Cibarsi è la cosa più naturale del mondo. Eppure è veramente difficile fare in modo che tutto quello che ruota attorno al cibo che acquistiamo per avere energia e salute non sia anche antiecologico.
L’argomento è molto vasto e rientra nel tema dei consumi e dell’economia in generale. Pensando al cibo di cui ci approvigioniamo per la nostra famiglia dobbiamo pensare anche a tutta la filiera, che va dal campo (o ancora prima dalle sementi) fino ai rifiuti che produciamo, passando per raccolta, stoccaggio, trasformazione, imballaggio, distribuzione. Poi c’è tutto il ciclo dei rifiuti prodotti dal cibo che sono un’enormità.
Come genitori probabilmente alcune domande ce le facciamo nel momento in cui introduciamo cibi solidi e avviamo lo svezzamento dei nostri bambini. E’ lì che iniziamo a comprare cibo anche per altri e non solo per noi. Ma il pensiero – è inevitabile – va principalmente alla qualità del cibo e solo in un secondo momento al suo impatto ambientale.
Pensiamo per un momento solo all’agricoltura, che è (o potrebbe essere) la base della nostra alimentazione. Partiamo proprio da lì, dal brodino vegetale che usiamo per le prime pappe. Pensiamo a una patata e a una carota.
Situazione ideale: vado nell’orto e raccolgo una carota e una patata. Magari la patata era già in una dispensa. La metto a bollire, preparo il brodino e poi la minestrina al mio bimbo e il poco rifiuto prodotto (qualche buccia e qualche avanzo) va a finire in una compostiera e torna alla terra. O ancora meglio nel mangime per degli animali. Non avanzo nulla. Tutto a kilometro zero, autoprodotto e senza uso di pesticidi. Personalmente sogno di vivere in una situazione di questo tipo, ma ho il sospetto che se vado avanti così sarà in un’altra vita.
Situazione reale e diffusa: vado al supermercato e acquisto 5kg di patate e almeno 1 kg di carote che sono imballate in reti o in sacchetti di plastica (mi è capitato anche di vedere le carote imballate con il vassoio di polistirolo). Ma quelle carote se prodotte in agricoltura convenzionale probabilmente hanno un peso maggiore di quello che pensiamo: fertilizzanti e pesticidi che appesantiscono i campi (e non solo), raccolta meccanizzata, trasporto, stoccaggio, consegna nei vari punti vendita, kilometri e kilometri, camion, gasolio, bancali, supermercati e centri commerciali etc.. E vuol dire, ancora una volta, rifiuti (almeno l’imballaggio e le bucce).
Tutto ciò significa anche persone che lavorano e quindi famiglie. Io non sono qui a demonizzare chi vive di questo, come si fa? E’ un discorso di sistema ed è davvero difficile.
Secondo me il cuore del problema sta qui: io vorrei cibarmi in modo buono pulito e giusto, per parafrasare Slow Food, vorrei impattare meno possibile sulla terra e non adattarmi a consumi di cibo o di altro che siano compulsivi e frettolosi. Vorrei luoghi di lavoro più sensati per chi sta nel settore alimentare, vorrei una terra più pulita.
Ma ci penso davvero, non perchè io sia paranoica o fissata, ma perchè ho conosciuto molte persone che lavorano sodo per un’economia alternativa, per un’agricoltura che rispetti non solo chi si ciba ma anche la terra e chi la coltiva. Questo, concretamente, significa: niente concimi chimici di sintesi, kilometro zero o quasi zero, poco imballaggio, botteghe locali o gruppi d’acquisto, e significa anche cibarsi solo di prodotti di stagione, chiudendo un occhio e adattandosi un po’ ai ritmi della natura. Sennò che ecogenitori siamo?
E voi ci pensate mai? Come sono i vostri brodini?
Noi abbiamo la fortuna di avere i nonni con l’orto, e le patate le abbiamo caserecce. Per il resto, le verdure in estate ce le regalano sempre i nonni, ma in inverno qui da noi l’orto non riesce molto bene, quindi acquistiamo le verdure. Quando riusciamo, con il GAS da un produttore biodinamico. Quando non riusciamo, quelle BIO e di stagione al supermercato. In un piccolo paese però è veramente difficile, quasi che a volte pensi che davvero valga la pena di metter su l’orto!
@LGO il prezzo di mercato e’ “il prezzo giusto” non il prezzo equo 😛 nel senso che il prezzo equo per come lo definisce FairTrade e’ un prezzo “minimo” non un prezzo massimo, ti dice quanto come minimo devi pagare perche’ certe cose succedano, poi se i produttori o il retail alzano il prezzo rispetto a questo minimo, questo va con le leggi del mercato, e’ un altro discorso.
