Vi raccontiamo una storia della Svezia anno 2010. L’articolo è stato pubblicato su Sydsvenskan – quarto giornale nazionale quanto a tiratura – il 6 settembre di quest’anno, ed ha suscitato un gran numero di commenti tra i lettori. Questo articolo lo ha proposto e tradotto per noi una nostra affezionata lettrice Michela. Nel riassumerlo, Michela ha cercato di mantenere l’ambiguità linguistica del testo originale. La lingua svedese, però, presenta notevoli vantaggi rispetto a quella italiana quando si tratta di evitare di parlare di qualcuno come un essere di sesso maschile o femminile, perché ha mantenuto anche il genere neutro. Proprio la parola “bambino”, ad esempio– barn – è di genere neutro.
L’articolo riporta il caso di una mamma che ha deciso di mantenere il sesso del/la proprio/a figlio/a nascosto. Vide, questo è il nome del/la bambino/a è infatti adatto sia a femmine che maschi, e la mamma è assolutamente determinata a continuare su questa strada fino in fondo. Ve lo proponiamo per riflettere insieme su questa scelta un po’ estrema, e volendo anche un po’ eccentrica, ma che ci aiuta a ragionare per assurdo pensando a cosa potrebbe succedere a Vide.
Femmina o maschio? Non ha alcuna importanza, secondo Malin Björn.
Malin ha 31 anni, vive a Malmö, nella Svezia meridionale, ed ha l’affido condiviso di Vide, un anno e mezzo. Con Vide Malin ha deciso di compiere quello che appare come un complesso e, per molte persone, controverso esperimento educativo, ovvero prescindere completamente dal suo essere biologicamente maschio o femmina. Ai giornalisti ed ai lettori del giornale non svela il sesso di Vide, dato che lo considera un fattore inessenziale se non addirittura negativo per la sua crescita, poiché inserisce dalla nascita l’individuo in una categoria ben precisa, con conseguenze che Malin vuole ad ogni costo evitare. “Tutti devono aver diritto a piangere se sono tristi, anche i maschi”, spiega Malin.
Espressioni linguistiche come lei/lui, bimba/bimbo, stellina/piccolino influenzano il pensiero, in modo consapevole o inconsciamente, e portano a trattare i bambini in modo diverso. Se una bambina si fa male la si conforta e si accetta il suo pianto come perfettamente normale, mentre se lo stesso accade ad un bambino lo si esorta a rialzarsi e smettere di lagnarsi.
Un paio di anni fa è stata introdotta nella lingua svedese una nuova parola: ”hen”. Si tratta di un pronome che può valere sia come “hon” (“lei”) che come “han” (“lui”), permettendo di evitare la connotazione di genere quando si parla di una persona. L’uso di questo termine non è ancora molto diffuso, per questo Malin sceglie quasi sempre di parlare di Vide usando il suo nome proprio. Alle persone che chiedono se sia un maschietto o una femminuccia, Malin risponde semplicemente “Si chiama Vide e non ritengo importante definire il suo sesso”.
La scelta di Malin affonda le radici nel suo passato. Cresciuta in una famiglia fortemente patriarcale, è stata costretta molto presto a riflettere su aspetti della crescita e dell’educazione della cui importanza ai fini della formazione di una persona molti possono non accorgersi. Il padre di Vide concorda con la scelta di Malin, anche se non è altrettanto rigoroso nel portarla avanti.
Parlando di se stessa, Malin dice che la definizione che le si attaglia di più è “queer”, dato che non sente il bisogno di definirsi come donna. Prima di parlare della sua identità femminile, infatti, Malin ritiene più importante presentarsi come vegana, amante degli animali, sostenitrice della parità, tutti aspetti che la caratterizzano più precisamente come individuo.
Al momento, la priorità numero uno di Malin è quella di trovare un asilo adatto per Vide. Poiché l’asilo ideale non esiste ancora, Malin sta lasciando annunci nelle bacheche di luoghi di Malmö frequentati da genitori di bambini piccoli per trovare qualcuno disposto a far partire una cooperativa. Se troverà un numero sufficiente di genitori che condividono il suo approccio, potrà aprire un asilo in cui i bambini non vengono divisi in maschi e femmine, in cui ci si rivolgerà loro in forme linguistiche che evitano le connotazioni di genere e il cui ambiente favorirà la crescita di individui a prescindere dalla loro appartenenza sessuale.
