Il mese di Ottobre in UK è dedicato alla salute mentale, come il mese di Maggio in Italia – curiosità: lo sapevate? Io, no. È un mese per informarsi, ma anche per chiedere un colloquio gratuito con gli psicologi che aderiscono all’iniziativa, proprio come avviene con la salute dentale o il cancro. Succede da molti anni, come apprendo dal sito, questo Maggio dell’Informazione Psicologica ma non mi era mai capitato di sentirne parlare. Mi chiedo se anche questo non sia parte del tabù che accompagna il parlare di salute psicologica.
In occasione di questo mese, dicevo, è stato pubblicato un rapporto sulla condizione mentale delle donne durante la gravidanza e nei primi mesi dopo il parto. Mentre esiste molta ricerca sui cambiamenti fisici della donna in questo periodo, poco ancora si comprende dei cambiamenti psicologici, e quindi della salute mentale, che accadono contestualmente a quelli fisici. L’inchiesta è stata condotta, in collaborazione con NetMums, uno dei portali genitoriali più noti in UK, da un consorzio di associazioni comprendenti il Royal College of Midwives, un’associazione professionale di ostetriche, e l’Institute of Health Visiting, dove lo Health Visitor è una figura professionale nel settore della sanità che si occupa di promuovere il benessere psico-socio-fisico nella comunità, e che vede il suo massimo impiego nell’accompagnare i genitori nei primi mesi di vita dei bimbi, con consigli su salute, comportamento, svezzamento e via discorrendo.
L’inchiesta in questione ha intervistato oltre 1500 donne e oltre 2000 professionisti fra ostetrici e health visitors sull’argomento “salute mentale nel periodo perinatale”, che in questo particolare contesto si estende dal concepimento fino al primo anno di vita del bimbo.
L’inchiesta rivela una situazione abbastanza preoccupante, perché da un lato le donne che hanno avuto esperienza di malessere psicologico sono davvero tante, e dall’altro, ad eccezione di termini ormai entrati nell’uso comune come “depressione post-natale”, esiste poca consapevolezza di altri problemi psicologici che possono subentrare nel periodo perinatale, e quindi le donne non posseggono neppure il lessico adatto per poterne parlare con i medici, e farsi aiutare.
Per esempio, delle donne intervistate, ben 69% hanno dichiarato di aver sofferto di depressione post natale, e la metà di generica ansia post natale. Il 23% ha sofferto di depressione, e una su tre di ansia durante la gravidanza. Il sintomo di gran lunga più comune è la voglia di piangere, che viene provata dall’81% delle intervistate, ma vengono riportati anche sintomi più seri, ad esempio una forma di agorafobia, per cui ci si è sentite in difficoltà ad uscire di casa, è stata sofferta da quasi metà delle donne, e più di un quarto ha dichiarato di sentirsi in difficoltà a creare un legame con il bambino. Quasi un terzo ha avuto attacchi di panico, e il 22% pensieri suicidi.
Quando è stato chiesto loro di cercare di spiegare le ragioni di questa ansia o depressione, il 22% delle intervistate ha attribuito la loro condizione alla pressione di “fare le cose giuste”, il 21% alla mancanza di aiuto pratico ed emotivo, e solo il 12% ha menzionato i tanto spesso invocati ormoni.
Ora, nonostante chi segue le donne in gravidanza abbia una serie domande chiave da chiedere nei vari questionari per cercare di individuare i soggetti a rischio depressione, queste non paiono altrettanto utili, nell’opinione dei professionisti intervistati, per diagnosticare livelli di ansia o altri problemi psicologici al di fuori della ben nota depressione. La mancanza di consapevolezza di questi problemi nel pubblico fa si che, nonostante il personale medico usi regolarmente tali indicatori, le donne intervistate non si rendano conto che la propria salute mentale viene controllata quanto quella fisica, e questo a sua volta porta alla incapacità o non immediatezza nel discutere il problema durante le visite di controllo. Tanto che il personale sanitario stesso non si sente particolarmente sicuro di riuscire a riconoscere i campanelli d’allarme durante i colloqui.
Se si passa ad analizzare le risposte relativa a quando e se viene chiesto aiuto durante questi periodi di malessere, la situazione diventa ancora più preoccupante: più di un quarto delle intervistate si è resa conto di non sentirsi bene psicologicamente, ma molte (quasi un terzo) ha scelto di non chiedere aiuto. Chi ha chiesto aiuto, non si è aperta totalmente: il 46% per esempio ha dichiarato di non essere stata totalmente onesta nel riportare il proprio stato. Fra le cause di questa omertà, principalmente imbarazzo (43%) il non voler ammetterlo neanche con se stessi (35%) e al terzo posto la paura di essere private del bambino: una reazione irrazionale, certo, ma quante volte è venuto in mente anche a noi nei momenti di massima ansia?