Premesso che non sono una talebana ma cerco di essere una consumatrice (abbastanza) ragionevole, ci sono dele cose che a volte mi lasciano perplessa, non solo per frutta e verdura.
Un esempio: la centrale del latte di Roma utilizza latte friulano ed emiliano e un’importante marchio emiliano (quello dello spot che esalta la produzione con piccole realtà) lo prende dal Lazio! Ecco in questo caso di beni intercambiabili uno sforzo si potrebbe anche fare…
Cmq leggendo le etichette certe volte si fanno delle vere scoperte.
Comunque, quello del prezzo equo è un discorso che mi piace un sacco. Perché come si fa a stabilire qual è il prezzo giusto di un bene? E’ quello che stabilisce il mercato o quello che tiene conto dell’impatto ambientale delle tecniche di produzione/distribuzione? E magari anche delle consizioni dei lavoratori che hanno prodotto quel bene lì?
Credo, ma anche no, che equo e solidale sia un retaggio di quando i prodotti equi non erano affatto competitivi sul mercato, e bisognava fare leva sulla (buona) coscienza dei consumatori per aquistarli (equi per i lavoratori, solidali per i consumatori occidentali). Poi il mercato è un po’ cambiato ma il nome no.
serena, concordo, e penso anche che solidarieta’, equita’ ed ecologia siano tre grandi traguardi che pero’ non e’ detto che vadano sempre a braccetto, ci sono dei casi in cui bisogna fare una scelta per uno a scapito dell’altro, purtroppo.
sulla faccenda equo e solidale non sono ancora convinta, proprio perche’ penso che equita’ e solidarieta’ sono due cose distinte, anche se convergenti spesso. Se il mio datore di lavoro mi dice, ti pago il giusto stipendio perche’ sono solidale con la questione femminile, io me la prendo e non poco: mi paghi il giusto stipendio perche’ e’ il giusto stipendio, punto, senza condirlo come un gesto buonista.
Il problema vero è che la sostenibilità locale non ha senso. Se la mia rinuncia alla carne d’agnello neozelandese mette in crisi il mercato (globale) l’impatto ambientale potrebbe essere devastante. Con questo non voglio dire che voglio cibarmi solo di agnello neozelandese (manco lo mangio) o che mi rifiuto di mangiare le zucchine che mio padre coltiva nel suo orto a trenta chilometri da qui (saranno mica troppi, trenta chilometri?), ma solo che alcune questioni sono davvero complesse 🙂
Un bel casino.
leggendo il commento di lanterna (che Lorenza ha subito notato, infatti l’Italia è uno dei maggiori produttori di kiwi) ho pensato che spesso quello che manca è l’informazione.
Parliamo di prodotti di stagione ma a volte non conosciamo quand’é la stagione di un prodotto.
Parliamo di km zero ma spesso è difficile capire dall’etichetta dove viene realmente coltivato un prodotto (anche se le normative stanno migliorando)
Parliamo di diete sane, di vegetariano, di vegano, ma l’informazione sul cibo e sull’impatto di quello che mangiamo sembra ancora un discorso per “fissati”
Ne abbiamo di strada da fare, partendo anche da un blog come questo!
@Lanterna secondo me la tua scelta del bioexpress è molto vicina a quanto propongo nel post! e concordo sul fatto che l’orto costi, sicuramente in fatica ed energie e qualche soldo e che non possa darti tutto. L’idea dell’orto era perfetta per rendere l’idea, ma non è percorribile su larga scala, mi rendo conto…
Non sono molto d’accordo su quanto proposto da Bressanini: se facciamo rientrare tutto quello che acquistiamo in uno stile diverso magari ci muoviamo anche in modo più sostenibile, visto che anche la mobilità alla fin fine è collegata al cibo, quindi anche i valori dell’impatto ambientale potrebbero diminuire. Secondo me questi discorsi vagono se vengono legati ad uno stile di vita completo, ad una serie di attenzioni che prendono varie sfere delle ns abitudini (muoversi, mangiare, costruire, consumare…)
@supermambanana io non trovo così ‘pelosa’ la parola solidale. E’ vero che si abusa un po’ (un po’ troppo)e che tutto il bio/eco è pieno di bufale e furbi, ma i vari prodotti fairtrade, unicomondo, altromercato etc hanno alle spalle progetti di solidarietà, quindi non c’è solo un prezzo equo ma anche un sostegno che si da acquistando quei prodotti
Noi abbiamo la fortuna di avere uno dei mercati rionali migliori di Roma a 2 passi, (almeno finché non lo spostano per fare la metro, sigh!). Lì molti banchi hanno prodotti locali, non necessariamente bio ma sicuramente a km molto limitati.
Gli “imballaggi” sono solo i sacchetti di carta dove si mette la frutta, avevano un po’ la mania delle sportine di plastica ma adesso mi sembra stiano diminuendo.