Per dirlo con le parole di Malin: “Vorrei un asilo in cui non si parli mai di maschi e femmine. Il linguaggio è importante, ed altrettanto lo è l’ambiente. Ma il fattore in assoluto più importante sono i genitori, perché i bambini si comportano come si comportano gli adulti.”
L’articolo originale in svedese si può trovare qui.
@ CloseTheDoor: preciso che la segregazione non era imposta da nessuno, si era creata tra i bambini. E’ bastato l’atteggiamento “trascinatore” di mio figlio per farla crollare…
Leggendo i vostri commenti, mi sembra che sia necessario sottolineare che nell’articolo non c’è scritto in nessun luogo che la mamma di Vide non vuole dire a Vide se è maschio o femmina, ma che vuole fare crescere Vide in un ambiente in cui le differenze di genere siano secondarie alle differenze individuali. Vista la cultura diffusa, questa mamma ritiene che questo sia possibile solamente tenendo nascosto il genere di Vide. Lei vorrebbe trovare un asilo in cui i bambini non si dividono in maschi e femmine, e in cui ci si limiti ad utilizzare un linguaggio il più possibile neutro, in cui non si facciano riferimenti alle differenze di genere, per permettere a tutti i bambini di trovare la loro strada. Per assurdo la maggiorparte delle persone che hanno lasciato un commento critico qui dichiarano proprio di crescere i figli in modo libero rispetto a condizionamenti di genere. Quindi ne deduco che in realtà siete tutti d’accordo con la mamma di Vide, anche se tentate di raggiungere lo stesso obiettivo in un modo diverso. Dico bene? 😉
“Per altro stiamo parlando dello stesso bambino che è riuscito a coinvolgere tutte le femmine della sua classe nei tornei di calcio dell’intervallo, MENTRE PRIMA VIGEVA UNA FERREA SEGREGAZIONE”.
😉
“Ma voi ne sentite così tante di frasi come “non piangere che sei un maschio” o “non correre che sei una femmina”? Io vedo bambine che fanno arti marziali e bambini che fanno corsi di danza, senza problemi.”
Non so dove vivi tu, dove sto io (Veneto), ricevo via Facebook il seguente messaggio da un’amica: “Dove iscrivereste un bambino di 5 anni ad un corso di ginnastica artistica?” E’ seguita una decina di commenti del tenore “Ma proprio ginnastica artisticaaa?” finché è intervenuto il marito-padre dicendo che suo figlio è un vero maschio e gli piace stare in mezzo alle ragazze. 2010 eh, ragazze!
Ma voi ne sentite così tante di frasi come “non piangere che sei un maschio” o “non correre che sei una femmina”? Io vedo bambine che fanno arti marziali e bambini che fanno corsi di danza, senza problemi. Tendenzialmente dico a tutti i miei figli “corri”, quando possono correre, “non correre” se non possono (non è il luogo adatto, c’è un pericolo…).
Però dico anche a mio figlio Giorgio di essere cavalleresco, nel senso di avere rispetto delle sue amiche. Mi ha molto colpito un giorno che siamo tornati a casa con un gruppo di suoi compagni di scuola: erano 5 maschi e una femmina (altre stavano arrivando con le rispettive madri). I maschi si sono messi a scorrazzare avanti e indietro, la femmina era più interessata a chiacchierare. L’unico che è rimasto a parlare con lei senza scorrazzare avanti e indietro con gli altri è stato mio figlio, e conoscendolo ho capito che per lui era un gesto di gentilezza nei confronti della sua ospite. Io trovo questo atteggiamento un esempio di giusta interpretazione della differenza di genere e non vorrei affatto appiattirlo. Per altro stiamo parlando dello stesso bambino che è riuscito a coinvolgere tutte le femmine della sua classe nei tornei di calcio dell’intervallo, mentre prima vigeva una ferrea segregazione.
@Alessandra: per chiarezza, ho parlato di “affido” nel senso di custodia. Il/la bambino/a è suo/a biologicamente, solo che, non vivendo col padre, ne ha la custodia condivisa.
