Quante volte vi sarà capitato di sentire, se non addirittura di dire, “quelle persone hanno dato più loro a me che io a loro”, tipica di chi torna da un’esperienza di volontariato. Personalmente è una frase un po’ enfatica che sconfina nel luogo comune e, come tale, da snob quale sono, non userei mai. Devo dire però che ha ben più di un fondo di verità (come spesso accade ai luoghi comuni, purtroppo) e, soprattutto ha un pregio nascosto: vale per tutti i tipi di “marginalità” con cui potete venire in contatto.
E non è mica semplice sapete?
Ad esempio: lavoro da un sacco di tempo con le persone con disabilità. Il luogo comune, ahimè non ancora sradicato, vuole che chi lavora con le persone con disabilità sia un bravo ragazzo, che si accontenta di pochi soldi per fare compagnia a “quei poveretti là”. Tu digli che hai fatto l’università, il master, il PhD il perfezionamento a Boston, quello che vuoi… ti danno del tu e sei un bravo ragazzo che ha tanta ma tanta buona volontà.
D’altro canto, si sa, i disabili sono tutti cicciottelli, bonaccioni, affettuosi e teneri come dei bambini.
Che poi di solito è una definizione ritagliata sulle persone con la sindrome di Down e, a parte che non tutti i disabili hanno la sindrome di Down (come invece pensava un mio vecchio compagno di squadra di calcio), è un luogo comune che non vale in assoluto neppure per loro. E soprattutto chi ha figli sa che non sono sempre teneri e affettuosi ma proprio per niente, per cui tocca cambiare anche la similitudine.
Ma non divaghiamo.
Poi due anni fa decidiamo di accogliere alcuni ragazzi richiedenti asilo ed improvvisamente diventiamo tutti dei cinici professionisti del sociale che lucrano sulle spalle del ministero accogliendo dei pelandroni mangiapane a tradimento (quando va ben) e dei potenziali terroristi.
E siamo andati in crisi. Giuro!
Gli attacchi sui social, gli striscioni razzisti appesi al cancello, i giornalisti che vogliono sapere se anche i nostri ragazzi girano con il tablet, e il sindaco che si arrabbia perché magari uno non accetta i lavori socialmente utili, diventano una fatica.
Una fatica tale che ti viene da fare come il sindaco e purtroppo tanti suoi elettori: incazzarsi perché non vogliono fare i lavori socialmente utili, senza magari cercare di capire il perché, cosa gli gira per la testa, senza cercare le ragioni di un atteggiamento. Scadiamo anche noi nel luogo comune: l’africano non ha voglia di lavorare ecc ecc ecc.
Eppure fino al giorno prima facevamo (e ancora facciamo) esercizio di pazienza con il ragazzo con la Sindrome di Down che non vuole venire a sedersi al tavolo a lavorare, e allora chiamiamo a casa, “C’è qualcosa che lo turba? Magari ha mal di denti? Forse è in pensiero per il fratello in ospedale?”
Quindi siamo anche noi come quelli là fuori sono con noi: con i disabili comprensivi, con gli immigrati odio.
E pensare che i volontari in entrambe le situazioni, invece dicono che ricevono molto di più di quello che danno.
Come la mettiamo?
Vuoi vedere che se le persone in generale: indipendentemente dalla razza, dalla religione, dal sesso, dalla situazione di disabilità o meno, se le conosci hanno qualche cosa da darti che non rientra in una categorizzazione prestabilita?
Eppure lo abbiamo anche studiato e lo si legge nei libri dei nostri guru, eppure ci ricadiamo tutti, anche noi “professionisti”. Alla fine forse abbiamo tanta buona volontà e poca professionalità.Che fatica!
Tra le due posizioni non ho ancora deciso. Adesso approfondisco la ricerca e poi vi so dire. Nel frattempo non andate in giro ad usare i luoghi comuni.
Certo che se questo bruttissimo clima contagia anche voi volontari, siamo presi davvero tanto male. Più passa il tempo più mi viene in mente la pièce “Rinoceronte” di Ionesco. Mi raccomando, non trasformarti El Gae 😉
Ci provo.