Il dowshifting e l’indipendenza delle donne

Qualche settimana fa ITmom ha scritto su facebook qualcosa del genere: “Se decido di stare a casa a curare i figli faccio la casalinga. Se la stessa cosa la fa la manager rampolla di buona famiglia fa downshifting.” Questa cosa me la sono appuntata mentalmente ripromettendomi di scriverci su, un po’ perché ci sto ragionando da un po’ sulla faccenda del downshifting in relazione al ruolo della donna nella società moderna, e un po’ perché ultimamente mi capita di incontrare donne-mamme (svedesi) felicemente separate. E che c’entra?

Un update su facebook normalmente non può che essere sintetico e come tale spesso non può cogliere le mille sfaccettature che una situazione normalmente presenta. Però non è del tutto falso dire che il vero downshifting è evidentemente una cosa da ricchi, perché lo dice la parola stessa: è intrinseca una serie di rinuncie per vivere una vita più semplice. Magari si può essere non proprio ricchi, ma comunque sufficientemente benestanti da poter rinunciare a qualcosa. Chi già vive al limite della sopravvivenza non si può permettere di lavorare (e spendere) di meno. Ma qui voglio riflettere su un aspetto del dowshifting che coinvolge le madri di famiglia (il downshifting non è in realtà una prerogativa delle donne né delle coppie, né tantomeno delle famiglie) e quindi vorrei parlare del downshifting motivato principalmente dalla voglia di stare a casa a prendersi cura dei figli.

Alla suddetta manager rampolla di buona famiglia il dowshifting gli fa un baffo perché magari ha le spalle coperte da eventuali eredità e quindi con il suo non lavorare, o lavorare poco non mette veramente a rischio il suo futuro. Chi veramente mette a rischio il suo futuro è chi già è al limite del sostenibile. Tra un estremo e l’altro ci sono tutte le vie di mezzo possibili. Premetto che non sono contraria al downshifting o in generale alla scelta di seguire uno stile di vita più semplice, e questo argomento lo abbiamo affrontato spesso su questo sito, temo però che questa filosofia stia mettendo in serio pericolo il futuro specialmente di alcune donne. Quindi lungi da me fare critiche a qualcuno, vorrei semplicemente condividere alcune riflessioni con voi.
Quando il dowshifting è una scelta condivisa nella famiglia ed entrambi si dedicano a lavorare da casa, o fanno un part-time, o sacrificano la propria professione in nome di una scelta di vita più sostenibile è una cosa. Quando in una famiglia si decide di procedere su questa strada e l’unica che di fatto fa dowshifting, ossia smette di lavorare per stare a casa con i figli, dedicarsi all’autoproduzione, e vivere una vita più semplice è la donna, mentre l’uomo continua a lavorare (perché almeno uno stipendio serve) avvengono due cose: la prima è che l’uomo continua a pagare i contributi per la sua pensione mentre la donna non lo fa o lo fa in misura inferiore se riesce a ritagliarsi lavoretti da casa, la seconda è che la donna perde la sua indipendenza economica.
Nel malaugurato caso in cui si arrivi ad una separazione o peggio alla prematura morte del coniuge la situazione si fa ben più complicata. In Italia grazie alle lotte femministe di qualche tempo or sono, il lavoro svolto a casa dalla donna è considerato un lavoro e come tale, per la salvaguardia della donna, in caso di separazione l’uomo ha spesso l’obbligo di continuare a mantenere la ex-moglie (oltre ai figli si intende). Questo dà luogo ad una infinità di questioni dentro e fuori dai tribunali, ma soprattutto ad una valanga di astio che ci si porta dietro l’uno nei confronti dell’altro a vita, anche quando la vita di ciascuno ha preso strade diverse. Ed eccomi di ritorno alle mie amiche svedesi felicemente separate.