Non è tanto lo sperimentare sui bambini che mi lascia perplessa. Tutti obblighiamo i figli entro regole e comportamenti. Alcuni sono più anomali di altri, ma non è detto che l’omologazione a tutti i costi sia una cosa buona o cattiva a prescindere. Io per esempio da piccola ero esonerata dall’insegnamento della religione cattolica a scuola, ed ero l’UNICA della scuola, allora. Le bambine della mia classe mi chiedevano se era vero che ero come un cagnolino, in quanto non battezzata 😉
E’ che ne so troppo poco, ma a naso mi sembra che uno sviluppo armonioso della personalità non possa prescindere dall’identità di genere. Quello che mi sento di voler combattere sono i vincoli che nella nostra società vengono posti basandosi su pregiudizi legati al genere. Voglio che i miei figli crescano sereni, maschi e femmine facendo quello che più li appassiona (la mia figlia maggiore adora gli scarafaggi e gli scorpioni, non esattamente un passatempo da femminuccia, se vogliamo). Voglio abbattere ostacoli, e non so (sinceramente, non so) se questo passa per la negazione del genere.
Mah!, eppure questa donna, per avere un* bam in affido dovrebbe aver superato controlli psichiatrci… Già il fatto che faccia quest’esperimento (BRRR) per reazione ad un padre troppo “connotante”, o qcs del genere, mette paura…
L’essere maschio o femmina è una questione psichica complessa, ancora non ben chiara, ma non si limita ad essere solo un fatto biologico o culturale.
E’ una questione delicata e importante.
Io penso di essere prima una donna e poi tante altre cose. Il fatto che la mamma sperimentatrice ci tenga ad essere considerata prima altro che donna lascia trapelare che ha una concezione deformata di cosa significhi essere donna, o ha problemi con la propria percezione di sé!
Certo che una cosa sono le misteriose e sacrosante differenze uomo-donna e ben altro i pregiudizi o condizionamenti culturali; ce n’è di scemissimi, di scemi e forse anche di sensati però!
Siamo d’accordo che sono queste misteriose differenze alla base dell’amore? siamo attratti da ciò che è differente da noi o no? Chi è attratto SOLO dal simile come minimo ha qualche insicurezza no?
E’ talmente vero che molti dei condizionamenti culturali e dai pregiudizi, anche scemissimi, nascono proprio per l’angoscia che il/la propri* figli* cresca confus*.
E tutta quest’angoscia, spesso non consapevole e rozza, non sarà comunque per affetto? Proprio perché “sentiamo”, ad un livello molto profondo, la grande importanza della chiarezza di genere per i nostri figli?
Una volta chiarito questo e una volta certi che nostr* figli* cresce in un ambiente che favorisce questa chiarezza di genere, poi non avremo certo problema che giochi con giochi considerati “dell’altra parte”: può essere un gioco a connotarne il genere?
Ma dai! Certo se è maschio e lo vestiamo ogni giorno da bambina e se femmina e la priviamo della possibilità di giocare con le bambole qualche problema avrà, ma sopratutto derivante dal fatto di avere un genitore manipolatore (come sembra essere la suddetta mamma amante del neutro)!!! Gli oggetti in sé non condizionano nulla….
Scusate la lungaggine
Mah, io invece la vedo un po’ come Serena: se questa madre se la sente di provare a vedere in che momento nasce la curiosità dell’infante verso la sessualità, che male c’è? Io non credo che Vide ci metterà ancora molto a capire che alcuni hanno il pisello e altre no, probabilmente l’ha già capito. Quello che trovo molto bello è che la madre cerchi di evitare un condizionamento a priori, anche se lo ritengo utopistico.
Detto questo, a casa nostra ciò non avrebbe molto senso: a parte avere le mestruazioni, non ci sono cose “da femmina” o “da maschio”, io e mio marito ci dividiamo i compiti in base alle attitudini e alla forza fisica (io un mobiletto angolare IKEA non riesco a caricarmelo sulle spalle per appenderlo, ma lo monto volentieri!).
Penso che l’identità sessuale passi per altre vie, non certo per la mollettina rosa o la macchinina.
Non so, a me tutti gli estremismi, anche piccoli e anche apparentemente innocui, lasciano perplessa.
Decidere di ignorare l’identità sessuale (vabbé, magari il bambino/la bambina non lo saprà mai, ma è comunque estremo arrivarci), evitare il rosa, o usare solo quello, togliere la tv (o lasciarla accesa tutto il giorno…).
