That’s amore – l’eterna contraddizione della cucina in UK

Se vi piace mangiare, e vi sfiziate a cucinare, allora gli UK sono il vostro paradiso.

Fermi tutti, basta con i fischi, piano con i sassi, non mi sono fumata niente di psicotropo, né, come sostengono alcuni, ho definitivamente disconosciuto il mio amatissimo paese, insieme all’amatriciana e le orecchiette con le cime di rapa (per non parlare delle recenti scoperte, tipo le Tegole valdostane, grazie a Silvietta che ha colmato questa profonda lacuna in tutti noi qui a GC). Nossignore, lo dico e lo ribadisco: non mi sono mai divertita tanto a cucinare, e assaggiare, da quando sono qui.

Se avete la pazienza di seguirmi, vi pregherei di considerare vari fattori.

Innanzitutto, il melting pot, il crogiolo di culture ed etnie, che ha immensamente arricchito la gastronomia nazionale, e di conseguenza colorato e rallegrato i negozi di alimentari. Al che la domanda “che cuciniamo stasera” si declina a vari livelli di astrazione, partendo da “in che lingua cuciniamo stasera”, a che latitudine ci spostiamo, e poi, una volta stabilito quello, possiamo parlare di che cosa nella fattispecie, senza perplessità, perché scendere al super dell’angolo basta e avanza per trovare curcuma, cardamomo, tapioca, soia, aceto balsamico di Modena, o spaghetti di riso. Oppure, per i pigri, il ristorante, che lungi dall’essere la nota di colore, offre garanzie di qualità, in quanto i clienti innanzitutto, prima che i gestori, sono “autentici” e possono fare la differenza. La cucina inglese, anche, quella che non si sa se esiste o non esiste, con tutte le variazioni e le contaminazioni, quanto è interessante, con le sue combinazioni ardite, i suoi sapori mai scontati. Il tutto crea una varietà tale che non ci si annoia mai, tanto che, per dire, i boys, quando siamo in vacanza in Italia, pur essendo formidabili forchette, assaggiano di tutto, gustano col professionismo dei revisori della guida Michelin, al quindicesimo giorno di ottima cucina italiana (pugliese, non so se rendo l’idea), immancabilmente cominciano ad aver meno interesse, e prima o poi uno dei due chiede “mamma quando facciamo un curry?”.

Un altro fattore è l’accessibilità di materiale di buona qualità. Certo, si vende di tutto, ma il biologico dilaga, per dire, così come il mercato equo, procurarsi cibo che appaga i sensi e l’etica diventa veramente facile, tanto da diventare un peccato non approfittarne. La materia prima locale è anche notevole: il mio amico P. gestore di un pluripremiato ristorante italiano mi mostra con orgoglio le capesante delle Orcadi, scelte di sua propria mano, bellissime e succulente, soddisfatto di come saranno speciali cu u salmurigghiu della ricetta della sua mamma, originale garantita 100% made in Palemmo.

L’informazione è anche ottima e abbondante, le etichette mediamente accurate e informative, la sensibilità verso intolleranze o diete particolari altissima: entrare in un ristorante, non necessariamente di grido, anche medio, e dichiararsi, che so, celiaci, vede tipicamente l’entrata in campo del personale di cucina che sciorina ingrediente per ingrediente i piatti che consigliano e quelli che no. Per non parlare di scaffali e scaffali al supermercato, che si prendono cura di ogni tipo di dieta e inclinazione alimentare. L’educazione alla buona cucina è onnipresente, i programmi televisivi si moltiplicano e sono seguitissimi, e in genere non prevedono lo/la chef di turno che fa bella mostra delle sue doti, ma entrano nel merito, spiegano le combinazioni alimentari, rivelano trucchi, o, quelli che io preferisco, attingono alla storia di ogni piatto, per rivelarne lo spirito. L’ultima serie del sempre ottimo Jamie Oliver, per esempio, noi ce la siamo seguita con i boys come un documentario, non tanto per imparare ricette, ma proprio a scopo educativo: abbiamo percorso virtualmente la Gran Bretagna, scoperto come sono nati certi piatti tipici, appreso come le varie immigrazioni, o i contatti con le colonie, hanno trasformato e arricchito ogni ricetta, insomma una storia del Paese partendo dai suoi piatti, assolutamente da consigliare se la trovate in giro.