Riflettevo con mio marito qualche giorno fa sul fatto che siamo circondati da gente separata ma che vive più o meno serenamente questa cosa. Premetto che si tratta di gente che appartiene ad una classe sociale mediamente agiata, insomma nessuno poverissimo e nessun ricchissimo, però tutti riescono a gestire la cosa in modo sorprendentemente civile (almeno per me). La donna che lascia l’uomo mediamente si compra un nuovo appartamento e se ne va di casa (NB. se lei lascia lui, lei si compra un appartamento e se ne va di casa!!!), i bimbi si alternano nelle visite ai genitori, quindi la nuova casa si sceglie sempre vicina alla casa di lui e alla scuola in modo da facilitare la quotidianeità. I bimbi piccoli cambiano casa ogni paio di giorni, quelli un po’ più grandi ogni settimana e gli adolescenti anche ogni due settimane in base alle loro preferenze. Ho chiesto alla mamma di due bimbi (2 e 5 anni) separata da un mese come la stanno vivendo i bambini e lei mi ha detto che si sono già abituati e che sono molto più tranquilli ora di prima quando erano costretti a vivere la tensione in famiglia. Il figlio grande le ha addirittura detto: “mamma sei molto più calma ora!” segno evidente che la separazione non è stata una scelta tanto folle. Ma quale è il fattore comune di tutte queste situazioni di mia conoscenza? Certamente la maturità con la quale vengono mediamente affrontate queste situazioni tra i due coniugi, ma io ho la netta sensazione che l’indipendenza economica della donna sia un fattore determinante. Queste sono donne indipendenti economicamente, che possono permettersi di comprarsi una casa da sole, anche se piccola, e riescono a mantenersi i figli senza ricevere un assegno dall’ex che di suo contribuisce al mantenimento dei figli per quella metà del tempo che sono a casa sua.

Insomma la mia domanda è: ma siamo sicuri che questo modo di fare downshifting non sia un’arma pericolosa contro lo status delle donne?

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105 thoughts on “Il dowshifting e l’indipendenza delle donne”

  1. @Serena: sì Serena, scusa per il cambio nome! Qui in Italia, pure nel pubblico impiego, dove teoricamente è previsto il telelavoro, nessuno dirigente lo concede, anche se lavorar da casa sarebbe possibile, eccome. Paradossalmente il lavoratore verrebbe sottoposto a maggiori controlli, perchè il lavoro è valutabile facilmente per obiettivi. Quanto al part-time, sempre nel p.i. , nonostante le belle parole che si spargono ai 4 venti, tutto sta diventando più restrittivo.E se questo è il pubblico, pensa il privato!

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  2. @serena, sì sì certo, è che mi faccio prendere e il tono sembra aggressivo. l’argomento mi sta talmente a cuore che ti dico, io caldeggiavo il telelavoro 15 anni fa, scrivevo articoli e facevo interviste a dirigenti d’azienda. tutti a dire quanto fosse bello… ad oggi in italia il risultato è che la maggior parte delle aziende dell’IT lo usano, ma le aziende tradizionali, quelle vogliono controllare il lavoratore, lo sappiamo tutti.e il telelavoro di fatto funziona solo per i liberi professionisti, che di fatto lavorano sabato domenica o di notte, però almeno hanno libertà di movimento.

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    • @itmom ecco hai detto le parole chiave: controllare il lavoratore. Io ogni volta che parlo della flessibilità in campo lavorativo mi sento rispondere: e come fa l’azienda a controllare il lavoratore? Come fa l’azienda a controllare che non si stia facendo i cavoli suoi invece che lavorare? Ma io dico, cavolo, te ne accorgi no, se uno non lavora per niente? E anche in Svezia non si può licenziare. Ma il lavoratore che sta in ufficio 10 ore pensi che riesca a produrre per 10 ore? O si fa 20 pause caffé? O cerca di fregarti proprio perché controllato? No, ecco itmom questo tema come vedi fa arrabbiare pure me 😉

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  3. scusa, preciso che anche noi abbiamo i nonni lontani, quindi contiamo sulle nostre forze e per questo abbiamo proprio meditato il nostro lavoro così.