Parlando invece di come questa situazione di malessere è stata superata, a parte il classico tempo che cura tutte le ferite, la seconda risposta più frequente è stata il “riconoscere” il malessere. Dargli un nome.
Dare un nome alle cose, aiuta non solo a decidere il piano di azione, ma anche a vederle arrivare, a prepararsi all’impatto. E quindi la raccomandazione per il personale medico, a seguito dei risultati di questo rapporto, è stata quella di incoraggiare le mamme in attesa a compilare un “Wellbeing Plan”, un Piano di Benessere.
Questo Piano di Benessere è stato concepito come un analogo del “Piano del Parto”, che Serena ci ha illustrato qualche tempo fa. In quello, la mamma viene invitata a pensare e dichiarare tutte le opzioni che vuole scegliere al momento fatidico, quale metodo per alleviare il dolore, se allattare o meno, come si vuole partorire (in piedi, in acqua, a casa) chi si desidera in sala parto, insomma tutto quello che probabilmente in quei momenti non saremo in grado di riportare lucidamente perché in altre faccende affaccendate.
Ecco, il Piano di Benessere vuole invece far in modo che la mamma in attesa si fermi a considerare le difficoltà psicologiche che possono subentrare nei mesi a venire, quindi a dare un nome a quello che può accadere, attutirne l’impatto con la conoscenza a priori, e mettere a punto una strategia per affrontarle. Il tutto in due pagine, chiare e semplici, senza caricare cognitivamente troppo, ma allo stesso tempo cercando di considerare le più comuni ipotesi.
Se avete voglia di consultarlo, e magari di diffonderlo e usarlo, l’originale Piano di Benessere come stato pensato è a questo link. Vi riassumo qui i punti salienti.
Il piano comincia con una introspezione: uno spazio in cui scrivere in breve come ci si sente al momento, con delle faccine emoticon per descrivere i propri sentimenti correnti.
Una lista dei sintomi più frequenti aiuta a rendere consapevoli di quello che si può provare di lì a breve (voglia di piangere, sensazione di essere sopraffatta, irritabilità, carenza di concentrazione, calo di appetito, problemi a dormire o oppure sensazione di energia estrema, pensieri che si accavallano, ansia, calo di interesse nelle cose che normalmente si fanno, ma anche, come casi più estremi, pensieri suicidi, o ossessivi, come l’iniziare a seguire rituali compulsivamente).
Una volta appreso questo, la futura mamma è invitata ad analizzarsi, a chiedersi, e a scrivere, se si considera come una persona che possa accettare il fatto di non stare bene, e anche di buttare giù un paio di righe su come materialmente potrebbe cominciare una conversazione su questo tema in caso di imbarazzo. Così come per la compagnia in sala parto, si è anche invitati a scrivere il nome di chi verrà contattato per aiuto in prima istanza, come una dichiarazione “Io chiederò a … e parlerò con lui/lei di quello che mi preoccupa”, e il nome di un “piano B” se al momento la persona contattata non si dimostra particolarmente attenta e di supporto.
Il piano fornisce poi una lista di possibili strategie per affrontare questi periodi bui e viene chiesto di contrassegnare quelle che sono più consone alla propria persona (ad esempio: parlare con un medico, cominciare una dieta, iniziare un’attività rilassante come yoga, chiedere a qualcuno di aiutare con il bambino (!!) eccetera).
Il piano si conclude con uno spazio per indicare numeri utili di associazioni o di medici che possono essere di aiuto, e con un bel riquadro di “cose da ricordare” in cui si enfatizza che sentirsi male emozionalmente è comune, non c’è nulla di cui esser imbarazzate, che può succedere a tutte, anche coloro che non soffrono di malattie mentali, e che essere preparate a quello che potrebbe accadere è provato essere di grande efficacia, quindi “well done” per aver fatto il primo passo in questa direzione (il well done non manca mai da queste parti, si sa).
Insomma, in quanto persona che ha patito abbastanza di ansia durante la prima gravidanza e soprattutto nel primo periodo di maternità (voglia di piangere, celo, imbarazzo a dichiarare di non sentirsi legata al bimbo, celo, terrore di uscire per strada col pupo, celo), mi sento di dire che una cosa del genere mi avrebbe aiutata moltissimo, soprattutto a rendermi conto che non ero “strana” o sola, ma era tutto nel grande quadro.
Così come mi sono divertita (perché mi sono divertita molto) ad analizzare i cambiamenti nel mio corpo e a confrontarli con i manuali, sorprendendomi sempre della precisione di questo meccanismo ad orologeria, mi sarei soffermata un po’ di più a considerare che c’era un altro meccanismo, nella mia testa, da tenere sotto controllo, e mi sarei sentita meno impreparata allo tzunami di pensieri negativi che ne sono seguiti.
Eggia.
Anche per me il punto era proprio li.
E infatti bisogna parlarne, il piu’ possibile!
Io non riesco ancora a capire il reale motivo della reticenza che si trova in giro, a livello mondiale, su questa cosa.