Insomma, qual è il problema allora? Il problema è che qui, se il cibo e le sue implicazioni culturali e sociali si conoscono benissimo, le questioni sollevate da Yeni Belqis nello stupendo post di ieri, per esempio, sono conoscenza comune, d’altro canto si cucina poco.  In media la popolazione cucina con poca sicurezza, si sente in difficoltà a metter mano ai fornelli, e, a parte i fondamentali, non osa affrontare la preparazione un piatto partendo dagli ingredienti di base. La cosa ha implicazioni che forse possono sfuggire: non conoscere gli ingredienti di base, come arrivano nei mercati, come si manipolano, significa anche non saperli scegliere, e non saperli conservare e utilizzare al meglio, diventa un problema di igiene alimentare, non soltanto nutritivo.

Il fatto è che questo non è un problema di mancanza di risorse, quanto di mancanza di conoscenze: i genitori di ora sono lontani una o due generazioni dal tempo in cui si apprendevano le tecniche culinarie e le nozioni di base di conservazione e scelta dei cibi “per infusione”, semplicemente gironzolando in cucina da piccoli mentre gli adulti cucinavano.

È anche, o forse soprattutto, come molte cose in UK, un problema di classi sociali. Cucinare bene diventa qualcosa di elitario, qualcosa che si fa per diletto, per hobby, roba posh, roba da ricchi. Ed è questo argomento, quello della ineguaglianza sociale, più che quello immediato della salute in declino della popolazione, stranamente forse per come lo vedremmo noi, che è stato il fulcro dell’emozionante intervento in parlamento proprio di Jamie Oliver qualche anno fa, davanti appunto alla commissione di lavoro sulle ineguaglianze sociali: le classi meno fortunate hanno accesso forse a risorse, fra sussidi e altro, come non succedeva una volta, ma non hanno accesso alla conoscenza, alla possibilità di usare queste risorse per nutrire la propria famiglia in modo salutare e completo, invece di devolverle in cibo spazzatura di facile accesso. La crisi alimentare è tale, e l’ingiustizia sociale che ne deriva di tale portata, diceva il buon Jamie, che lo Stato deve prendersene carico: così come, durante le due guerre mondiali, fu instaurato il Ministero per il Cibo, per aiutare a razionare gli alimenti, allo stesso modo oggi c’è la necessità di crearlo di nuovo, il Ministry of Food, per diffondere conoscenza e accesso a principi nutritivi di base, per creare iniziative nelle scuole, per raggiungere capillarmente tutti, specie i bambini, che possono essere la chiave di svolta, i bambini di oggi possono prendere in mano la situazione e insegnare ai genitori quello che hanno disimparato nelle generazioni.

L’impatto di Jamie Oliver fu notevole: le iniziative ci sono state davvero, a molti livelli, dalla proposta di reintroduzione della “food technology” come materia obbligatoria nella scuola superiore (alla primaria lo è dal 1988), con reclutamento e training di insegnanti esperti in nutrizione e igiene, a tutti i livelli, ai fondi stanziati per extra classi di cucina per la primaria da fare dopo scuola (il mio boy one ha frequentato quella di primo stadio l’anno scorso in terza), a iniziative a livello di comuni e regioni (qui quella della mia Liverpool ad esempio) a nuove leggi che regolamentano il pasto a mensa nelle scuole.