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  4. @serena, lo stile di vita che abbiamo impostato permette sia a me che a mio marito di andare a prendere/portare i figli quando vogliamo. Io perché le mie collaborazioni (poche, quasi un part time ;)) le faccio da casa, lui perché ha una libera professione e lavora da casa/studio/qualsiasiluogo. quello che ipotizzavo 15 anni fa quando iniziavo a studiare il mondo di internet, e cioè il telelavoro come lo chiamavano allora, per noi è una realtà.

    e così se un pomeriggio vogliamo portare a una mostra nostro figlio lo facciamo, se vogliamo andare a vederlo a nuoto lo facciamo… tutto questo è una conquista, non un privilegio, che sia chiaro. perché è stato meditato e costruito a fatica in vent’anni di lavoro.

    per questo vedere persone in ostaggio di un capufficio che non si fida che una persona possa svolgere lo stesso lavoro anche da casa (non dico sempre, ma comunque alcuni giorni alla settimana sì) mi fa venire rabbia….

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  5. @silvia: la prima cosa che mi vien da pensare è: come fate a lavorare a tempo pieno tutti e due e andare a prendere i bambini alle 4? Non è perchè voglio farmi i fatti tuoi,ci mancherebbe, è che in Italia, alzi la mano chi lo può fare. La situazione che tu hai descritto è tanto bella quanto….qui in Italia…fantascientifica, e non mi riferisco solo agli orari. Se non fosse per il quasi – costante buio invernale, potrei pensare di trasferirmi!

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    • @Deborah immagino intendessi Serena e non Silvia 🙂
      Sul piano puramente pratico si fa così: uno porta i figli a scuola entro le 9 e l’altro li va a prendere verso le 16. Se io li porto a scuola, mio marito esce presto di casa e va in ufficio presto, poi esce presto di li e li va a prendere lui mentre io resto a lavoro fino a più tardi. Inoltre entrambi abbiamo la possibilità di lavorare da casa quando vogliamo, quindi capita che uno resti a casa, e questo chiaramente dipende dal tipo di lavoro che si fa, ma salvo riunioni in ufficio il lavoro che si svolge davanti ad un computer si può fare ovunque. Il mio lavoro a volte mi permette di lavorare dopo cena o a notte fonda, scelta mia ovviamente. Veniamo entrambi valutati in base al raggiungimento degli obbiettivi e non in base alla presenza in ufficio, che comunque prevede riunioni, conferenze, eventi particolari in cui è richiesta la presenza, e viaggi, ma questo è in più. Non siamo particolarmente bravi noi, praticamente tutti i lavoratori dipendenti si organizzano come noi, almeno sui turni di portare e prendere da scuola a turno, se non si tratta di lavori speciali in cui ci sono turni forzati di qualche tipo (medico o simili), ma comunque ci si organizza grazie alla grande flessibilità che i posti di lavoro normalmente ti offrono. Le scuole sono comunque aperte ad accogliere i bambini dalle 7 del mattino con il prescuola fino alle 17.30 circa con il doposcuola. Quindi anche chi ha orari più difficili ci riesce lo stesso ad organizzarsi.

      @itmom ma guarda che io sono d’accordissimo con te, e spero si sia capita questa cosa, anche io provo rabbia di fronte a queste situazioni di schiavitù lavorativa, dico solo che provo ancora più rabbia quando l’unica via di uscita è quella di abbandonare il lavoro, a meno che questa non sia una scelta di vita consapevole e ragionata della quale si riesce ad essere felici e soddisfatte, come mi sembra il tuo caso evidentemente 🙂

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  6. secondo me non siamo nè coscienti nè libere semplicemente non c’è alternative almeno per chi come me vive al sud poi “forse” a Milano la situazione è un pò migliore ma Milano non è l’Italia

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  7. @serena, scusa la prolissità, ma mi è venuto in mente anche questo esempio. La fuga di cervelli dall’italia potrebbe essere vista come rinuncia loro e un danno per chi resta perché ha meno armi per combattere e migliorare il sistema universitario? forse, però se mi metto nei panni del singolo ricercatore o scienziato non è forse che lui ha diritto di vivere la sua professione a pieno e non rovinarsela restando a tutti i costi in italia? con tutti i sacrifici che una scelta del genere comporta.

