È vero che la comunicazione online ci rende più concentrati su noi stessi e meno attenti agli altri? Cosa succede in una comunicazione che non possa contare sul linguaggio del corpo?
È vero che la comunicazione in rete è in parte impoverita, è vero che manca delle sfumature che la comunicazione in presenza permette. Guardiamo però ad essa come a un linguaggio che sta evolvendo, più che come a un fatto compiuto.
È vero che è più povera di elementi non verbali — manca il corpo, manca la faccia, mancano le inflessioni della voce. Ma è interessante vedere come la comunità dei comunicanti si organizza e inventa ogni giorno modi di arricchire di comunicazione analogica le conversazioni online. Le faccine, le espressioni gergali che indicano sentimenti e stati d’animo eccetera. Insomma: siamo all’inizio, stiamo a vedere.
E comunque la comunicazione non è mai priva di un livello non verbale: anche il tempo che impiego a rispondere, per esempio, è un elemento non verbale che integra il messaggio. E se fate caso, a molti di noi ricevere un messaggio scritto in lettere maiuscole fa l’effetto di una vera e propria aggressione verbale! E poi ci sono le immagini, e i colori, e la grafica.
Per offrire un punto di vista alternativo a quello per cui internet è un universo che risucchia le persone e le sottrae alla relazione col prossimo, cito una ricerca di qualche anno fa del Pew Internet and American Life Project. L’indagine, condotta attraverso interviste telefoniche, smentì che con Internet le persone si allontanino dall’impegno nelle proprie comunità locali e nei luoghi di aggregazione. Dimostrò anzi che un intenso coinvolgimento nelle relazioni on line si accompagnava spesso a una forte partecipazione sul territorio, a un impegno nel sociale e in politica. Le persone che cercavano punti di incontro in internet conoscevano e frequentavano i luoghi di incontro e di impegno della loro città. La partecipazione alle discussioni su blog e social network si accompagnava alla disponibilità a confrontarsi con culture diverse e idee politiche diverse. Tutt’altro dal ripiegamento su di sé, insomma.
Qualcuno, a proposito di quella grande mole di scambi di contenuti che avviene in rete ogni giorno, ha parlato di “economia del dono”. Io, voi di Genitoricrescono e tantissimi come noi, ogni giorno scriviamo i nostri pensieri online e mettiamo in circolazione materiale e idee che saranno utili a qualcun altro. Chi ce lo fa fare?
Mi ricordo di un sonnacchioso pomeriggio di un primo gennaio, io stavo smanettando col mio blog per risolvere un problema nell’impaginazione, del quale non riuscivo a venire a capo e per il quale avevo bisogno di modificare un pezzo di codice. Roba da semiesperti. Provavo e riprovavo ma non trovavo la soluzione. Scrissi una richiesta di aiuto su un forum. Mi rispose una persona che mi diede un consiglio utile, ma non ero in grado di attuarlo da solo: così, in tempo reale, mi seguì nel lavoro, passo passo, fino alla soluzione. Probabilmente anche lui non aveva di meglio da fare, ma passò due ore del suo capodanno a risolvere un problema di uno sconosciuto. E lui rimase uno sconosciuto per me, e non c’era nemmeno la possibilità che potessi ripagarlo o essergli riconoscente in qualche modo. Ecco: perché ci impegniamo tutti in questa impresa a titolo gratuito? Perché compiliamo gratuitamente voci di una enciclopedia collettiva senza nemmeno metterci la firma e poter godere di un po’ di gloria? Perché in rete “gratuito” non è sinonimo di “disinteressato”: lo facciamo perché sentiamo nostro tutto questo e ci sta a cuore tenerlo vivo. Perché, come dico sempre, in rete sopravvive chi collabora, non chi sgomita per emergere: la competitività non paga come nel mondo “là fuori”.
(Per chi fosse interessato ad approfondire questi aspetti della vita online, Marco Aime e Anna Cossetta hanno scritto per Einaudi un bel libro che consiglio: “Il dono al tempo di internet”.)
Tutto questo c’entra qualcosa anche col fatto che nel web concediamo fiducia a delle persone che vogliono entrare in contatto con noi, o accettiamo una transazione su eBay con un venditore sconosciuto, o teniamo in considerazione le recensioni di utenti per scegliere un ristorante. In questi casi la fiducia non è evidentemente l’atteggiamento più razionale, ma sembra che i criteri per cui l’accordiamo non siano peggiori di quelli che usiamo quando le persone le vediamo in faccia. Ma, in virtù del fatto che si impegna in una conversazione, siamo portati a concedere all’altro una sorta di “fiducia virtuale”. Non è credulità, è una prova: una posizione di apertura che poi negozieremo, ritireremo o confermeremo in base a precise competenze cognitive e in base alle nuove informazioni che riceveremo.
