Se provate a parlare dei compiti a casa con 1000 insegnanti avrete molto probabilmente 1000 risposte diverse. Ci sono quelli che assolutamente no, e quelli che assolutamente si e tanti, e poi ci sono tutte le scale intermedie, ossia tutto ciò che è ragionevole senza esagerare (laddove “senza esagerare” assume un significato diverso di persona in persona). Ma è possibile che non ci sia una risposta chiara in merito? Possibile che nessuno si sia preso la briga di misurare, di valutare in qualche modo, se servono i compiti a casa oppure no? Possibile che dobbiamo continuare a discutere su gruppi WhatsApp e Facebook e possibile che gli insegnanti, che dovrebbero sapere, non hanno una idea comune in merito? I bambini che fanno compiti a casa, vanno effettivamente meglio degli altri?
Facendo un po’ di ricerche in merito, partendo dal sito del ministero dell’istruzione svedese, sono finita agli studi di John Hattie, direttore del Melbourne Education Research Institute all’Università di Melbourne e vice direttore del Science of Learning Research Centre. John Hattie è diventato uno dei maggiori esperti in questo ambito e viene chiamato in giro per il mondo per spiegare i suoi risultati. No, non è un esperto di compiti a casa, ma è un esperto di cosa funziona nella scuola e sopratutto di cosa non funziona.
John Hattie ad un certo punto si è chiesto: possibile che una cosa così importante come l’insegnamento sia basata su cosa pensa il singolo insegnante, e non ci siano delle evidenze scientifiche che possano guidare le scelte pedagogiche più appropriate?
Si è quindi impegnato a misurare l’impatto di qualsiasi metodo/azione/progetto sul rendimento degli alunni. Ha effettuato uno studio a tutto tondo, utilizzando dati da tutto il mondo provenienti da oltre 900 meta analisi, 50000 studi, e raccolti su oltre 240 milioni di studenti. Numeri che snoccioliamo per dire che la statistica dei dati è abbastanza solida. Un aspetto molto importante del suo approccio è che non potendo confrontare valori assoluti, si è limitato a confrontare i valori relativi, ossia il margine di miglioramento che una certa impostazione, o azione, ha sul rendimento scolastico degli allievi. Ha confrontato quindi l’effetto di cose quali: diminuzione del numero di allievi per classe, livello di conoscenza degli insegnanti, l’impatto dell’architettura sull’apprendimento (se ad esempio ha senso spendere moltissime pepite d’oro per costruire degli edifici bellissimi ed estremamente funzionali), spesa pubblica per la scuola, modalità diverse di insegnamento, più test di valutazione, più tecnologia in classe, orari scolastici più lunghi, scelta di alcune materie di studio, eccetera eccetera. Guardando la sua lista è davvero difficile immaginare che abbia trascurato un qualche effetto.
Il suo studio ha immediatamente evidenziato un aspetto molto importante: la maggior parte di questi fattori danno un contributo positivo all’apprendimento degli alunni. In pratica, hanno ragione gli insegnanti a giurare e spergiurare che il loro metodo funziona e ha effetti positivi, qualunque sia il metodo in discussione: il 95% di quello che viene fatto a scuola dagli insegnanti dei vostri figli, aumenta il loro rendimento scolastico. Il problema però è che visto che nulla viene gratis, è il caso di capire quali sono i fattori che hanno un’incidenza maggiore e valutare anche in merito agli effetti secondari che un certo approccio provoca, ossia al contorno in cui il tutto avviene.
Perdonatemi il paragone, ma è come dire che si cerca di pulire un pavimento utilizzando uno spazzolino da denti. Certamente si osservano dei miglioramenti e il pavimento risulterà un po’ più pulito di prima, ma se si utilizza una scopa o uno spazzolone o meglio ancora un aspirapolvere di ultima generazione, i risultati saranno decisamente più apprezzabili. Quindi la domanda a cui John Hattie vuole rispondere è: quali sono i fattori che hanno un impatto maggiore sull’apprendimento degli alunni?
La spesa pubblica
Ad esempio si è soliti pensare che basta aumentare la spesa pubblica per riuscire a risolvere il problema della scuola. Viceversa, confrontando gli investimenti pubblici nelle scuole dei vari paesi è evidente come la spesa pubblica non incide significativamente sul rendimento scolastico degli alunni. Questo è vero per spese al di sopra di un certo minimo che secondo Figura 4.3 a pagina 26 corrisponde a circa 40000 USD. Visto che ve lo state chiedendo: l’Italia spende più del minimo, anzi spende più della Finlandia, però sappiamo bene che gli studenti finlandesi in media raggiungono risultati migliori degli studenti italiani (ma non solo). Guardando la distribuzione del rendimento scolastico con la spesa pubblica per la scuola, il risultato è spaventosamente piatto. Il problema infatti non sembra essere in quanti soldi vengono spesi, ma in come vengono spesi i soldi. Quindi richiedere a gran voce più soldi per la scuola non porta necessariamente ad un miglioramento dei risultati scolastici raggiunti dagli alunni.
