Quando non si può partecipare

Lo sport è soprattutto pazienza, costanza ed equilibrio. Non poter partecipare a una gara si trasforma, con l’aiuto di un bravo allenatore, in un’occasione di crescita.

© foto di clappstar flickr.com utilizzata in licenza Creative Common
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Aspettando mia figlia all’uscita della palestra ho avuto un piccolo flash back e mi sono ritrovata a pensare ad un argomento ostico.

Vedevo i bimbi più piccoli giocare nei paraggi della palestra, ognuno con le sue caratteristiche caratteriali e le proprie risposte ai giochi; qualcuno più attivo, alcuni seduti, altri più isolati. Ho associato spontaneamente i ricordi dei giochi da piccola e, per associazione, alcune delle partite giocate da grande. Incontri vinti, set persi, sfide difficili a cui non ho partecipato.

In tutte le discipline sportive (soprattutto durante la fase agonistica) bisogna fare i conti anche con i momenti negativi. Non parlo solamente di sconfitte, allontanamento dai primi o abbassamento delle prestazioni; mi riferisco principalmente alle competizioni a cui non si è potuto prendere parte, alle gare viste dalla panchina o a quelle a cui si è arrivato tardi (per carenza di forma, per un malanno, perché fuori età).

Da parte dell’atleta guardare la partita dalla panchina è quanto di più atroce possa esserci -e non voglio esagerare – per paura di non essere compresa. Preferiresti farti amputare una gamba piuttosto che rimanere seduta in tribuna, pagheresti fiori di tangenti pur di modificare quella regola piccolissima e vincolante, vorresti conoscere il Dottor House di persona per guarire nel giro di quattro ore. E invece nulla.

Esser costretti all’immobilità forzata è una prova di carattere non da poco, soprattutto se la passione sportiva è tanta. Ti senti di aver perso tutte le occasioni della tua vita, solo mancando un appuntamento: peggio di un generale che perde la battaglia, ti senti il colpevole della sconfitta in guerra. E se da un canto puoi comprendere se la mancanza è dovuta a scarso impegno, non riesci ad accettare il destino infausto che non ti permette di cambiare gli eventi.

Chi fa sport impara presto che il risultato della quasi totalità dei casi è vincolato all’impegno profuso e al lavoro svolto prima della prova. Molto spesso i bambini, dovendosi confrontare con questo aspetto, faticano non poco a proiettare l’utilità dell’allenamenti sul futuro (anche a breve termine): l’aspetto ludico prende il sopravvento, non è distinta la fase preparatoria da quella competitiva. Col passare degli anni si sviluppa la parte propedeutica e allenante, in vista di una verifica delle abilità acquisite.

In questa ottica la partita è vista come prova ma anche come valvola di sfogo giocosa, un’occasione per trovare lo sbocco dell’energia fisica e mentale accumulata. Perdere questo treno è un po’ come accorgersi di aver perso tempo.

In realtà è un aspetto molto formativo del carattere, perché permette di mettersi alla prova su argomenti spigolosi quali pazienza, costanza, equilibrio. E’ educativo sapere di non poter gridare come un ossesso la propria frustrazione, ma essere obbligato a convogliare questa energia in qualcosa di più costruttivo: incitazione ai compagni, riposo, preparazione teorica.

Concludendo: con il l’aiuto di un buon allenatore e con il giusto approccio educativo anche le situazioni più insoddisfacenti possono trasformarsi in occasioni di progresso personale.

 

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