Ci sono cose in cui credo e cose che vorrei (pace, uguaglianza, ecc…) ma sempre prima di tutto in fondo si deve guardare ai bambini facendo il loro bene e non seguendo semplicemente un ideale.
Io ho un armadio dove c’è rosa, grigio, arancione, blu, vestiti da maschio e da femmina, due figlie a cui cerco di insegnare la libertà e a cui dico che potranno fare tutto ciò che vogliono col giusto impegno, non mi piace la tv, e fosse per me l’abolirei, ma loro la guardano, in fondo è giusto, è giusto che un figlio faccia anche le sue scelte, entro un certo limite perché alcune responsabilità non può sceglierle, ma entro un certo limite…
Ho stabilito che il tempo per la tv è limitato, ma non nullo, controllo i programmi che guarda, ma non li censuro: se è un cartone che mi sta bene (da dora, a esplorando il corpo umano, ai numerotti, ecc) li guarda da sola, se è un programma che non conosco o non condivido tanto (e la pubblicità è sempre tra questi) sto con lei e le spiego il mio punto di vista. In fondo non sarà sempre nella cupola chiusa di casa nostra, dai cugini la tv è accesa ogni secondo, dalla vicina ha visto persino i simpson (che qui io proprio non tollero), non posso crescerla solo nelle mie convinzioni, ma posso darle una chiave di lettura.
E vale per tutto. Per la tv (i simpson non mi piacciono, ma in fondo se puoi capire che quel che fanno è sbagliato e quindi non puoi farlo tu, forse sei anche abbastanza grande per vederli), per il loro abbigliamento (vuoi vestirti con la tuta del cuginetto? bene. Ti piacciono più le scarpe marroni degli stivaletti rosa? perfetto. Vuoi la gonna rosa per andare da nonna? ok. Ho sempre detto a mia figlia di non chiedere a me se piace una cosa, perchè è lei che deve metterla!).
Insomma, certe cosa dobbiamo sceglierle noi, ed è giustissimo, ma per altre… ecco, a volte secondo me chiudiamo troppe porte per non dargli un valore sbagliato dandogli un non valore pesante. Non puoi vedere la tv, non ti compro hallo kitty, non ti dico se sei maschio o femmina.
Anche in questi casi il discorso che è una cosa solo nostra è valido: in ogno caso li condizioniamo su cose che per loro non sono un problema, anche se nel senso opposto! Dare diritti ai figli a volte vuol dire scendere a compromessi con i nostri stessi ideali, perchè sono nostri e non loro!
Per esempio io sono contrarissima per mille motivi alle vecchie fiabe classiche, sempre evitate. Ma un giorno in libreria mia figlia ha voluto proprio quel libro, biancaneve, cenerentola, la sirenetta (mamma mia la sirenetta che razza di storia maschilista!).
Ho buttato giù il boccone e l’ho comprato. E mi ha stupito quanto è poi stata critica mia figlia nelle sue domande /per esempio, perché la scarpettadi cenerentola non si trasforma come tutto il resto?) e mi ha fatto piacere trovarla d’accordo poi con alcuni miei èunti di vista. Ma se le avessi detto no? Avrei perso l’occasione di spiegarle ciò che penso, e lei l’avrebbe solo idealizzato desiderandolo di più.
Ecco, non so nemmeno se sono ancora in tema…
Penso che nel timore di rimanere intrappolati nei condizionamenti culturali e nei luoghi comuni si rischi di cadere dell’errore opposto: l’azzeramento di ogni differenza, la svalutazione delle peculiarità e delle qualità specifiche di genere per il fatto che queste differenze per troppo tempo sono state solo lo strumento per esercitare una prevaricazione. Tuttavia, un conto è trasferire una cultura di genere che faccia percepire al bambino/a la possibilità di poter sperimentare ed esprimere i suoi bisogni, desideri ed emozioni in quanto piccolo individuo e non in funzione del sesso di appartenenza, un conto è negare che la differenza di genere è parte integrante dell’identità di ciascuno, esiste ed è anzi da valorizzare. Il problema è che la valorizzazione nella nostra società passa attraverso forme deformate e che non vanno a toccare le qualità vere dell’essere maschio o femmina.