195 fattori di impatto
John Hattie ha stilato una lista di fattori di impatto per ciascuno dei 195 approcci analizzati. Se l’indice di impatto è negativo significa che peggiora il rendimento scolastico. Se l’indice di impatto è positivo significa che migliora il rendimento scolastico. Nell’analisi dei suoi dati John Hattie suggerisce che un approccio con un indice inferiore a 0.4 è da considerarsi irrilevante e ha il ruolo di distrarre da ciò che è davvero importante. Di conseguenza consiglia insegnanti e istituti scolastici di concentrarsi solamente sui fattori con un impatto maggiore di 0.4.
Ora siccome vedendo la lista mi è caduta la mascella, vediamo insieme qualche esempio tra quelli più votati nel sondaggio cui avete risposto in tanti nel nostro gruppo Facebook:
Il numero di allievi in classe
Ammetto di aver avuto un mancamento quando ho saputo che in classe di mio figlio, in prima elementare, erano in 28. Perché diciamolo: come diavolo si fa ad insegnare bene in una classe di 28 bambini, tutti diversi tra loro?
Eppure i risultati di Hattie parlano chiaro: il numero degli allievi per classe ha un fattore di impatto pari a 0.21, ossia molto al di sotto della soglia dello 0.4 indicata da Hattie. In effetti guardando i dati del PISA non si vede nessun miglioramento significativo nel rendimento scolastico quando le classi sono più piccole. Nonostante questo sembri assurdo e totalmente contrario ad ogni senso logico, in realtà la risposta pare sia nel fatto che quando gli insegnanti passano dall’insegnare in una classe con 25 alunni ad una con 15 alunni non modificano quello che fanno; un parametro che si può utilizzare per capire questo fenomeno è quello di misurare il tempo in cui parlano gli insegnanti rispetto al tempo in cui parlano gli alunni; queste misure mostrano che, quando diminuisce il numero degli alunni, gli insegnanti parlano di più invece di lasciare più spazio a loro. Questo in pratica non porta nessun miglioramento statisticamente rilevante nell’apprendimento scolastico degli alunni (ricordatevi lo spazzolino!), e si classifica al 131esimo posto nella lista stilata da Hattie.
Se solo avessimo insegnanti più preparati!
Al primo posto nel nostro sondaggio campeggia la richiesta di avere insegnanti più preparati. Eppure, udite udite, la preparazione degli insegnanti si classifica al 136esimo posto, con un fattore di impatto pari a 0.09. Insomma, aumentare la preparazione degli insegnanti specifica nella loro materia non ha affatto un grande impatto sul rendimento scolastico degli alunni. Il che non vuol dire che insegnanti meno preparati valgono tanto quanto quelli preparati, vuol dire solo che a partire da una preparazione di base nella propria materia, l’approfondimento specifico non ha un grande impatto sugli alunni (no, insegnanti che sistematicamente fanno errori grammaticali nelle comunicazioni alla famiglia non sono un bel vedere, sono d’accordo con voi).
Gli stranieri che rallentano la classe
Sono in molti a pensare che la scuola dovrebbe raggruppare studenti con capacità simili, in modo che quelli più bravi possano andare avanti più velocemente con il programma, mentre quelli che sono indietro possono essere seguiti più da vicino e andare al loro ritmo (ad esempio gli stranieri che non parlano bene la lingua, o quelli che provengono da famiglie con livelli culturali più bassi). In realtà la segregazione in classi di bravura, o tracking, non da i frutti sperati. L’impatto si riduce infatti ad un misero 0.12, posizionandosi al 131esimo posto nella lista di Hattie. Inoltre la segregazione pone dei problemi etici molto importanti, in quanto l’effetto sui bambini provenienti dalle famiglie di livello più basso, è quello di abbassare le loro aspettative in quanto vengono etichettati come “meno bravi” e questo, viceversa, è uno dei fattori più importanti di predizione del successo, o meglio del fallimento scolastico.
La tecnologia in classe
Al quarto posto dei più votati nel nostro sondaggio abbiamo il “inserire supporti moderni e l’uso dei computer in classe”. Non riesco a metterlo in relazione diretta con un unico punto della lista di Hattie. Però iniziamo da basso con il web based learning che ha un impatto di 0.18, poi saliamo all’ 86esimo posto con l’uso di simulazione e gaming con un impatto pari a 0.37, e Computer Assisted Instruction (CAI) con un impatto pari a 0.45. Insomma diciamo che la tecnologia in classe può avere molte sfaccettature, e che i risultati dipendono da come viene utilizzata dagli insegnanti.
A chi servono compiti a casa?
