Mattia

Lo vedo arrivare e il cuore perde un colpo: il ragazzino sulla sedia a rotelle. La madre spinge la carrozzina sin dentro la classe, i ragazzini salutano il suo occupante battendo il cinque e informandosi: Mattia, hai portato le figurine di Pokemon? Certo che l’ha portate, li rassicura lui. Nessun turbamento, nessuna affettazione; Mattia è semplicemente Mattia, che abbia la seda a rotelle o meno. “Bene” annuiscono soddisfatti “E non fare il furbo come la volta scorsa, quando hai tentato di barare”
Lo guardo e penso che sarebbe stato un bambino bellissimo, poi mi vergogno dei miei stessi pensieri: Mattia è bellissimo. Occhi verdi e zazzera scomposta, il ragazzino ha l’aspetto di una popstar inglese. O di Stephen Hawkins da giovane.
Mattia prende posto tra i banchi disposti a ferro di cavallo, la mamma lo saluta, poi, uscendo, mi consegna delle salviette umidificate. “Nel caso dovesse andare in bagno” spiega.

E infatti due ore dopo la collega mi chiama. “Mattia deve andare in bagno. Te la senti di assisterlo?”
Certamente.
“No, perché la collega che che stai sostituendo si rifiuta. Dice che l’unico sedere che pulisce è quello dei suoi figli”.
Capisco. Qualche settimana fa era in corso una querelle in merito su chi dovesse accompagnare in bagno i ragazzini disabili, se i collaboratori scolastici o gli insegnanti di sostegno. Mi pare che abbiano vinto questi ultimi.
“Davvero, non c’è problema” la rassicuro.
È vero, per me non c’è alcun problema, ma per Mattia? Non si sentirà umiliato ad avere in bagno un’adulta sconosciuta che lo sveste e lo tocca nelle parti intime, che rimane con lui mentre fa la cacca?
Ma lui sembra esserci abituato. Si lascia sollevare e spogliare, è docile, ascolta attento mentre gli parlo come facevo con i figli quando erano piccoli. E in effetti provo verso “i miei” ragazzi un affetto materno anche quando li sgrido per il disordine che lasciano nelle aule.
“Mattia, sei d’accordo se aspetto qui fuori?”. Annuisce con gli occhi verdi che ridono e la saliva che gli cola dalla bocca perennemente aperta.

Cinque minuti dopo, mi chiama. “Non sono riuscito a fare niente” mormora. Fa niente, Mattia, sarà per la prossima volta, intanto laviamoci le mani, e mentre lo aiuto ad arrivare al sapone penso a sua madre, alla sua pazienza, alla sua calma. Quanto deve essergli costata, quella calma.
“Sei davvero bravo” gli dico. Per un secondo i nostri sguardi si incrociano sullo specchio ma quello del ragazzo si fa subito fuggente, lo vedo stringere gli occhi e concentrarsi sulla propria immagine mentre al sorriso si sostituisce lo sconforto: c’è qualcosa in lui che non va. Ma certo, i capelli! La zazzera scomposta da rockstar è effettivamente troppo scomposta. Mattia si allunga faticosamente verso il lavandino, bagna le dita, lentamente passa la mano sopra ogni ciuffo finché la zazzera è domata e lui può tornare a sorridere soddisfatto lasciandomi imbambolata a osservarlo mentre inclina la testa da un lato e dall’altro. “Stai benissimo”, lo rassicuro.
“Hai ragione, risponde compiaciuto, sono proprio carino”.

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