Ricordo che a proposito del diventare genitori la bravissima dottoressa che conduceva il corso di accompagnamento alla nascita a cui partecipai anni fa, per rispondere ai vari racconti delle future mamme che in quella fase di attesa qualche volta si sentivano come marziane rispetto ai loro compagni, un giorno ci parlò del mito greco di Giove che colpì come un fulmine la mia immaginazione di allora: nella mitologia greca- diceva- Giove partoriva i figli dalla testa. Cosa voleva dire? Quello che ora (dopo essere diventata madre) potrebbe sembrare una banalità: madre di diventa dall’istante in cui si scopre di avere un figlio dentro di sé e da lì inizia quel viaggio di trasformazione fisica ed emozionale (qualche volta anche non facile) che dura tutta la gravidanza e oltre. Il percorso di un uomo- altrettanto affascinante e potente – è più graduale e almeno all’inizio meno fisico, più cerebrale. Qualunque coppia credo abbia sperimentato questa diversità. Ecco, io penso che occorra ripartire da QUESTE differenze. Rifletterci su, amarle e capire che c’è un equilibrio bellissimo e misterioso che nulla ha a che fare con le discriminazioni, il rosa, l’azzurro, la carriera, le veline ecc. Intendo dire che se è giusto e necessario liberarsi dagli stereotipi culturali allora è altrettanto importante riappropriarsi dei valori archetipici che stanno alla base di questa differenza e che ci fanno essere prima di tutto esseri umani e poi uomini e donne rispettosi e in grado di apprezzare le rispettive diversità in quanto scritte ancora prima di noi.
Trovo fuorviante in generale la maggior parte dell’approccio all’identità sessuale (dei bambini, degli adulti).
Ci sono scuole di pensiero (i teorici del cosiddetto “gender”) che ritengono che l’identità sessuale delle persone non sia determinata in via primariamente biologica, ma in via esclusivamente culturale. Per queste persone, l’appartenenza a un sesso piuttosto che a un altro dovrebbe essere scelta come un paio di scarpe sugli scaffali di un supermercato (e per inciso i “modelli” tra cui scegliere non sarebbero due -maschio e femmina-, ma svariati). E la stessa appartenenza può essere cambiata a piacere allo stesso modo. “Purtroppo” (per costoro) la società preesiste e dunque la maggior parte dei bambini si ritrova vittima di un complotto teso a far sentire maschi i maschi e femmine le femmine.
Ebbene, io trovo che tale modo di vedere l’identità sessuale sia prima di tutto FALSO, cioè contrario alla stessa biologia umana, poi PERICOLOSO, cioè portatore di molti più problemi di quanti non speri di risolverne, infine IRRESPONSABILE, cioè rischia di fare danni molto profondi nella psiche dei bambini che dovessero incappare in simili educatori. Purtroppo questo tipo di IDEOLOGIA (l’ideologia è il contrario della scienza) sta prendendo sempre più piede in molti strati della società. Ci sono stati d’Europa (la Spagna, ad esempio) dove le parole “padre” e “madre” non possono essere pronunciate in ambito scolastico: bisogna dire “adulto di riferimento”, come se il fatto che finora tutto il genere umano abbia visto la luce grazie a un padre e a una madre fosse solo una spiacevole coincidenza, che finalmente potremo correggere nei laboratori di ingegneria genetica. Lo trovo peggio di ogni incubo orwelliano, ma è qui, è il nostro presente. Nella neolingua anche “padre” e “madre” sono delle parolacce.
Chiarisco, a scanso di equivoci, che la questione della pari dignità tra i sessi per me non è mai stata un obiettivo: l’ho sempre data per acquisita. Cioè io per prima sento di avere questa dignità e mi comporto di conseguenza.
I miei figli vengono trattati con poche differenze per quanto riguarda il consolare, il genere di mansioni domestiche attribuite loro (che variano a seconda dell’età e non del sesso, cioè: quando si raggiunge una certa età, si hanno determinate mansioni), i giochi sono tutti a loro disposizione e non impedisco certo a chiunque di prendere e giocare con ciò che vuole.
Per altro, per quanto con le lievi sfumature dovute all’abbigliamento casual, i maschi sono generalmente vestiti da maschi e le femmine da femmine. Se hanno jeans, scarpe o magliette unisex, hanno anche tagli di capelli e altri dettagli connotati nel genere. Soprattutto, non mi sognerei mai di far credere loro che non ci siano due sessi diversi a cui ciascun essere umano deve appartenere (fatte salve alcune alterazioni genetiche rarissime).
