Siamo portati a considerare sinonimi le espressioni “fare” un mestiere ed “essere” chi fa quel mestiere.
Faccio l’idraulico o sono un idraulico, faccio l’impiegato o sono un impiegato, faccio l’insegnante o sono un insegnante, faccio il dirigente o sono un dirigente. Se parlando tra adulti la differenza può essere ritenuta irrilevante – finché il cambiare lavoro spesso non ci farà passare la voglia di “essere” lasciando quella di “fare” – quando parli del tuo lavoro con i tuoi figli e figlie la cosa ha una notevole importanza.
Io sono prima di tutto, per loro, il padre, e poi sono anche un editor. È complicato spiegare che si può essere entrambe le cose, e allora diciamo, come per correggerci, che facciamo un certo lavoro. Logicamente è presto, per bambini e bambine, per interessarsi alla possibilità di essere più di una cosa, o a una eventuale gerarchia tra le cose che siamo. Rimane però, come conseguenza spesso inevitabile, che tra quello che facciamo e quello che siamo può esserci un conflitto che figli e figlie capiscono bene.
Prima di tutto è abbastanza innegabile che, nella società occidentale capitalista, si può decidere di diventare padre sensatamente solo dopo che si fa qualcosa per lavoro. Un reddito è necessario alla paternità, oppure padre e figlio o figlia (ed eventuali altri componenti del nucleo familiare) se la passeranno piuttosto male. Messa così, avere un lavoro è oggi la condizione per essere padre; e non mi venite a dire che questa idea sia tanto facile da digerire. Ovviamente non sto parlando di una condizione “tecnica” o biologica, ma sociale ed economica: un padre senza lavoro è considerabile, e considerato nella maggior parte dei casi una sfortuna, una disgrazia.
Quello stesso lavoro che fai però, come padre, ti porta via molto spesso tempo, energia, attenzione che preferiresti indirizzare verso tuo figlio o tua figlia. E mentre ancora il congedo parentale per i padri in Italia è poco usato e poco efficace, è durissima spiegare i tanti “no” che si è costretti a dire a figlia o figlio per un motivo d’orario, o di costo, o di presenza – insomma, a causa del lavoro che fai, o della cosa che sei.
Io preferisco mettere in ordine d’importanza le mie scelte, che purtroppo sono anche l’elenco delle priorità per le quali darsi da fare, delle preferenze da difendere. “Sono tuo padre e faccio l’editor”. Non sono padre come sono editor, e non voglio certo essere un editor che fa il padre.