Il problema della fiducia l’hanno studiato bene Gloria Origgi, filosofa al CNRS di Parigi, e il sociologo Diego Gambetta: si può capire come in questi anni diventi una questione particolarmente interessante.
Non sottovalutiamo, dunque, il tipo di vicinanza che si sperimenta on line. La psicologia sociale sa che esiste una prossimità psicologica che non coincide necessariamente con quella fisica, ma che è importante. La cerchiamo, ne abbiamo bisogno. Mi sono occupato in passato delle narrazioni on line di persone vittime di un trauma collettivo, che avevano visto sgretolarsi le proprie case, la propria comunità, la propria identità. In molti casi poter raccontare la propria storia, poterla condividere su Facebook, sui blog, con tanti che vi avevano partecipato e con molti altri ancora che non la conoscevano, è stato di importanza vitale. Molti di loro mi hanno raccontato quanto sia stato importante persino per la loro salute poter restare connessi tramite un social network (ne parlo in questa rivista, a pag. 6).
Insomma, è fuorviante parlare di relazioni “vere” e relazioni “virtuali”: queste ultime sono vere in un altro modo, ma possono essere davvero psicologicamente rilevanti.
Mi rendo conto che quello che sto dicendo riguarda, più che i bambini, la generazione dei genitori. Ma penso che quando cerchiamo di aiutare i nostri figli ad avere un’esperienza in rete utile e serena, dovremmo considerare che stiamo parlando non solo di un luogo dove si perde tempo, ma di un mondo che può essere pieno di risorse: e che per questo richiede un’assunzione di responsabilità. Non è solo scambiarsi sms. E noi non siamo solo fruitori di quello che ci entra in casa: siamo anche gli autori.
Spesso alcuni di noi usano la rete come quando, in automobile, qualcuno ci taglia la strada o procede troppo lentamente: nel chiuso dell’abitacolo ci lasciamo andare a improperi e gesti che mai ripeteremmo se il destinatario ce l’avessimo davanti, magari più grosso di noi. La distanza fisica e l’immediatezza della comunicazione — è molto facile lanciare insulti contro qualcuno senza prendersi un po’ di tempo per pensare a quello che si dice — fanno sì che sui nostri monitor scorra anche tanta irragionevole violenza verbale, anche diretta contro i più deboli.
C’è tanta strada da fare, e tutti dobbiamo imparare ad occuparci della manutenzione di questa risorsa.
Ma alla salute di quel mare immenso nel quale trepidiamo a pensare che i nostri figli navighino, partecipiamo anche noi. Ciascuno di noi può decidere se farne un mare un po’ più sano e ricco di biodiversità, o un po’ più inquinato e mortifero.
– Massimo Giuliani, psicoterapeuta, Centro Milanese di Terapia della Famiglia. www.massimogiuliani.it –
Ho letto gli ultimi articoli di Massimo Giuliani che condivide le sue riflessioni sulla vita e le relazioni che si muovono nella rete.
Percepisco che questo suo discorso “a puntate” si sta sviluppando come un unico discorso unitario e coerente, fondato nelle sue premesse, professionale e contemporaneamente affettuoso, rispettoso, gentile.
Apprezzo molto l’idea che ciò che la tecnologia ci mette a disposizione sia un bene collettivo di cui ci possiamo sentire responsabili e che prenderà la forma che sapremo dargli. E’ un’idea molto importante da condividere che può unire persone anche molto diverse tra loro, anche molto distanti nel tempo o nello spazio, verso un obiettivo comune di significativa importanza sociale.
In questo senso possiamo pensare alle relazioni in rete, nelle sue diverse forme e qualità, come a qualcosa che si pone in una linea di sostanziale continuità e coerenza con gli altri ambiti della vita.
Da adulti possiamo pensare quindi, nel nostro ruolo di educatori, di non dover fare nulla di nuovo, nulla di più di ciò che serve per educare alla responsabilità verso se stessi e gli altri.
E se qualcosa in più si può fare è trasmettere un po’ di entusiasmo verso questa socialità del web che è ancora giovane, in un tempo dove siamo tutti un po’ spaventati dal futuro e dalla carenza di prospettiva.
Bombardata da note , commenti , articoli e addirittura video che pare riescano solo a trovare difetti e pericoli associati all’uso degli strumenti di comunicazione moderni , non posso fare a meno di notare come questi commenti così negativi debbano somigliare a quelli di chi , millenni orsono , deve aver detto e pensato lo stesso dell’uso della parola scritta .
Mettere in discussione l’ordine stabilito fa paura , e generare allarmismi innesca un noto circolo vizioso che fa .. “comprare” . Proprio per questo sono piacevolmente sorpresa .
Sono più che lieta di leggere gli articoli del collega che , controtendenza non per anticonformismo ma “armato” di evidente competenza in materia , spiega in modo chiaro e accessibile anche ai non addetti ai lavori com e orientarsi e cosa pensare di questo nuovo potente strumento .
Bellissimo approccio , sano , serio , da divulgare .