Politica e scelte: come poter essere buoni padri in Europa

Caso vuole che, proprio mentre stavamo preparando il tema del mese e decidendo di dedicarlo alla costruzione di nuovi modelli maschili, mi sia trovata a leggere un’analisi europea, dedicata alle strutture culturali e politiche che funzionano da cornice alle scelte che gli individui possono compiere, in alcuni stati europei, in particolare nel delicato momento di transizione alla genitorialità.
Per quanto possiamo dirci e mitizzare il fatto che siano a nostra disposizione un numero infinito di scelte, la realtà ci dice che le possibili azioni alternative di un singolo individuo sono circoscritte ad un limitato range di possibilità, in cui le alternative che egli può percepire dipendono ampiamente dalle passate esperienze e da come esse siano state internalizzate.
Saranno queste concezioni, oltre al contesto istituzionale e politico a far concepire alcune situazioni come “giuste” e “buone” rispetto alle possibili scelte che un genitore può compiere rispetto al proprio ruolo in famiglia e rispetto alla propria vita lavorativa.

Foto Sara* utilizzata con licenza CC BY-ND 2.0

Coppie verso la genitorialità. Come cambia il lavoro per mamme e papà

L’analisi “Couples’ Transitions to Parenthood. Analysing Gender and Work in Europe” di Grunow e Evertsson, in sintesi, ci racconta come – fatta eccezione per la Svezia – negli stati europei considerati nello studio (Svezia, Germania, Olanda, Danimarca, Svizzera, Italia, Spagna, Polonia, Repubblica Ceca), al momento attuale, sia la maggioranza delle nuove madri ma essenzialmente pochi nuovi padri a modificare il proprio impegno lavorativo, nel passaggio alla condizione di genitore, accettando conseguenze negative a livello di carriera o la dipendenza finanziaria dal proprio partner o dal welfare state.
Sappiamo, lo abbiamo già detto, come queste scelte penalizzino professionalmente le donne e contribuiscano a persistenti ineguaglianze nelle società europee.
Abbiamo già espresso il desiderio che le cose evolvano verso una direzione più egualitaria. Ma che cosa può indirizzarci verso questo cambiamento? Come favorire atteggiamenti pioneristici e in sostanza più egualitari nella condivisione del ruolo genitoriale e una migliore e più soddisfacente partecipazione femminile al mercato del lavoro?
E soprattutto, come coinvolge gli uomini o i futuri uomini questa riflessione?

Uguali si, fino a quando?

Lo studio sottolinea come, diversamente dalle generazioni precedenti, giovani donne e giovani uomini oggi abbiano esperienze di vita e competenze abbastanza simili quando formano una coppia e decidono di dare inizio a una famiglia: studiano, vivono le prime esperienze sessuali, vanno a vivere da soli, iniziano a lavorare senza differenze particolarmente marcate in base al fatto che siano donne o uomini.
Quando però si passa alle fasi successive della vita, questa omogeneità tende a venire meno, lasciando spazio a una progressiva ri-tradizionalizzazione dei ruoli familiari (l’ultimo rapporto Istat è molto chiaro a proposito: all’aumentare del numero dei figli, le donne si ritirano sempre di più dal mercato del lavoro, in particolare nei piccoli centri). Solo un fattore sembra funzionare da antidoto: l’alto livello di istruzione raggiunto dalla donna e un suo forte investimento nella carriera professionale (anche quando sia inquadrata in contratti a-tipici e precari).

In Italia

La prospettiva particolare sull’Italia ci racconta qualcosa di più: nonostante emergano segni di un nuovo ideale di paternità, rispetto a cui uomini e donne concordano sul fatto che anche il padre possa prendersi cura del bambino, entrambi continuano anche a pensare che lo stile di cura debba essere fornito in una maniera “materna”, perché la presenza della madre continua ad essere considerata necessaria, fondamentale e la cosa migliore per il bambino, in particolare per la grande importanza attribuita all’allattamento al seno. Il ruolo del padre, concepito e incoraggiato, rimane più un ruolo di supporto, specialmente durante i primi mesi, nei quali la relazione madre-figlio viene considerata essenzialmente simbiotica.
Questo significa che l’immagine del “buon padre” di famiglia sia quella di un uomo che investe maggiormente nel proprio ruolo professionale e nel proprio lavoro retribuito, mentre ci si aspetta che una “buona madre” decida di ridurre i propri impegni professionali con lo scopo di prendersi cura del figlio, anche se ama il proprio lavoro. Questo genere di progettualità viene spesso giustificata col fatto che la donna guadagnava un salario inferiore o aveva peggiori prospettive di lavoro, ma quanto emerge dallo studio è che nel nostro paese, anche in situazioni diverse, economicamente più paritarie, vi è una tendenza della madre a rinunciare alle proprie prospettive perché – nell’ideale – ha capacità “migliori” rispetto alla cura e all’accudimento dei figli.
È un’idea, questa, che genera sentimenti ambivalenti nella donna, tirata tra il desiderio di realizzazione e il ruolo di madre, e che contemporaneamente sminuisce i desideri del padre di poter essere una presenza centrale, nell’accudimento, nella cura, nella costruzione dell’identità e della personalità del figlio al centro di sé e della propria comunità.

Sostenere un cambiamento

Il pensiero mi ha rattristata, profondamente.
Quando parliamo di politiche di conciliazione, parliamo degli asili nido nei primi due anni di vita del bambino, parliamo di 4 giorni di congedo parentale, e poi, nel dibattito su queste misure, che non coprono che parzialmente l’universo mondo dei problemi delle famiglie, rifuggiamo il centro del problema.
Il cambiamento, possiamo osservare il modello della Svezia a proposito, non va solo pensato, ma va incentivato con percorsi continui che incoraggino le donne a credere nel loro valore e contributo fondamentale nel mondo del lavoro e sostengano, incoraggino, supportino gli uomini a capacitarsi del proprio ruolo essenziale e unico nella crescita di ciascun bambino. E questo lavoro non può essere fatto (solo) a livello politico ma è intessuto nei nostri discorsi di ogni giorno. Credere, per esempio, nell’ “amore materno” e in un “istinto materno” che si sviluppa naturalmente, significa sottolineare una certa qualità distintiva della cura materna dovuta all’esistenza di un legame speciale tra la madre e il bambino, che comporta, di conseguenza, mettere da parte il padre.
Creiamo imperativi culturali che ci dividono, indirizzando gli uni al lavoro gli altri alla maternità, perdendo l’inestimabile valore aggiunto di crescere assieme i nostri figli, arricchendoli di un amore uguale, non paragonabile, e delle nostre reciproche differenze.

La politica per la conciliazione, prima che dalle disposizioni di legge, passa dalle parole con cui ci muoviamo e agiamo al mercato, sulle chat, nei commenti ai social: ogni volta che ci arroghiamo una posizione di cura migliore, perché madri, ogni volta che ci stupiamo perché un padre cambia un pannolino, allontaniamo di un passo la prospettiva di una società più uguale, dove una donna, anche quando madre, possa serenamente andare o tornare al lavoro e un padre possa dedicarsi alla cura dei figli, sottraendo tempo al lavoro, senza per questo sentirsi giudicato.

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