@Raffaella, quanto hai ragione: non solo sono trattate con i guanti durante la gravidanza, ma poi al momento della nascita tutta l’attenzione si sposta sul bimbo, è un po’ uno shock in un certo senso, nessuno ti chiede più come stai, ma se il pupo mangia.
@Camomilla, certo che è fisiologico, in massima parte, ma se nessuno te lo dice, come fai a saperlo? Come fai a non preoccuparti? Il cruccio è tutto lì, per me.
@Silvia, che bello 🙂 le health visitors a me dicevano sempre, qualsiasi cosa stai facendo col bimbo, stai andando alla grande 🙂 io andavo alle visite per sentirmelo dire praticamente hehe
La mia piccola peste ha un’intelligentissima pediatra che ogni volta che ci vede mi chiede come sto io, la mamma. Perchè un bambino può essere felice solo se lo è anche la sua mamma (parole sue!). E credo questo sia il problema alla base di molte depressioni post parto o ansie, che si caricano le neomadri di pressioni eccessive senza mai chiedersi come loro vivano la situazione. Allattare a ogni costo, a richiesta etc, identificarsi in tutto e per tutto con il bimbo. Non per tutte noi è la sioluzione giusta e questo nulla toglie al nostro essere mamme.
Neppure io sapevo che Ottobre fosse il mese dedicato alla salute mentale ed in effetti concordo che sia strano che nessuno ne parli.
Che poi di questi tempi un giretto gratuito da uno psicologo me lo sarei fatta volentieri!!
Ovviamente concordo con tutto quanto e’ stato scritto nel post.
Bisogna parlare, parlare parlare parlare parlare. Molti dei malesseri psicologici legati al post parto sono comunissimi, anzi oserei dire che, visto che sono legati agli sbalzi ormonali in corso, sono fisiologici. Perche’ vergognarsene? Perche’ nasconderli?
Insomma, abbiamo ampiamente sdoganato la PMS, perche’ non i disturbi del primo purperio?
Come al solito sapere ed essere preparate fa solo che bene.
Una cosa che ho purtroppo notato, e’ anche che spesso le neomamme/neopapa’ si imbattono e si affidano nella loro ricerca di aiuto in figure che a pensarci un po’ meglio non sono ne’ preparate ne’ hanno come loro scopo quello di aiutare il benessere psicologico dei neogenitori.
Non me ne vogliate ma penso soprattutto a due figure:
1. il/la pediatra. Il/la pediatra e’ un medico, che cura le malattie dei neonati/bambini/adolescenti, non e’ un pedagogo e a maggior ragione non e’ uno psicologo. Ovvuio che nel parlarci mettera’ sempre in primissimo piano la salute del bambino. Ovvio e sacrosanto. Ma esiste anche la salute della neomamma/neopapa’ e il pediatra non e’ formato per prenderla in considerazione.
2. Li/i consulenti di allattamento. Vorrei dire tante cose in proposito, ma rischio di esagerare. Allora dico soltanto riflettiamo sul nome: consulenti di allattamento. Il loro nobilissimo scopo e’ quello di promuovere (piu’ o meno a tutti costi) l’allattamento al seno. Tutto il resto e’ secondario per loro. Non lo dimentichiamo.
Detto cio’ voi direte, bene brava tu si che avrai affrontato bene il post parto.
Ma ovvio neanche per niente, anche io come SMB celo(avute) tutte: ansia, agorafobia, disturbi del sonno, pianto incontrollate e che ho fatto? ho cercato aiuto da professionisti, ne ho parlato liberamente?
Ma ovvio neanche per niente, non avevo ben chiaro a chi rivolgermi e pensavo fossi sbagliata io.
Poi ho cominciato ad informarmie a parlarne (avete visto quanto scrivo nei commenti, figuratevi quanto parlo!!), con mio marito, con le amiche, con mia madre, con degli sconosciuti su vari forum/blog(!!) e tutto e’ pain piano e’ scemato. E’ fisiologico.
Se cosi’ non fosse stato (se non fosse scemato) non sarebbe stato fisiologico a quel punto l’aiuto di proeffionisti e’ davvero necessario.
Che bello sapere che in altri paesi qualcosa si muove in questo senso! E’ già qualcosa sapere che, almeno altrove, problemi che hai vissuto e che hai superato nella solitudine più assoluta, siano riconosciuti. Mi ha sempre stupito come le donne in gravidanza siano trattate come delle bambole da chi le circonda, perfino dalle altre donne della famiglia. Tutte li’ a sorridere, a dire quanto si è contente per l’arrivo del piccolo, a parlare tutt’al più di mal di schiena e gambe gonfie. Nessuna che ti dica: guarda che dopo ti aspettano momenti anche bui. Preparati e sii forte. E, in genere, nessuna che ti faccia parlare un po’ di come stai e di quello che provi. Tutto ciò evidentemente è’ ritenuto ancora un tabù, come sfatare il mito della maternità.