La ricerca della felicità

© foto flickr.com utilizzata in licenza Creative Common
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Confinare disabili, persone con disturbi psichici o ex tossicodipendenti in realtà sociali protettive oppure consentire loro di inserirsi nel mondo del lavoro? Qual è la scelta migliore per il loro benessere psicofisico? 

Non troverete mai parlando di Sociale una locuzione più abusata di “benessere della persona”.

C’è stato un periodo in cui praticamente tutti i progetti personalizzati iniziavano con “Obiettivo Generale: Benessere della persona”.
A ben guardare non un grande sforzo, da parte di chi doveva redarre il progetto, ad altissimo rischio di essere perpetuato in un continuo copia incolla, di anno in anno.
Pazienza, dirà qualcuno, almeno si perpetua una cosa che, sulla carta, dovrebbe essere bella.
Facile, no?

Ma come facciamo a decidere cos’è il benessere di una persona? E soprattutto, chi lo decide?

Ai più potrà sembrare una domanda di inutile pedanteria, fatta dal solito bastian contrario che vuole solo rompere le scatole. Invece è uno dei dubbi che ci assale sempre.
A ben guardare è il dilemma anche del genitore qualsiasi, se è un genitore che ama interrogarsi sulle sue azioni e non procedere in modo dogmatico pensando sempre di avere ragione.

Perché, in fondo, essere genitori è esattamente come essere educatori. Solo che non si viene pagati per farlo.
Agenzie educative, le chiamavano negli anni ’90, pensando alla famiglia, alla scuola ai centri riabilitativi e al calcio in parrocchia.

Ma, in sostanza, chi decide cosa sia meglio per la persona in situazione di svantaggio?

Quando iniziai a lavorare in una cooperativa sociale, tre lustri fa, una persona mi disse che noi si faceva riferimento a una certa corrente di pensiero che, ad esempio parlando di tossicodipendenza, era molto più volta al recupero e al reintegro nella società, piuttosto che a creare dei maxi centri dove le persone potessero svolgere la loro vita, pienamente recuperati, ma senza più rientrare nel “mondo là fuori”.

All’epoca, ricordo, ero giovane e sprovveduto e non capivo molto. Oltretutto questo collega più esperto me lo disse mentre stavamo cambiando i ragazzi del centro nello spogliatoio della piscina.
In fondo, mi dissi, convinto che qualsiasi scelta “sociale” sia mossa solo da buoni principi, forse qualcuno pensa che è meglio proteggere (non escludere) le persone, condannate in alternativa a una vita da tossici anche una volta usciti dal tunnel della droga (si chiamava così, ricordo).

Ma è lo stesso principio delle persone con malattia mentale che lavorano nelle cooperative. Lo psichiatra dice sempre (salvo rari casi), che non è opportuno stressarli eccessivamente: “Perché inserirli nel mondo del lavoro? Teneteli in cooperativa, fateli lavorare quello che si sentono e non ci sarà nessun problema”.
Ma in questo modo rimangono confinati alla loro dimensione di malati, senza speranza di ritrovare una dignità personale che passa anche attraverso l’integrazione lavorativa.

“Non potete fare richieste troppo alte e poi lamentarvi se queste persone non reggono”. Idem con patate (si diceva alle medie) per le persone con disabilità; una volta una mamma mi disse che lei credeva molto nell’autonomia del suo figlio con la Sindrome di Down e che gli aveva fatto fare un percorso fin dalla scuola media perché riuscisse ad arrivare a una vita senza essere dipendente dai genitori. Poi, una volta finita la scuola, e completato anche il percorso di autonomia (che prevedeva svariati giorni vissuti fuori casa, in un appartamento dove imparare a cucinare, riordinare, eccetera) la mamma si era fatta prendere dal dubbio e mi disse: “Ma perché dovrei forzarlo a vivere fuori casa a 19 anni? In fondo suo fratello, che non ha problemi, ne ha 26 e non ha nessuna intenzione di schiodarsi da qui”.
Tutto normale, dico io, era semplicemente una brava mamma e non si era fatta prendere dall’ansia da manuale dell’autonomia.

Ma il punto è questo: come genitori noi non sappiamo mai se abbiamo fatto la scelta giusta e più grande sarà la posta in gioco più i dubbi ci accompagneranno per la vita. E non c’è antidoto e non c’è soluzione ed unisce tutte le benedette “agenzie educative”. Ci consola solo il fatto che qualsiasi sia la scelta che faremo, saremo sempre criticabili ma che, a conti fatti, la controprova non è quasi mai ammessa.

Cerchiamo almeno che la scelta sia il più serena possibile: il benessere delle persone che crescono con noi, siano essi figli o persone assistite, passa anche attraverso la nostra serenità.

(foto credits @ Camdiluv)

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