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    • no no nessuna offesa, ci mancherebbe! 🙂
      Non sto mica dicendo che ci si debba sacrificare a rimanere a lavorare in condizioni disumane, neanche quello aiuterebbe il sistema. La tua scelta è pienamente condivisibile oltre al fatto di essere strettamente personale e come tale nessuno avrebbe il diritto di metterla in discussione ci mancherebbe. Non ho soluzioni, sto semplicemente proponendo una riflessione, e come detto sono felice di come si stia sviluppando. Tornando ai cervelli in fuga, certamente è un tirarsi fuori da una situazione impossibile in Italia, però spesso le cose avvengono più gradualmente.
      Io ad esempio sono andata originariamente in Svezia per fare un dottorato di ricerca, non mi sono definita un cervello in fuga perché spostarsi all’estero per fare ricerca è una cosa assolutamente normale, così come dovrebbe esserlo quello di essere pronti a cambiare paese ogni 2 o 3 anni per i primi anni della carriera (cosa che io ho scelto di non fare). Il problema è che non ho trovato le condizioni lavorative (ma non solo) favorevoli ad un ritorno in patria, e questo è un fattore comune a molti dei cosidetti cervelli in fuga, ma anche comune a tutti i ricercatori stranieri che non trovano buoni motivi per trasferirsi in Italia. Non contenta di ciò, dopo anni di ricerca ho cambiato carriera, altro cambio, altra rinuncia? Non so come definirla. Sicuramente spirito di adattamento, sicuramente capacità di mediazione tra le mie aspirazioni e il mio senso di responsabilità nei confronti della famiglia (cit. Barbara), e su questo la mia e la tua scelta forse non sono troppo diverse. Però non per questo smetto di parlarne e di ragionarci anche attraverso questo sito. E magari mi arrabbio anche proprio perché io dall’estero ho un punto di osservazione privilegiato se vuoi, che mi permette di vedere come io e mio marito ci riusciamo a gestire lavoro e due bambini piccoli senza nessun aiuto di nonni, viviamo una vita mediamente agiata, ci mettiamo da parte i soldi, ci andiamo a prendere i figli a scuola alle 4 pur lavorando a tempo pieno entrambi, e vedo che in Italia tutto questo è impossibile. E allora mi viene voglia di urlare che non deve essere così per forza: che c’è un altro modo di vivere, e che forse il cambiamento in Italia deve essere fatto dal basso visto che dall’alto non ci si riesce. E mi illudo che a forza di parlarne si riesca a trovare un nuovo modo di fare questo cambiamento, per permettere a donne come Barbara che si sono trovate forzate in una decrescita abbiano la possibilità di offrire un futuro diverso ai propri figli. Ripeto non ho risposte, mi pongo domande e condivido piacevolmente con voi le mie riflessioni e spero la cosa sia reciproca 🙂

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  8. @serena io vedo tutti i giorni amiche/mamme sputare sangue per non perdere il lavoro per i contributi versati finora. poi vedo anche la Gabanelli che intervista la traduttrice che dopo 35 anni di contributi versati avrà 500 euro al mese di pensione, e allora mi chiedo se valga la pena sacrificare la propria vita per questo. o se reinventandomi la mia vita non sarà migliore, come dice melanele. il sistema fa schifo? verissimo, e allora? o vado all’estero, cosa valutata e per ora scartata per vari motivi, (anche questo è un modo di rinunciare in un certo modo, non è personale, credimi, sto solo ragionando sulle varie possibilità), o vivo benissimo a modo mio con la mia adattabilità.