@Lanterna, giusto per informazione i kiwi li coltivano anche in Italia, il Lazio è il primo produttore, ma ci sono anche l’Emilia, il Veneto e il Piemonte! Ormai molti prodotti “esotici” li fanno anche da noi, io ingenua l’ho scoperto quando ho trovato il riso thai made in Veneto! 🙂
il mio brodino (cosi’ come il mio zucchero, farina, uova, carne, vestiti per quanto possibile, detersivo eccetera) sono sicuramente mercato-equo, e al 90% biologico, non sempre a kilometro-zero (molto interessante il link di Lanterna, e molto indicativo del fatto che a volte ci lasciamo prendere dal romanticismo mentre un po’ di analisi non guasterebbe hehe) ma sicuramente a fatica-zero, che per me e’ un bonus 🙂 comprare equo e biologico per me non significa dover cambiare le mie abitudini, visto che i supermercati qui hanno scaffali e scaffali di queste cose (se e’ moda, almeno per una volta e’ una moda che funziona quindi evviva).
A proposito, domanda provocatoria: perche’ in italia si dice “equo E SOLIDALE”? Perche’ aggiungere il “solidale”? Dire equo (come nel resto del mondo) non basta? Mi infastidisce un poco perche’ mi pare aggiunga della retorica buonista che non e’ opportuna, non sto facendo “elemosina” a nessuno se compro le cose col bollino nero verde e blu, sto solo comprando cose con un prezzo equo per tutti. Mi pare una parola “pelosa”, ecco, quel “solidale” 🙂
Sono d’accordo fino a un certo punto.
Pur avendo la possibilità di coltivare un orto, la mia famiglia ha deciso di prendere frutta e verdura dal servizio Bioexpress, che consegna a domicilio. Perché? Perché, a conti fatti, spendevamo meno così: l’orto, se non è un hobby piacevole, costa in sementi, irrigazione, tempo e delusioni. Oltre al fatto che spesso produce verdura, ma di frutta ben poca (giusto fragole e lamponi).
Il servizio di quest’azienda mi piace perché corrisponde ai miei valori: tutta roba italiana e biologica, al massimo per ciò che non può essere italiano (vedi banane e kiwi) si va a prendere nell’equo e solidale.
Però voglio segnalare che ci sono anche altre posizioni, secondo me da valutare:
http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2008/05/05/contro-la-spesa-a-chilometri-zero/
Ecco di nuovo una discussione che ha preso una piega interessante.
Mi sembra che abbia ragione @bagigio a dire che c’è molta strada da fare, e che non sappiamo quali sono i prodotti di stagione, ma a pensarci bene non è che ci voglia moltissimo a scoprirlo, visto che i nostri nonni, e forse anche i nostri genitori, dovrebbero saperlo. Magari parlando di queste cose finisce pure che uno si ricorda di informarsi sull’argomento.
A mio vantaggio vi dico che visto che frutta e verdura sono sempre importate in Svezia, acquisto sempre quelli di stagione, nel senso che è la stagione giusta da qualche parte del mondo in cui è prodotto 😀
Ad esempio confermo pure che il kiwi è prodotto in Italia ed esportato in tutta Europa: qui in Svezia si mangiano solo kiwi italiani! 🙂
Ho letto il link segnalato da Lanterna, e mi ha lasciata un po’ perplessa, forse perché per me è evidente che il km zero non è necessariamente sempre la scelta migliore e per me quello del chilometraggio è solo uno dei parametri da prendere in considerazione. D’altra parte vivo in Svezia e qui frutta e verdura sono necessariamente importati, a meno di cibarsi esclusivamente di radici e tuberi, che dopo un po’ non ne posso più. Non accetto però che in Italia si vendano pomodori olandesi, mentre quelli italiani vengono esportati. Non accetto che i francesi bevano le acque imbottigliate in Italia e gli italiani quelle imbottigliate in Francia. In questo tipo di scelte allora il discorso di Bressanini non ha più senso. L’esempio dell’agnello prodotto in Germania e in Australia non è calzante proprio perché la Germania per produrre lo stesso agnello deve aumentare le emissioni. Manteniamo i piedi per terra. La situazione è certamente complessa, e non è il caso di sparare a zero su degli slogan che hanno la sola ambizione di far riflettere su certe dinamiche.
in questo sono fortunata, mio suocero ha un orto e le verdure del brodino le trovo veramente a km 0 (diciamo a meno di 50 mt!), noi cerchiamo di mangiare verdure di stagione prodotte dal nonno, quando è periodo di verza si mangia verza, quando ci sono le rape si mangiano rape ecc. è un pò monotono ma sicuramente più ecocompatibile! per fortuna arriva l’estate e quantomeno abbiamo più varietà di frutta e verdura, meno male 🙂