Ospitiamo con grande soddisfazione questo guestpost di Luisa Pogliana, donna, manager, autrice del libro Donne senza guscio. Percorsi femminili in azienda. (Guerini e Associati, 2009), e autrice del blog omonimo. Nel suo libro trenta donne ‘in carriera’ raccontano il loro percorso nel mondo del lavoro. Un percorso appunto, che vede vita professionale e vita privata come due aspetti di un progetto di vita e non in contrapposizione l’una all’altra.
Luisa ha appoggiato con entusiasmo la nostra iniziativa Il CerVello di mamma e papà e si è offerta di condividere con noi un estratto del suo libro per aiutarci a riflettere su questo tema.
Vite intere, sistemi complessi
“Non sono in grado di dire dove finisce il lavoro e dove inizia il resto. Ho pensato per tanti anni che fossero cose diverse, ma adesso ho capito che sono la stessa cosa perché io sono sempre la stessa e che il trucco è travasare continuamente energie e ricariche da un contesto all’altro in una sorta di alimentazione continua. Nemmeno quando porto a spasso il cane in campagna stacco perché i pensieri corrono e mi vengono idee, faccio connessioni, rivedo ricordi. Al lavoro viceversa prendo fiato e mi rilasso pensando alla mia pancia che si sta ingrossando”.
“In questi giorni sto provando con orgoglio l’essere donna. Nessun uomo potrà vivere l’esperienza che sto provando con tutti i vantaggi e svantaggi che comporterà lavorativamente. Nessun uomo potrà fare il training che farò io. Nessun uomo conosce l’ottimismo che provo e che mi aiuta a lavorare meglio”.
“Io ho avuto due figli in 17 mesi, e non mi sono mai sentita in colpa, anzi, ho sempre sentito la maternità come valore in più anche in azienda”.
“La svolta è arrivata quando è nato mio figlio, perché ho capito di essere cresciuta. Da quel momento mi sono assunta responsabilità crescenti, sia nella mia vita personale che in quella professionale”.
“Molte di noi sbagliano sui sensi di colpa. Ce ne facciamo più di quanto sia giusto”.
“Credo che un figlio possa avere di più da una donna lavorativamente realizzata”.
Un’ambizione complessa, una realizzazione di sé non unilineare, desideri diversi che si vogliono tenere insieme. Le donne non si accontentano di poco. Non si può dire “dove finisce il lavoro e dove inizia il resto”. Passione, anche erotismo, creatività, gioco, orientamento al risultato. E se per la donna raggiungere risultati nel lavoro è un modo per realizzarsi, la realizzazione sta anche altrove: l’amore, i figli, altre attività che piace fare.
Ma appunto, “non si sa dove finisce”. Non ci sono, in realtà, confini. Come è detto benissimo in questi brani, i diversi pezzi della vita sono in realtà una unica vita. Le donne che raccontano sanno che, in realtà, si può essere ambiziose su tutto: se si alza l’ambizione sul lavoro non necessariamente si abbassa quella sulla famiglia. Queste donne si auto-autorizzano a pensare che è possibile vivere contemporaneamente più vite.
Anzi, pensano che in ciò ci sia un arricchimento: ciò che di positivo si impara e si matura in ognuna di queste esperienze si trasferisce anche all’altra, perché è sempre la stessa persona che vive tutto. La sua vita può essere guardata a fette, ma per chi la vive è una. E le persone sono sempre individui interi. In-dividuo, che non si può dividere.
“Io non credo alla capacità di disgiungere l’aspetto privato da quello aziendale: uomini e donne appagati nella vita privata sono anche bravi manager e vice-versa”.
“Dobbiamo occuparci della carriera o della realizzazione di sè? E’ pensabile una realizzazione sul lavoro di una persona a pezzettini, non intera? E chi lavorerà meglio?”.
“La professione è arrivata ad assorbire ogni angolo non solo della nostra vita ma anche della nostra anima e questo è un fattore bloccante dello sviluppo umano e sociale”.
“Mi è capitato di dire di no a questa schiavitù del tempo e la sensazione di libertà è stata notevole. Come se la vita fosse solo lavoro”.