L’iniziativa, o le iniziative, sono state accolte con varia attitudine dalla popolazione. Dal punto di vista educativo, il consenso è stato unanime: il riconoscimento che recuperare, o acquisire da zero, questo skill fosse importante, almeno quanto l’uso di tecnologie o di mezzi di comunicazione, è molto diffuso. E non legato al genere:  la materia “economia domestica” era stata soppressa anni fa, come anche da noi del resto, in nome di una sua non rilevanza alla vita moderna per via di una connotazione troppo legata al genere, fra le altre cose, ma in una realtà come quella corrente in UK questo pericolo viene meno. In un sondaggio svolto tempo prima, all’interno di uno studio sulla popolazione e le attitudini al cucinare, ad esempio, il 98.5% delle donne e il 95.3% degli uomini intervistati riteneva molto importante insegnare ai ragazzi a cucinare (99.2% e 97.6% riteneva importante insegnarlo alle ragazze), e anche se ci vogliamo vedere per forza una questione di genere, le differenze sono troppo piccole per ritenerla significativa.

Dal punto di vista pratico, però, il discorso si è declinato differentemente, e ci vedo anche qui, in modo interessante, un parallelo con quello che dicevamo il mese scorso sui vaccini obbligatori. Da un lato, lo Stato si rende conto che qualcosa serve alla popolazione, e si sente autorizzato ad intervenire, anche con misure coercitive. A mensa non sono più ammessi cibi considerati non consoni. Il menu deve prevedere una certa combinazione di nutrienti. Ai bimbi non è più consentito (questa una raccomandazione, che molte scuole hanno fatto propria) portare per merenda da casa non solo l’ovvia barra di cioccolata o sacchetto di patatine, ma anche merendine o barrette ai cereali, o persino torte fatte in casa, soltanto un pezzo di frutta. Chi porta il pranzo da casa vede il contenuto del cestino monitorato regolarmente. Dall’altro lato, tuttavia, l’imposizione dall’alto, in questo caso di restrizioni alimentari, non è vista di buon occhio da tutti, il libero arbitrio dovrebbe essere salvaguardato anche in questo caso, secondo alcuni, proprio come abbiamo notato per i vaccini. Io so quello che fa bene a mio figlio, io e solo io decido su questo aspetto. La retorica del “mio figlio non mi mangia” si applica in pieno: genitori preoccupati che i figli non tocchino cibo in mensa passano surrettiziamente hamburger e barrette di cioccolato a ricreazione attraverso i cancelli della scuola. Proteste sulla falsa riga di “Jamie torna alla tua vita agiata e ai profitti del tuo ristorante e lascia stare i nostri bambini” non sono isolate. Anche opinionisti noti e apprezzati sono dubbiosi. E prima di bollare queste manifestazioni come segno di scarsa sensibilità, vi prego di considerare cosa accadrebbe se la mensa scolastica del vostro pargolo, che si nutre solo di pasta al filetto di pomodoro e caragrazia se la mangia, decidesse di bandire la pasta asciutta, con voi consapevoli che non alzerà forchetta, e che tremate al pensiero di come tornerà a casa affamato, afflitto e stanco.

Come concludere questo contributo, se non con la solita, mia considerazione favorita, cioè che la realtà è più complessa di come la si dipinge, e val sempre la pena dimenticarsi delle “storie” di facile consumo e pensare fuori dagli schemi? In questo caso ad esempio: molto facile sarebbe cadere nell’illusorio rimpianto dei bei tempi andati, di quando i bambini dietro il grembiule della mamma la guardavano preparare manicaretti, mentre la società moderna sempre di corsa, sempre fuori casa, la mancanza di valori tradizionali, i maledetti cibi confezionati, le catene di fast food dilaganti, signora mia che tempi. Innanzitutto, per gli UK, questo non si applica del tutto, la preoccupazione che la capacità di cucinare fosse carente fra le classi rurali che cominciavano a spostarsi nei centri urbani risale al 1780, secondo scritti dell’epoca. In secondo luogo, la retorica, la “storia” dei bei tempi andati è una retorica infida, perché rimette di nuovo tutto in mano ad un passaggio di conoscenza unidirezionale, e limitato all’interno di una logica familiare, tipicamente a stretto appannaggio delle donne di casa. Avere il coraggio di abbandonare questa visione nostalgica, di mulini bianchi e mamme sapienti dee domestiche, tuttavia, potrebbe significare aprirsi a nuove opportunità ancora più efficaci e di spessore sociale, con l’interesse per la cucina e il mangiare sano, proprio come tutte le altre conoscenze nei vari settori (perché dovrebbe essere diverso?) che scaturisce dalla scuola, ma anche da una famiglia dinamica e versatile, dai contatti con altre culture, dai viaggi, da amicizie, e anche, perché no, da informazione trasmessa dai media. Non è così alieno tutto ciò, non solo, permette di allargare la propria base di conoscenze molto al di là della “cucina della mamma”, per quanto buona essa possa essere, e senza compromettere altre conquiste sociali: mi pare una situazione win-win.