Io stessa faccio un lavoro autonomo e ho una grande autogestione dell’ambito lavorativo, ma sono certamente – e per scelta condivisa con mio marito – il genitore che si occupa maggiormente degli aspetti di cura dei bambini. Sono una mamma e ritengo importante fare il mio ruolo da mamma. Mio marito non si aggira per la foresta con una clava in mano: anche lui ha un lavoro autonomo, si occupa dei bambini in altro modo, ma è comunque presente. Ciò per dire che chiaramente in casa nostra ci sono un padre e una madre, non due genitori interscambiabili, ma comunque non siamo neppure lo stereotipo del sessismo.
Per altro, se invece di essere genitrice di un/una treenne, la signora svedese si trovasse in casa un/una sedicenne, si renderebbe conto che gli ormoni possono essere così indisciplinati da lanciare messaggi piuttosto precisi circa la propria appartenenza a un sesso piuttosto che a un altro.
Premetto subito che l’esperimento in se’ e per se’ non mi piace, io non farei mai una cosa del genere a mia figlia (che infatti chiamo TopaGigia…). Credo anche io che il genere faccia parte di chi siamo, MA… i bambini non hanno il concetto di genere fino intorno ai 2-3 anni. Non si pongono proprio il problema, così come vedo che mia figlia non ha ancora, a 17 mesi, il concetto di più grande o più piccolo. Tratta tutti gli altri bambini allo stesso modo, cerca di passare i giocattoli al parco a fagottini di due mesi che dormono e vuole infilarsi nelle partite di pallone di quelli ben più grandi.
Trattare il/la bambino/a (oh Serena, come ti capisco! vorrei anche io qui un neutro!) in modo indipendente dal suo genere fino a che non si ponga lui/lei il problema secondo me è una sfida splendida. E trattarlo/a indipendentemente non significa togliergli/le qualcosa, ma lasciargli/le tutte le possibilità aperte. Così non ho problemi a mettere a mia figlia un vestito o le mollete nei capelli, ma voglio applaudirla felice quando a una festa sceglie dalla scatola dei pensierini da portare a casa la ruspa invece del bambolotto (applaudire il fatto che abbia fatto una scelta, intendo, e che abbia preso la ruspa piena di entusiasmo), cosa successa proprio ieri ovviamente fra le facce indignate dei genitori presenti.
Il fatto è che senza rendercene conto diamo messaggi di genere ai nostri figli anche da prima che nascano. La cameretta della bimba sarà tipicamente rosa e rilassante e accogliente, quella del maschio piena di colori vivaci che incitano l’attività. E poi, come abbiamo detto spesso, i vestiti, i giocattoli… si inizia presto, prima di quanto non immaginiamo. E la domanda è semplicemente: ci abbiamo pensato? E’ questo che vogliamo davvero? Se si, per carità, ben venga, ogni genitore ha il diritto di crescere i figli come vuole (ma non quello di criticare chi fa scelte diverse….). Se no, beh, pensiamoci prima e meglio. Tutto qui.
Per rispondere a Serena: cos’è che dà il genere? Un cromosoma, X o Y. Che ci fa poi crescere con delle differenze morfologiche e fisiologiche ben note. Il punto è che sono molte di più le differenze culturali che non quelle fisiologiche, e che nel mondo moderno queste differenze culturali stanno diventando anacronistiche se non addirittura dannose (più per le femmine che non per i maschi…).
Quindi a parte il vestiario (per il quale sono molto elastica, ma avendo una femmina è più facile) e la presentazione esterna, e il nome e il genere con il quale mi rivolgo a lei, spero di dare a mia figlia meno connotazioni possibile, almeno finchè lei non mi chiederà di fare il contrario. Credo ci sia una netta differenza fra ciò che siamo e ciò che facciamo, e vorrei crescere mia figlia insegnandole che sul fare siamo tutti uguali.
Però scusate, a me sembra che in qualunque caso, il genitore sceglie o non sceglie per il figlio. Il battesimo o no, l’ora di religione o no, l’adozione da un’etnia marcatamente diversa: sono scelte con cui mio figlio di fatto fa un po’ da cavia ed è esposto alla reazione altrui.
