Un remo solo va poco lontano

© foto flickr.com utilizzata in licenza Creative Common
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Tema del mese tosto quello della discriminazione, come camminare in un campo minato.

In particolare fa specie parlarne da un osservatorio dove la parola “diversità” è scritta sulla carta d’identità: quella delle persone che in quella diversità si trovano, con tanto di certificato, e quelle che ci lavorano o fanno volontariato.

In sostanza si opera in un mondo a parte dove, a volte, pare che ci compiaciamo di venire percepiti come diversi, soprattutto se questa diversità ha una connotazione positiva (che bravi, che buoni, che belli). Vi rimando all’articolo Una scala di razzismo , pubblicato qualche giorno fa, e vi chiedo lo sforzo di fantasia di semplificarlo quanto più vi riesce.

Il mondo pare dividersi esattamente in due, peggio che per Beatles e Rolling Stones: da un lato chi accetta la diversità, dall’altro chi “la accetta ma…”

In realtà dovrei autocensurarmi perché proprio la necessità di semplificare fa di me una persona con pregiudizio.

E in fondo, da fan degli Stones, devo ammettere che Come Together è un gran bel pezzo, a ben guardare.

Ma torniamo in tema: avete mai sentito dire, riferito alle persone con disabilità, “Ti danno molto più di quanto tu non dia a loro?”

Beh! È una stupidaggine!

Non è tanto grave che lo si possa dire, che in molti casi è pure vero, quanto che si pensi che sia sempre automaticamente così.

Mettetevi nei loro panni; dura la vita se oltre all’handicap in cui ti trovi devi far fronte a un esercito di buoni, che ti ama, ti fa entrare gratis al cinema, ti lascia saltare la fila al museo, ti fa trovare il bagno libero al parco, ti concede sconti al villaggio turistico.

Ho sempre pensato che un minimo di rabbia sociale, pur se non violenta, possa giovare all’emancipazione delle persone. Pensiamo ad altre categorie “svantaggiate”: un tossico se l’è cercata, nessuno dirà mai che un tossico ti dà più di quanto riceva. Un carcerato, anche ex, dovrà sudare per togliersi la stigma del criminale. Un extracomunitario, a meno che non sia statunitense, poteva comunque provare a stare a casa sua, che il lavoro non ce lo abbiamo nemmeno qui.

Insomma, uno deve sbattersi per cercare di emanciparsi: lavorare, fare una vita dignitosa, far studiare i figli.

Il disabile no, il disabile è “poverino”: più è grave, più gli vogliamo bene. Deve, anzi, stare bene attento a non riuscire a fare nulla, sennò diventa “furbo, quando vuole” venendo retrocesso a persona da temere.

In questa discriminazione al miele uno finisce per adattarsi; i pochi privilegi di cui parlavo prima finiscono per diventare una ricchezza da difendere da tutto, perdendo di vista l’obiettivo finale che dovrebbe essere un’emancipazione, una dignità dura ma possibile da raggiungere.

Così i pochi genitori che vogliono andare oltre, che preferiscono un lavoro al biglietto del concerto, un progetto di autonomia alla visita gratuita al museo, che non sopportano sentir dire che il loro figlio disabile è molto più affettuoso di quello che non lo è, che lottano perché cresca, perché sia adulto, si trovano davanti un muro, vengono bollati come rompiscatole e discriminati a loro volta. Da tutti.

Ora, penso, siamo un po’ tutti discriminabili perché troppo grassi, troppo magri, occhialuti, secchioni, somari, troppo veneti, troppo meridionali, troppo scuri o troppo chiari.

Non c’è nulla che non ci unisca tanto come la discriminazione. Potremmo smettere di viverla come una gara individuale e individualista, smetterla di cercare sconti per noi stessi, così forse smetteranno di chiederci un ricarico. Proviamo, in sostanza, a vedere se funziona il gioco di squadra. Sono abbastanza sicuro che, perlomeno, ci si diverta di più.

“E semo tuti su ‘a stessa barca

come animali acopià in un arca

e forse on giorno se navigarà

ma on remo solo va poco lontàn”

(Valincantà – El Buso del Priaforà)

 

(foto credits @ Porfirio )

 

 

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