“A volte non ho accettato alcuni compiti perché richiedevano tempi ‘al maschile’: riunioni fuori orario, disponibilità illimitata… Non ho mai perso una recita di Natale, non ho mai rinunciato a una riunione importante a scuola e non lo farò nemmeno in futuro. È un pregio anche saper riconoscere cosa è urgente da cosa non lo è. E sapere dire di no”.
“Far attenzione a tenere sempre nella giusta relazione i mezzi ed i fini; avere chiaro il proprio progetto di vita e non anteporre mai a questo il solo progetto di lavoro. Mantenere il presidio sulla propria vita e non farsi ‘rubare’ il proprio tempo”.
“Il modello manageriale e di vita che viene trasmesso è sempre lo stesso, quello maschile della dedizione assoluta al lavoro. Così le aziende si riempiono di giovani donne con una gran voglia di fare e di fare bene che però non hanno una vita privata, non riescono ad avere una vita sentimentale decente, salvo gli eventuali amori che nascono e si consumano per così dire ‘sul campo’, e si ritrovano alla soglia dei 40 che improvvisamente si accorgono che potrebbe essere troppo tardi per altri progetti di vita”.
Certo è che se nella vita si vede un unico percorso, un unico ambito di realizzazione, la carriera per esempio, questo percorso può diventare tanto definito che si resta legati sempre solo a quello.
Di solito succede agli uomini, che così hanno anche un vantaggio implicito, per quanto riguarda il lavoro. Focalizzati su un’unica meta, è più facile avere sempre chiari gli obiettivi e cosa fare per raggiungerli: l ‘ambizione giocata su un solo piano non pone di fronte a problemi complessi.
Ma potremmo dire che la vera ambizione è andare avanti il più possibile su tutti i percorsi della vita, che è possibile avere l’ambizione di realizzare la vita intera. Senza dover per forza realizzare tutto perfettamente.
Lo vediamo nelle storie di queste donne: portano avanti un progetto dove non c’è separazione e gerarchizzazione delle parti di sé. Il modo di concepire il lavoro rientra in un progetto di vita, il modo di concepire la carriera tiene conto di passaggi e velocità diverse, di rallentamenti, per seguire il flusso della vita. Con la capacità di riordinare continuamente le priorità, di interrogarsi sul senso di un modo di vivere e di lavorare.
E’ difficile realizzare tutto, ovviamente, ma le donne sembrano particolarmente attrezzate per questo.
E’ interessante notare come queste concrete esperienze costituiscono un bell’esempio di ciò che si definisce con il termine sistema complesso.
Un sistema può essere inteso come un tutto costituito dalla somma delle parti, come meccanismo fatto di ingranaggi ognuno con un ruolo preciso. Come territorio: se si è in un luogo, non si può essere in un altro. Come tempo segmentato in istanti, ognuno destinato ad essere ‘riempito di attività’. Oppure -ed è questo lo sguardo della ‘scienza della complessità’-, il sistema può essere inteso come insieme sinergico, vivente, in continua evoluzione adattandosi al contesto. Il comportamento più conveniente sta nella lettura della situazione. la soluzione al problema emerge nel momento in cui serve. Si può essere allo stesso tempo -con il pensiero e con l’azione (le tecnologie aiutano)- in luoghi diversi. Si possono fare allo stesso tempo più cose. La gestione del tempo non consiste nel riempire di attività ogni istante, ma nel cogliere il momento propizio per ogni diversa attività. Ogni soluzione non può che essere subottimale.
Non è facile (e da sole) trovare soluzioni di fronte all’esigenza di ‘tenere insieme’ tutta la propria vita, muovendosi dentro i vincoli aziendali e quellifamiliari, e anche restando se stesse. Ma queste donne considerano normali, e adottano spontaneamente, quei comportamenti che gli studiosi della complessità considerano i più efficaci.
Muovendosi su diversi piani si può scoprire di avere più capacità di quanto si pensi. Non esiste una dotazione fissa di risorse, da dividere tra i vari obiettivi: il desiderio, la volontà moltiplicano le risorse.
