, non ha mai manifestato particolare interesse per ciucci, copertine di Linus, orsacchiotti e compagnia bella fino a un paio d’anni fa. Poi ha cambiato idea: adesso dorme con 3 orsetti che aveva snobbato per i primi 7 anni della sua vita. Guai a dimenticarli a casa. E qui continuano le inquietanti analogie con il Piccolo Jedi di Silvia.

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  7. Io avevo Lillo, un orso geneticamente modificato fatto in panno marrone da zia Filomena e ce l’ ho tutt’ ora (da qualche parte). I miei figli hanno avuto in condivisione Orsiglio (un po’ orso col vestito e le orecchi da coniglio) e Coccolodrillo (una di quelle robe che devi conservare il codice di acquisto, in caso non ‘nziamai si perda, te lo riprocurano identico prima che a tuo figlio venga uno sturbo, anche se mai più in produzione, vedi mo come capiscono le istanze dell’ orsacchiotto).

    Comunque qui uguale, niente oggetti di transizione, niente orsacchiotto rpeferito (infatti erano intercambiabili e ignorati) adesso invece a 8 e 10 anni hanno piacere di protarsi una belva a letto o giocarci, anche queste intercambiabili e a volte oggetto di trattative amichevoli -strano pure questo, che cedano al fratello- e sono orsacchioni e ranone, proprio grossi quasi quanto loro.

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  8. I miei figli non hanno un soft toy preferito, cambiano ogni tanto, a seconda del momento. E in effetti anch’io ricordo di non avere avuto un solo pelouche da notte, ma almeno 2-3.

    Della trilogia di Pullman, che adoro, mi rimane impressa un’immagine: quella del bambino separato dal suo daimon, che coccola un pesce marcio perché si sente solo e vuoto.

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  9. Marzia, singolare similitudine: a dispetto di quello che sembrerebbe da questa foto (bellodemamma come era piccolo!!) il Piccolo Jedi non ha mai avuto un soft toys d’affezione. Da un paio d’anni si è innamorato del peluche-carota dell’ikea e l’ha voluto portare pure in vacanza, ma a 8 anni!!

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  10. Lo conservo ancora, il mio orsacchiotto. E mia figlia mi dice spesso che la sua Wandina è ormai di famiglia. La Wandina, piccola e morbida bambolina bionda tutta in fibre naturali, qualche volta lavata, spesso ricucita, in questi 7 anni di permanenza si è anche sposata (con un pupazzetto a forma di grillo) ed è venuta con noi a Madrid per il suo viaggio di nozze. Ne siamo tutti molto affezionati e non ho nessuna fretta che se ne separi.

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  11. Mi sono spesso chiesta perchè mio figlio non abbia mai avuto un soft toy preferito, ci ho provato con diversi personaggi e consistenze ma niente. Per qualche giorno lo teneva vicino e poi finiva inesorabilmente abbandonato, fin da piccolissimo. Intuivo che la mancanza di un oggetto “speciale” lo lasciasse nudo, senza un alleato, questo post lo spiega molto bene.
    Ovviamente anche questa domanda rimarrà senza risposta ma credo sia davvero un tassello importante per la crescita e anche per l’autonomia del bambino, che attraverso l’oggetto trova comunque una forza indipendente dal sostegno dei genitori.

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