Social e Casi Sociali

Quando mi laureai in psicologia (e già il fatto che un veneto usi il passato remoto è indicativo di quanto tempo sia passato) scrissi più di metà della tesi di laurea in una notte per una serie di equivoci tra me ed il mio relatore che non sto qui a raccontarvi o facciamo notte. Naturalmente la tesi usci come una sorta di fantozziana Corrazzata Kotemkin ma, a più di quindici anni di distanza, devo dire che fu una delle esperienze più formative di tutta la mia vita, soprattutto per gli aspetti più roccamboleschi che portarono alla sua produzione.
Mi è, ad esempio, tornata in mente proprio in questi giorni, pensando a come affrontare il tema della fragilità all’interno dei social media.
L’argomento era l’integrazione scolastica delle persone in situazione di disabilità e proposi una serie di questionari ad una scuola media del comune dove abitavo, per capire in che modo i ragazzini percepissero i compagni affetti da qualche menomazione all’interno del loro gruppo.


Sarà che all’epoca ero giovane, ma il risultato mi stupì molto: più la disabilità era grave, più il compagno era percepito come parte del gruppo, mentre per i ragazzini con disabilità più sfumate, meno evidenti, l’emarginazione era quasi matematica.
Curioso no? Più sono le competenze meno è facile l’integrazione. Il motivo? Le aspettative e la capacità di capire i limiti da parte dell’interlocutore. Ad una persona con la sindrome di down o la tetraparesi spastica si perdona quasi tutto, soprattutto dal punto di vista relazionale.
Dalla persona invece con un leggero ritardo mentale, senza le stigmate della disabilità, ci si aspetta invece normalità e tutto quello che esce dal solco di ciò che noi consideriamo normalità viene allontanato, rimosso.
E non è mica una faccenda che riguarda solo il caro vecchio uomo della strada, sapete? Succede anche a noi che ci lavoriamo quotidianamente e, di tanto in tanto, occorre ricordarselo.

Così pensavo a Facebook e mi dicevo: se è vero l’assunto che il mondo virtuale è in realtà reale, è possibile che anche questa dinamica “reale” si riproponga nel mondo “virtuale”. Con il rischio che sia anche più accentuata proprio dal fatto che di mezzo c’è uno schermo, una fotoprofilo non realistica (dubito che il mio amico Nicola sia in realtà Slatan Ibrahimovic) e un desiderio di emanciparsi che non sempre è sostenuto da risorse personali o da qualcuno di fidato.

Quante volte ci sarà capitato al bar, in stazione o in altre situazioni non eccessivamente protette di vedere persone che litigano su qualche questione e sentire qualcuno intervenire con un “ma lascia stare, non lo vedi?”
Tutto questo succede con molta difficoltà su facebook, ad esempio; un troll potrebbe in realtà essere una persona con qualche difficoltà (consapevole o meno, certificata o meno), una persona che semplicemente esprime una paura, un dubbio o un concetto che per noi è assurdo, ridicolo o anche la più banale delle cazzate, in realtà potrebbe star esprimendo il massimo del suo potenziale. L’avessimo davanti, probabilmente, ci sogneremo di fare qualsiasi tipo di intervento, annuendo un po’ imbarazzati e chiedendo del bagno con il solo scopo di allontanarsi da lì.

Perché su facebook dovremmo comportarci diversamente?
Non voglio difendere i troll, ci sono persone che conosco che sui social si comportano in modi che mettono a dura prova le mie più radicate convinzioni nonviolente, semplicemente vorrei che ci fosse da parte di chi ha maggiori capacità l’attenzione per le situazioni, per le persone e per gli argomenti, esattamente come le avrebbe senza uno schermo davanti.

Magari qualcuno potrebbe trarne esempio. Chi può dirlo?

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