Le storie che raccontano di questo dividersi e moltiplicarsi, non parlano di rinunce. Certamente di grandi fatiche, grandi problemi, ma anche di gioie, piaceri, vitalità, soddisfazione. Non parlano di un aut aut inevitabile, ma di un et et possibile, di un accrescimento di sé rinunciando a rinunciare Anche sul lavoro. E infatti in queste storie quasi tutte affermano il valore del loro essere mamme non solo per la loro vita ‘privata’, ma come un arricchimento della persona che si porta anche nel lavoro.
“Come si diventa bravi manager? Vorrei partire da un punto di vista di cui non si parla, dall’esperienza di chi, come me, oltre a svolgere un ruolo manageriale, è anche mamma. Sì perché oggi, fare la mamma, presuppone qualità e doti del tutto simili a chi ha ruoli di responsabilità all’interno di un’organizzazione. Per organizzare le attività di un ragazzino bisogna possedere grandi abilità di pianificazione. Per far sì che il corso di basket non si sovrapponga con il catechismo che a non deve interferire né con il dentista né con il corso d’inglese… Perché nel quotidiano di una mamma nulla può andare storto, e gestire con successo un evento imprevisto fa parte della normalità. Chi è abituato a gestire tutte queste attività (soggette a un’elevatissima percentuale di imprevisti) ha sviluppato un talento per l’organizzazione e la pianificazione. E anche la capacità di decidere le priorità. Una mamma alle prese con le avversità del quotidiano ha imparato a dare il giusto valore alle cose. Se il figlio ha l’influenza basterà un po’ di antipiretico, se ha la polmonite qualche notte in ospedale è da mettere in preventivo. Così in ufficio, riconoscere le priorità e dar la precedenza alle urgenze diventa più naturale, i problemi vengono collocati nella giusta dimensione. Ed è questo che fa di un manager un bravo manager”.
“Noi, con i figli, siamo allenatissime a fronteggiare l’emergenza, e a trovare la soluzione valutandone correttamente la portata e le priorità. Pensa a quanti soldi spendono le aziende per mandarci a fare i corsi sul ‘problem solving’ e il ‘decision taking’”.
“La settimana scorsa ero in India, e durante la riunione arriva sul blackberry il messaggio di mio marito: ‘bambino febbre a 40, baby sitter ammalata, io lo porto a scuola’. Lo diffido, e comincio a cercare una soluzione. Devo trovare una persona, ma una che il bambino conosce. Alla fine ho mobilitato una mia vicina ora in pensione. Intanto ho continuato la riunione”.
“Mi vien da sorridere perché talvolta, nelle riunioni, porto esempi da ‘buona gestione familiare’ nel senso di indicare quali sono le priorità da affrontare legate allo sviluppo ed alla crescita. Come a casa, per esempio, non si compra il cellulare se non ci sono i soldi per le scarpe. Come se la gestione, almeno quella che ho in mente io, si riferisse ad un modello interno familiare, di ‘buon senso comune’ come suggerisce Bion, piuttosto che a quello delle ‘grandi imprese’”
E’ un apparente paradosso rispetto allo stereotipo secondo il quale la vita privata dovrebbe restare fuori dall’azienda. Dall’altra vita, dal fatto che le donne vivono in più mondi contemporaneamente, ognuno con necessità, problemi, richieste, scenari diversi, le donne importano nel loro lavoro un ventaglio più ampio di approcci e soluzioni, di capacità e maturità.
D’altra parte, anche sul versante familiare, molte storie indicano come nell’organizzazione della vita familiare entrano in gioco comportamenti manageriali. Essere multitasking, delegare le incombenze operative, stabilire carichi e ruoli, definire le priorità, fronteggiare l’imprevisto, trovare soluzioni per situazioni non standard. Sono anche i compiti manageriali che si svolgono in ufficio.
Le capacità, il saper fare maturato in parti diverse della propria vita si trasferiscono dall’una all’altra. Ma è un valore non riconosciuto dall’organizzazione. Anzi, si continua a scontrarsi, è stato detto da molte, con regole organizzative che costringono le donne a dimezzare la vita o a raddoppiare la fatica. Per questo, nei racconti di vita tra lavoro e famiglia, emerge con evidenza un aspetto nuovo.