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  9. @barbara, infatti io ho fatto la stessa scelta, perché le mie responsabilità me le sono presa e perché comunque non volevo fare dei figli per poi delegarli ad altri (anche se la società mi offrisse come in inghilterra di tenermeli per la maggior parte dell’anno, la cosa non mi piacerebbe). sul lavoro e il fatto che qui non te lo danno il part time, @supermamma, è vero, ho però alcune amiche che hanno ottenuto il part time, fanno il lavoro senza entusiasmo per il discorso che dicevamo e guadagnando meno sono frustrate ugualmente. per cui credo sia anche questione di come uno è, di dove trovi soddisfazioni e di cosa aspiri a fare nella vita.

    “Se non siamo pronte noi a cambiare, tutto ci sembrerà una violenza”, vero, verissimo. Anche essere ‘tenuti in ostaggio’ di un ufficio per dieci ore al giorno per me è violenza, una grande violenza in un tempo in cui con un computer puoi fare quasi tutti i lavori senza spostarti.

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  10. Serena, ho imparato nella vita che anche la più tremenda disgrazia può essere un punto di svolta e portare cose positive. Subire passivamente le cose lamentandomi non è nel mio stile, e lo spirito di adattabilità mi ha salvato in tante circostanze. Direi che il mio atteggiamento è più del genere “Fotti il sistema” (ehm, spero di non abbassare troppo il tono misurato dei commenti). Cosa che d’altra parte hai fatto tu, trasferendoti in Svezia, 😉

    Dici di tentare di cambiare le cose. Il problema è riuscirci, in Italia. Dove tra l’altro gli uomini in genere guadagnano più delle donne. Dove come dicevi tu, in ufficio si sta ad oltranza.
    Prima di licenziarmi ho chiesto, ho richiesto, ho proposto soluzioni alternative ai miei datori di lavoro, sono andato all’Ispettoranto del Lavoro, mi sono rivolta alla Commissione Pari Opportunità, ho fatto una raccolta di firme tra le colleghe, mi sono iscritta al sindacato. Niente. E allora ho detto “sai cosa? Che vadano tutti a quel paese. Starò comunque meglio senza di loro”. Se questa porta non riesco a sfondarla, allora me ne cercherò un’altra.

    Sarebbe comunque una cosa splendida riuscire ad ottenere una grande diffusione del part-time o degli orari flessibili per uomini e donne, o anche del telelavoro. Ma come avevo già scritto in passato, ho trovato molte barriere a questo genere di soluzioni, anche nelle donne e nei sindacati.

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  11. cara It mom sono tornata dall’olanda domenica, dove vivono mia mamma e mia sorella e anche lei che non è sposata e non ha figli ha il part-time. lavora 4 giorni la settimana perchè negli altri 3 lei vuole vivere! Certo non farà carriera, percheè anche lì chi la vuole farla lavora dieci ore al giorno per sei giorni, ma è una questione di scelte.
    il problema è che qui il part-time non te lo danno, è che come è stato scritto in dimissioni in bianco, ti licenziano solo nell’eventualità che tu possa procreare! figuriamoci se ti fanno lavorare di meno 🙁

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  12. @Serena nel mio caso non sbagli assolutamente, ma penso si fosse già capito 🙂
    Posso fare autoproduzione, posso fare tante cose in casa che mi permettono di risparmiare e quindi abbassare le esigenze economiche della famiglia, ma fatto sta che per poter passare un pò di tempo con mia figlia ho dovuto cambiare vita, e tu sai benissimo cosa intendo. Sono felice? No, non lo sono. Allora perchè ho fatto questa scelta? Perchè volevo una figlia e mi sono presa le mie responsabilità di madre, col lavoro che avevo prima l’avrei vista a male pena nei weekend e il trattamento economico non è che ne valesse la pena, diciamo. Sto facendo qualcosa per migliorare la mia situazione? Si, ci sto provando, e ripeto che sono dispostissima, per non dire orientata, a fare un upshifting.

