Portatori di handicap

La terminologia dello svantaggio: come definire l’handicap? Il modo più corretto è definirlo in base al contesto

portatoriVerbo davvero impegnativo da usare “Portare” quando si parla di persone in situazione di disabilità.
È quasi inevitabile scivolare nel ricordo di quella orribile locuzione che gli anni ’80 ci hanno lasciato in eredità oltre ai dischi degli Wham e le foto con la permanente: “Portatori di Handicap”

Ricordo il primo giorno al corso universitario “Handicap e riabilitazione”, dove allo studente che riportava un’esperienza con un compagno portatore di handicap alle elementari, il professore chiese se detto compagno venisse a scuola con le sporte della spesa per portare, appunto, il suo handicap.

Un campo minato la nomenclatura dello svantaggio, sempre in bilico tra la necessità di chiarezza e il desiderio di essere politically correct.
Così si è passati attraverso i “portatori di handicap” che, se non fosse stato in auge nel periodo aureo della legislazione sociale (anni ’80 e primi anni ’90), sarebbe stato presto dimenticato. “Disabili”, che di per sé poteva andare un po’ meglio: crudo, asciutto, immediato. Ma un po’ troppo categorizzante, se non addirittura ghettizzante. “Diversamente abile” o “diversabile” che avevano il pregio di portare l’attenzione sui punti di forza, sulle capacità e non sempre e solo sulle difficoltà; ma sono stati troppo presto connotati come troppo politichesi e, da molte famiglie, poco rispettosi della fatica di convivere con la disabilità. 
Insomma, ancora non siamo arrivati ad una termine che piaccia a tutti e racchiuda in sé la complessità, il rispetto e non offenda nessuno. 

Eppure il termine handicap, si discute ancora se l’origine fosse legata ad un gioco d’azzardo (un concorrente doveva fare un’offerta in denaro stimando il valore di un oggetto che l’avversario teneva nascosto in un cappello) o alle corse dei cavalli (dove veniva imposto al fantino del cavallo più forte di correre con il cappello in mano, limitando la possibilità di guidare il suo destriero), aveva tutto un suo fascino, legato appunto anche all’origine, e un significato chiaro: svantaggio.

Non è un caso se l’OMS, nella sua ultima definizione, riprende spunto da quella prima definizione, riproponendo lo svantaggio, ma inquadrandolo in una cornice sociale che può amplificarlo o ridurlo. “Persona in situazione di disabilità”.

Cos’è cambiato? È stata introdotta la situazione, il contesto. Non solo: si parla di facilitatori e barriere. È La vera rivoluzione culturale nell’educazione e si chiama ICF (la Classificazione Internazionale del Funzionamento)
Perché, a conti fatti, non è la stessa cosa essere sordo nella savana ed esserlo a New York. E, in ogni caso, anche nella savana l’obiettivo di chi deve avere cura del bambino sordo è trovare i punti di forza, le abilità compensative o le condizioni per limitare lo svantaggio fino al minimo possibile.
Quando si valuta una situazione si mettono quindi tutti gli aspetti medici, ma questi vanno integrati con i facilitatori e le barriere che derivano dall’ambiente in cui una persona vive e dalla situazione sociale che ha attorno.

Ora: sapete qual è il principale indicatore che viene segnato come facilitatore o barriera?
Esatto! La famiglia! Possiamo essere facilitatori o barriere nei confronti dei nostri figli. Più spesso entrambe le cose, a seconda del contesto o del compito richiesto.

Torna quindi, anche il termine “portare”, perché racchiude l’operatività dell’essere genitore più di molti altri: “devo portare”, quante volte lo diciamo in una giornata?
Eppure, proprio per rispetto nei confronti di chi questo verbo lo dovrà usare per tutta la vita dovremmo riuscire a far leva sui punti di forza dei nostri figli, educandoli fin da piccoli a quella autonomia che non potranno avere, improvvisamente, a 18 anni perché, in questo senso, molte famiglie di ragazzi in situazione di disabilità, sono anni luce avanti in confronto a noi.
Da parte mia, come padre di bimbi ancora molto piccoli, so di predicare bene; per il mio razzolare, ci sentiamo fra quattro o cinque anni.

“in verità ti dico che quand’eri più giovane, ti cingevi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorresti” (Giovanni 21, 18)

Prova a leggere anche:

Previous

Sono diventato un genitore single: e ora?

Perché un genitore non deve vedere Boyhood

Next

6 thoughts on “Portatori di handicap”

  1. “Persona in situazione di disabilità” […] “È stata introdotta la situazione, il contesto.” Questo cambiamento della prospettiva è molto molto interessante sotto molti aspetti.
    Il Bambino Allergico a scuola o il Bambino Diabetico a scuola sono alcuni fra tanti esempi.

    Nello specifico di bambini allergici ad alto rischio di shock anafilattico, ci sono genitori che decidono di appellarsi alla Legge 104 (seppure con scarsi risultati) per vedersi riconosciuto un permesso lavorativo retribuito, o anche non retribuito, per assentarsi e prelevare il figlio durante l’ora del pranzo, perché in mensa magari non c’è alcuno che offre la disponibilità a somministrare un farmaco salvavita in caso di emergenza, oppure per accompagnare il figlio in un ospedale fuori città per sottoporsi alla “desensibilizzazione”. E così via.
    Non è un discorso di facile soluzione. Non è semplice nemmeno stabilire i “parametri” secondo cui stabilire la “gravità” ma se si osserva la situazione/contesto… beh le cose cambiano…
    Grazie Gae per questo post!

    Reply
    • Tocchi un tasto dolente del sistema, quando parli di nessuno che si prende la responsabilità di somministrare un farmaco. Dolente al punto che un bambino non può mangiare con i compagni. È molto triste. Per fortuna ci sono anche altri esempi virtuosi: ci sono bambini celiaci o diabetici (sono comunque problemi diversi) che riescono a mangiare in mensa. Certo a smazzarsi sono sempre i genitori, non c’è dubbio.
      Grazie dell’apprezzamento.

      Reply
  2. Vivere con un handicap rende genitori sensibili e fragili. Si tende a “portare” e a difendere. Si cerca quotidianamente di creare in casa un mondo quasi incantato, dove le relazioni e i rapporti sono facili, dove la disabilità o nel mio caso la diversità non esiste. Ci si dimentica quasi di averla. Si trattano tutti i bambini nello stesso modo, si colgono i difetti e la difficoltà piu’ facilmente anche dei figli che non sono ” diversi “. Si impara a convinvere con le proprio debolezze. Uscire di casa pero’ è dura, confrontarsi con gli sguardi, piu’ che con le parole. Al futuro? Ai suoi 18 anni? Non ci pensa mai, che il futuro a casa nostra è domani mattina 😀

    Reply

Leave a Comment