Nel caso specifico, mi sembra che molte perplessità nascano perché l’articolo non dice chiaramente se la mamma a un certo punto risponderà alla curiosità del figlio. Dato che è possibile evitare di rispondere a terzi, ma impossibile evitare che qualcuno, prima o poi, rivolga a Vide la domanda e quindi Vide in prima persona domanderà a casa. Il discrimine è lì, se la mamma dirà A) “Non lo so, non è importante” o B) “Sei maschio/femmina”.
Se la risposta è A) concordo anche io che si rischia di fare danni, ma se è B), la mamma avrà ottenuto il risultato che per due-tre-quattro anni non saranno piovute frasi del tipo “non piangere che sei un maschio” o “non correre che sei una femmina”. Non saranno ridicolizzati i bambini che giocano con il passeggino o le bambine che urlano come scaricatori. Magari – dico magari – se certi stereotipi vengono proposti più tardi i bambini di questa scuola ne vedranno maggiormente l’ingiustizia profonda.
@CloseTheDoor io faccio una serie di esperimenti terribili sui miei figli, pensa che ad esempio li sto crescendo senza televisione. Non ti dico quante ne sento su questa cosa, come se togliendogli la possibilità di vedere quotidianamente idiozie in TV non gli permetto di essere uguali a tutti gli altri. Mi viene puntualmente chiesto se non ho paura che si sentano diversi. E io rispondo puntualmente che è proprio quello che spero 😉
A parte gli scherzi, come dicevo, anche secondo me la posizione scelta da questa madre non potrà continuare molto a lungo, e non credo proprio che potrebbe mai rispondere A) perché prima o poi Vide lo vorrà sapere, e se non glielo dice la madre glielo dice qualcun’altro. Ma salvare parzialmente i figli da tutta una serie di frasi stereotipate che ti segnano a vita, potrebbe anche avere un bell’effetto. Io almeno ne ho un’esperienza personale molto forte da questo punto di vista, e ve ne parlerò meglio in qualche altro post.
Però scusate, a me sembra che in qualunque caso, il genitore sceglie o non sceglie per il figlio. Il battesimo o no, l’ora di religione o no, l’adozione da un’etnia marcatamente diversa: sono scelte con cui mio figlio di fatto fa un po’ da cavia ed è esposto alla reazione altrui.
Nel caso specifico, mi sembra che molte perplessità nascano perché l’articolo non dice chiaramente se la mamma a un certo punto risponderà alla curiosità del figlio. Dato che è possibile evitare di rispondere a terzi, ma impossibile evitare che qualcuno, prima o poi, rivolga a Vide la domanda e quindi Vide in prima persona domanderà a casa. Il discrimine è lì, se la mamma dirà “Non lo so, non è importante”. Oppure dirà “Sei maschio/femmina”.
Ma nel frattempo la mamma avrà ottenuto il risultato che per due-tre-quattro anni non saranno piovute frasi del tipo “non piangere che sei un maschio” o “non correre che sei una femmina”. Non saranno ridicolizzati i bambini che giocano con il passeggino o le bambine che urlano come scaricatori. Magari – dico magari – se certi stereotipi vengono proposti più tardi i bambini di questa scuola ne vedranno maggiormente l’ingiustizia profonda.
Mi ricordo un mio pianto inconsolabile quando a 6 anni, sulla pista da sci, tutta infagottata in un tutone blu, sono stata scambiata per un maschio, perchè non avevo i capelli lunghi. E questo mi dice due cose: la prima è che gli stereotipi su come deve apparire un maschio o una femmina sono ben forti e radicati, che ci piaccia o no. Rinforzati dalle famiglie o dalla tv, cresciamo con un’idea chiara di come debba essere un uomo o una donna. Siamo circondati da modelli, molto omologanti, sull’essere donna e sull’essere uomo. Vide non guarderà mai una pubblicità? Anche qualora tutti gli si rivolgessero al neutro, Vide, comunque, avrà un’idea dell’essere uomo e dell’essere donna, generalizzerà il concetto. E magari vorrà essere il primo ad omologarsi…
La seconda riflessione che ho fatto è stata che io ho pianto quando non mi è stata riconosciuta la mia identità di genere. Volevo essere considerata una femmina, perchè, a differenza della mamma di Vide, per me l’essere femmina aveva (ed ha) un ruolo nel definirmi come individuo. E quando a Vide gli altri bambini chiederanno di che sesso è? Avrà la ragionata calma della mamma per argomentare?
E’ bella come provocazione, ma la vedo solo come provocazione…