    @Itmom, ti leggo mentre scrivo. Infatti. Ci sono lavori per cui l’orario è tutto, e se lavori meno semplicemente prendi di meno, e moltissimi altri in cui questo non è vero, e il part time semplicemente non è possibile o è demansionante. Certo, se fossero in molti a richiederlo le cose cambierebbero, ci si ripartirebbe il lavoro in modo più umano per tutti, e qui si torna alle convenzioni sociali e al perchè ci sia bisogno di una società che ti permetta di farlo.

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  13. Serena, io credo che il cambiamento del lavoro vada fatto, senza dubbio, ma non dobbiamo illuderci che verrà fatto con la bacchetta magica all’improvviso. ci saranno dei gradi, come i congedi di paternità, il part time… etc etc. Ma anche il part time sul posto di lavoro secondo te dà la possibilità a chi lo chiede, uomo o donna, di poi avere il lavoro di soddisfazione? Mi spiego, 15 anni fa, in Olanda una mia cara amica faceva l’avvocato in un grosso studio. Ha chiesto il part time e lavorava 3 giorni alla settimana, non perché mamma ma semplicemente perché voleva vivere al di fuori del lavoro, glielo hanno concesso, ma allo stesso tempo per ovvi motivi organizzativi le hanno tolto le cause più grosse. dopo un po’ si è licenziata e ha cambiato vita e lavoro. quindi, quali esempi di lavoro conciliabile con la famiglia proponi. un lavoro di responsabilità richiede la tua presenza (se sei un medico, ad esempio) se fai il part time ti ritrovi a fare lavori demansionati, e allora ti chiedi quanto convenga… sto buttando lì idee, senza preconcetti.

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    • @itmom hai perfettamente ragione a dire che le cose non cambiano con la bacchetta magica in breve tempo, e è ovvio che la nostra generazione deve fare i conti con le condizioni che ci sono ora, però la rassegnazione ad adattarsi è un’arma a doppio taglio che può portarti a perdere volontariamente diritti o privilegi, dipende da come vogliamo chiamarli.
      Il caso della tua amica in Olanda mi sembra il classico caso di dowshifting volontario, nel senso che lei probabilmente avrebbe voluto semplicemente cambiare stile di vita. Qui a Stoccolma ci sono moltissime donne e uomini che svolgono i lavori più disparati che usufruiscono di un lunghissimo congedo parentale, e che usano il loro diritto al part time (80%) nei primi 8 anni di vita del figlio. Il fatto che vieni demansionato non è necessario. I medici possono lavorare part-time se sistema è organizzato in modo da permetterglielo, perché i turni si possono fare anche verticali, e non è che molli necessariamente il paziente con la pancia aperta solo perché ti è finito il turno. Insomma a meno di essere il CEO di un’azienda mi vengono in mente pochi lavori in cui il part time non può funzionare (uno di questi forse è la ricerca scientifica 🙂 )
      Rispetto a tutto il periodo di una carriera di una persona (donna o uomo) il periodo dei figli piccoli è solo una manciata di anni. Passati i primissimi insonni, in cui la produttività effettivamente può essere compromessa, si potrebbe e dovrebbe ritornare perfettamente attivi. Se poi vogliamo fare una scelta di vita indipendentemente dal fatto di avere i figli ovviamente non ho nulla da ridire in proposito, sto semplicemente ragionando su quali sono le ragioni che ci spingono a questa scelta e mi sto chiedendo se siamo completamente coscienti delle conseguenze.

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  14. “Se non siamo pronte noi a cambiare, tutto ci sembrerà una violenza.
    .”
    Questa è in ogni caso una bella frase, Melanele 🙂

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