Un’altra facile trappola è guardare con compiacenza alla situazione UK, contenti magari che in Italia no, non è così per noi, e ritenere pittoresco, ad essere benevoli, un popolo che non sembra interessarsi alla buona cucina, un valore così radicato per la cultura italiana, che loro ritengono superfluo o comunque non parte integrante del tessuto della società. Non dimentichiamo però che tutto è relativo, come si dice, e che a casa nostra ci sono altri valori che noi riteniamo altrettanto non degni di farci perdere il sonno, e magari questo rende noi altrettanto pittoreschi agli occhi altrui.

E come post scriptum, una provocazione: vi siete mai chiesti come si vive in un Paese in cui, nella popolazione tra i 45 e i 64 anni, soltanto un terzo degli uomini e metà delle donne sono normopeso, e dove il 36% dei bambini dai 7 agli 11 anni è obeso, tanto da meritarsi il triste primato di essere il Paese al primo posto in Europa per l’obesità infantile? No? Beh, guardatevi intorno allora: questa è l’Italia.

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20 thoughts on “That’s amore – l’eterna contraddizione della cucina in UK”

  1. In effetti la mia vacanza in Cornovaglia, dopo molti anni di assenza, è stata soprattutto un sorpresa gastronomica. Vent’anni fa era impossibile mangiare bene ed anche cucinare bene, quindi sì, molto è cambiato.
    Qui le raccomandazioni e le campagne ci sono, ma si infrangono contro il muro del “non mi mangia” per partito preso, al punto che una recente iniziativa, celebrata da settimana di cibo dichiaratamente bio e/o filiera corta è stata accolta da un coro di mugugni. Peccato che, a ben guardare, il menù era esattamente identico a quello normalmente previsto, che è già bio/filiera corta ove possibile, solo esplicitato (cetrioli bio anziché verdura di stagione, pennette bio al pomodoro bio anziché pennette al pomodoro e così via…).

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  2. Non só come siano le mense scolastiche …

    Comunque il menú descritto da Wonderland é quello che ci propone tutte le settimane il nostro meraviglioso (in senso molto ironico) caterer qua.

    Quello che due anni fa ha convinto l’amminstrazione dell’istituto (centro di ricerca semiprivato/parastatale) che poteva nutrirci “abbassando i costi ma mantenendo la qualitá costante” visto che il governo aveva tagliato tutti i sussidi ….

    E infatti noi ci portiamo i panini da casa, o gli avanzi della cena.
    E non siamo i soli, per fortuna che essendo tutti adulti possiamo mangiare quello che ci pare al lavoro.

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  3. @wonder 🙂 ti offendi se ti dico che Londra e’ Londra e’ Londra? L’Inghilterra, viceversa, ha dei ritmi un tantino diversi, e, come confermava Rape’, le scuole mi sembrano aver incorporato meglio le guidelines, le salsicce o il mac’n cheese alla scuola dei miei non li ho mai visti in 4 anni, ma ho visto molti brasati viceversa 😛

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