Non è umanamente possibile per me coprire la vastità di fattori discussa da Hattie nel suo lavoro, e nemmeno rispondere estensivamente a tutti i punti del nostro sondaggio, quindi fatemi prendere ad esempio per tutti, quello dei compiti a casa anche per illustrare la complessità che c’è dietro qualsiasi fattore analizzato. Il valore medio del fattore di impatto dei compiti a casa è pari a 0.29, insomma direi bassino considerando le infinite discussioni a cui assistiamo quotidianamente sulla faccenda. Analizzando però il fattore d’impatto diviso per anni di corso, si vede che l’impatto è ancora più basso per la scuola primaria (pari a 0.15) e più elevato per gli studenti liceali (pari 0.64 ossia ben sopra il valore minimo degno di nota di 0.4), ossia gli studenti liceali hanno sviluppato la capacità di organizzare il proprio lavoro indipendente. Capire le motivazioni di questa differenza dovrebbe aiutare gli insegnanti a capire che genere di compiti a casa possono essere assegnati che siano veramente utili agli studenti (leggi anche I compiti nella scuola svedese). Ecco i punti chiave sottolineati da John Hattie:
- I compiti a casa devono servire come momento di ripetizione del lavoro svolto in classe
- compiti a casa che comprendono tasks da risolvere hanno un impatto migliore rispetto ad una richiesta di studio approfondito (ad esempio trovare connessioni, elaborare concetti, fare una ricerca)
- in generale richieste aperte hanno un impatto inferiore rispetto a richieste specifiche
- pochi compiti, frequenti, corretti dagli insegnanti hanno un impatto maggiore sull’apprendimento, ma funzionano meglio per alunni liceali che per gli alunni della primaria, e funzionano meglio per alunni più bravi che per alunni meno bravi (aumentando quindi il gap di apprendimento)
- Il coinvolgimento dell’insegnante nei compiti a casa è fondamentale, non solo per quanto riguarda la correzione ma anche per il tipo di feedback che viene dato dagli insegnanti.
A questo punto vi starete chiedendo quali sono i fattori che influiscono maggiormente sul rendimento scolastico, quindi vi lascio un po’ di link di approfondimento e se vi interessa prometto di approfondire ulteriormente nei prossimi giorni in un post apposito.
The politics of distractions – un pdf da scaricare gratis, con 47 pagine su quali sono i fattori di cui si discute sempre ma che hanno l’unico ruolo di distrarre da quelli che sono i fattori più importanti.
I libri:
Apprendimento visibile, insegnamento efficace. Metodi e strategie di successo dalla ricerca evidence-based: 1
Visible Learning: A Synthesis of Over 800 Meta-Analyses Relating to Achievement by Hattie, John (2008) Paperback
Visible Learning for Teachers: Maximizing Impact on Learning by Hattie, John (2011) Paperback
Visible Learning into Action: International Case Studies of Impact by John Hattie (2015-10-30)
“’insegnare in una classe con 25 alunni ad una con 15 alunni non modificano quello che fanno” ridicolo!!!
prova a dividere 60 minuti in 25 parti e poi dimmi che è lo stesso risultato della divisione per quindici cioè il tempo dedicato al rapporto col singolo alunno quasi dimezza.
sì certo, se io mangio due polli e tu nessuno, in media, abbiamo mangiato un pollo a testa. PERO’ TU CONTINUI AD AVERE FAME
Ikino, temo che occorra rileggere il testo. Il dato non riguarda il tempo che ogni insegnante dedica al singolo alunno, e quindi al rapporto con l’alunno, ma all’impatto che ha un insegnante sull’apprendimento dell’alunno, in classe. Visto che parli di polli, l’analogia con un ristorante funziona benissimo: in un buon ristorante, buono veramente, sia che il ristoratore debba servire 5 commensali, sia che ne debba servire 50, il risultato, l’impatto, quello che ogni commensale si trova sul piatto, è lo stesso. Quello che cambia è al limite come il ristoratore opera. Ad esempio, può finire di impiattare mettendoci più tempo, può uscire a chiacchierare col commensale, ma quello che il commensale riceve quando chiede il piatto X dal menù, è sempre lo stesso piatto X, che sia in compagnia di 5 persone o 50. Il ristoratore in altri termini non decide che, ad esempio, se in sala ci sono 5 persone allora usa un menù con 30 variazioni, se ce ne sono 50, allora usa un menù con 10 variazioni. O ad ogni piatto aggiunge automaticamente un bis gratis, se ci sono solo 10 persone in sala. Nel caso della scuola, quello che è stato rilevato dalle indagini è che il parametro apprendimento in classi più piccole non cambia in maniera talmente evidente da giustificarne l’adozione. Potrà cambiare forse il comportamento periferico (=i tempi di impiattamento), il rapporto personale con l’alunno (=la chiacchierata con il ristoratore), e magari anche l’esperienza positiva (o negativa!) emozionale dell’alunno, ma l’apprendimento, dice la ricerca, resta lo stesso, come il piatto.