Su questo terreno il conflitto di genere esce dall’annoso problema della divisione dei compiti con il marito, esce dalla relazione di coppia come eravamo abituate a vedere. E si sviluppa invece verso l’organizzazione aziendale. Perché è questa, più che l’organizzazione familiare, che fa diventare la maternità un problema per le donne impegnate nel proprio percorso lavorativo.
Il conflitto si sposta dunque verso l’azienda, le sue gabbie organizzative inutilmente costrittive, la sua cultura legata a un punto di vista maschile. Esce dal privato e si sposta nel pubblico.
Per approfondire:
- Questo tema si trova nel libro, fondamentale, di Carol Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano, 1987 (ed. or. In a different voice: Psychological Theory and Women’s Development, Harvard University Press, Cambridge, 1982).
- Per uno sguardo generale sul tema della complessità, anche applicato alle organizzazioni, si può vedere Alberto Felice De Toni, e Luca Comello, Prede o ragni? Uomini e organizzazioni nella ragnatela della complessità, Torino, Utet, 2005.
- Interessante a questo proposito il libro di autrici varie Il doppio sì, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne, Milano, 2008.
- Segnalo in particolare il saggio di Lorenza Zanuso, ma in generale si trovano diversi punti di convergenza rispetto a quanto emerso in questo lavoro.
Forse io dovrei restare a casa a fare biscotti, ma se fossi in India per lavoro e mio figlio avesse la febbre a 40 non riuscirei a portare avanti nessuna riunione!…. credo che lui vorrebbe avere vicino sua madre e non una vicina di casa…
…infatti non sono un manager! 😉
Buongiorno,
ho trovato questo post (e l’iniziativa in generale) molto interessante. Mi fa piacere vedere che la realtà in alcuni ambiti lavorativi stia cambiando, spero con tutto il cuore che questa tendenza si estenda a tutti i settori, però sono un po’ pessimista perché mi sembra che nella maggioranza dei casi siamo ancora all’età della pietra.
Lavoro a Roma in un ex ente pubblico e mi posso definire un middle manager. La mia società da un lato è estremamente garantista per quanto riguarda permessi e possibilità di assentarsi, dall’altro però pretende orari lavorativi assurdi che non si conciliano con la maternità (e peraltro neanche con una vita normale).
Mi piace il mio lavoro e mi ci dedico con passione; sono rimasta in ufficio fino all’8° mese di gravidanza e sono rientrata a 5 mesi dal parto, però ho scelto di tenere un orario “umano”, cioè limito gli straordinari alle emergenze e se serve vedo le email da casa. Tuttavia, per colpa di questo modello direi di stampo maschile, se si esce alle 6 del pomeriggio si viene accusati di “fare il part-time” e di non lavorare sotto pressione.
Le donne che ricoprono ruoli dirigenziali – ce ne sono, è già qualcosa – o non hanno famiglia o la vedono poco: ho avuto una dirigente che, rientrata dopo la maternità obbligatoria, usciva costantemente dall’ufficio alle 9, il figlio lo vedeva solo dormire, lo allattava la tata. Un’altra è rientrata addirittura prima della fine dell’astensione obbligatoria.
Ecco, si potrebbe dire che queste sono scelte personali, ma creano uno standard malsano e se non si fa altrettanto non si viene considerati. Purtroppo molte donne, per dimostrare di essere all’altezza, cedono ancora a questi meccanismi e al ricatto dell’assioma “+ tempo = + efficienza“, come se lavorassimo a cottimo ed essere oberati fosse sinonimo di bravura.
È possibile voler far carriera senza sacrificare (troppo) i figli, dimostrare che si tiene al lavoro e si può gestire un team anche se non si è sempre fisicamente presenti? È possibile scardinare senza sensi di colpa questa mentalità fintamente “all’americana”, che in paesi più civili del nostro è stata accantonata da molti? Certo che se le donne per prime non si ribellano e non si aiutano non andiamo molto lontano.
Scusate il post lungo…