L’Italia non è un Paese per donne… ma neanche per uomini!

Quale è il ruolo dell’educazione familiare nella disuguaglianza di genere? In che modo possiamo modificare la cultura di una società che continua ad affossare le donne, ma che non facilita nemmeno gli uomini?  

Io non amo dissertare di statistiche. Le guardo sempre con quell’occhio scettico di chi è convinto che, con dei numeri in mano, puoi dire tutto ed il contrario di tutto.
Già! Contravvenendo alle convinzioni di chi ha una mente scientifica e professa che le parole sono mutevoli ed incerte, mentre i numeri sono solidi, io, mi fido sempre poco di quelle percentuali che inglobano persone. Sarà che mi sembra sempre di conoscere tante persone che corrispondono alle più striminzite minoranze… da non rendere poi così credibile che quella sia davvero una minoranza…
E quindi, tanto premesso, voglio scrivere un riassunto delle statistiche che fanno dell’Italia un pessimo Paese per crescere e vivere da giovani donne e giovani uomini. Ma ricordate che sono solo statistiche… numeri… Basterebbe volerlo e potrebbero cambiare!

donne-uomini

Italia al 74° posto

Esiste un Gender Gap Index, cioè un sistema di indicatori calcolato dal World Economic Forum, che misura la disuguaglianza di genere in 128 Paesi nel mondo (basandosi su variabili come: la partecipazione al lavoro e alle opportunità economiche, la scolarità, la salute e la rappresentanza politica).
L’Italia, nel 2009, era al 74° posto (guadagnando ben 10 posizioni dal 2008, ma perdendone 2 dal 2009), subito prima del Gambia, della Bolivia e dell’Angola, ma dopo il Vietnam, il Paraguay, il Gana ed il Malawi, che ci ha sorpassato dall’anno scorso (per chi è curioso sugli altri posti in classifica, ecco qui il rapporto).

Come ci siamo conquistati questo 74° posto che, per una cosiddetta economia occidentale è considerato pessimo? Con questi dati.
La partecipazione femminile al mercato del lavoro vede le donne sottoccupate e sottopagate. La fecondità è bassissima (1,4 figli per donna nel 2010, con un’età media alla nascita del primo figlio di 30 anni). Solo se la madre lavora le famiglie possono permettersi il secondo figlio, ma le neomadri hanno il 46% di probabilità di uscire dal mercato del lavoro contro un 6% delle donne senza figli. L’Italia così risulta, dopo Malta, il Paese con il più basso tasso di occupazione femminile dell’Unione Europea.
Altro dato di rilievo è che il carico domestico e il lavoro di cura gravano sulle donne italiane occupate, per circa il triplo del tempo che vi dedica un uomo.

Una questione di educazione familiare

Gli analisti di questi fenomeni si spingono a cercare la causa di questa “differenza di genere” piuttosto che “gender diversity” (come ci spiegava la nostra lettrice supermambanana in un commento ad un post: diversity, nella lingua inglese, ha un’accezione positiva, variegatura, più che differenza; mentre da noi non c’è dubbio che voglia dire proprio differenza in senso di qualcosa di meno e di peggio!). La causa, secondo alcuni, andrebbe cercata nell’educazione familiare.
Noi italiani, ancora oggi ed anche in strati sociali colti, nasciamo uguali e cresciamo diversi!
Nella fascia d’età tra gli 11 ed i 13, al 44% dei maschi è richiesto di mettere in ordine le proprie cose, contro il 64% delle femmine; al 20% dei maschi è richiesto di rifare il proprio letto, contro il 58% delle femmine; al 13% dei maschi è richiesto aiuto nelle pulizie, contro il 44% delle coetanee. Ma ai ragazzi è riconosciuta una paghetta mediamente superiore del 15% a quella delle ragazze.
Ai figli maschi sarebbe richiesto un minor impegno scolastico rispetto alle figlie femmine, o quntomeno l’insuccesso scolastico sarebbe tollerato come una connotazione fisiologica del maschio, così il numero dei ripetenti maschi, nella scuola superiore, è del doppio delle femmine. Le donne si ritrovano così a studiare meglio, ad essere la maggiornaza dei laureati (58%) e la schiacciante maggioranza dei laureati con voti alti (più di 106/110: il 63%).
Ed ecco perciò che, la calda ed accogliente famiglia italiana, che tanto coccolerebbe il figlio maschio, finisce per rendergli un pessimo servizio.
Infatti sembra che siano proprio i maschi a vedere compromessa la maturazione caratteriale per via della protratta coabitazione con i genitori: le figlie femmine, seppure restano in casa fino a tardi quasi quanto i fratelli maschi, ne trarrebbero meno svantaggi, riuscendo ad “affrancarsi” in tempi rapidi.
La permanenza nella famiglia d’origine consoliderebbe nel figlio maschio un modello di genere asimmetrico e squilibrato, spegnendo, nel contempo, il desiderio di sfidare il mondo.
Sono fortemente convinta che l’avvilimento del desiderio di sfida coinvolga anche le ragazze che si attardano per troppi anni a vivere con i genitori e che l’apprendimento di un modello di accudimento eccessivo, faccia seriamente del male anche al modo femminile di vedere i ruoli di genere.
Una madre che accudisce un figlio o una figlia fino alle soglie dei 30 anni non rende un buon servizio, non da un buon esempio. La figlia, dall’eccessivo accudimentto, trarrà l’insegnamento che lei stessa dovrà oltremodo accudire, mentre il figlio maschio dedurrà che deve essere oltremodo accudito. Perchè è evidente che nell’attuale generazione di famiglie con figli grandi, ultratrentenni, che vivono in casa, e genitori over 50, l’accudimento è riservato in larga parte ancora esclusivamente alle madri.
Gli uomini ultratrentenni che vivono nella famiglia di origine, investono il loro tempo nel lavoro, nel divertimento e nella cura degli interessi personali. Una volta formata la loro famiglia, difficilmente saranno pronti a dedicare parte rilevante del loro tempo agli impegni domestici e ai compiti di cura: la nostra organizzazione sociale, sembrerebbe orientata a formare neopadri che si aspettano cure ed accudimento, piuttosto che essere pronti a darne.
Ci sarebbe, dunque, un nesso strattissimo tra l’età in cui si esce dalla propria famiglia di origine e la propensione all’accudimento e ai compiti domestici, sopratutto da parte degli uomini.
Dopo i 24 anni di età, la maggior parte dei giovani europei vivono in coppia, mentre la maggior parte degli italiani, vivono in casa. Indubbiamente la scarsità di incentivi alle giovani coppie e la precarietà lavorativa, fanno la loro parte. Ma se fossero anche un alibi? La crisi economica e la conseguente precarietà del lavoro ha investito in egual modo tutta Europa, anche i Paesi dove i giovani continuano ad andare a vivere da soli, rischiando, provandoci. Il nostro stato sociale, in effetti, è molto carente rispetto ad altri Paesi, ma forse un po’ di coraggio in più potrebbe invertire le tendenze.
Se la rivoluzione stesse proprio nell’educare al coraggio?

Questo post è stato ispirato da questo articolo, aggiornando le statistiche riportate, dove possibile.

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22 thoughts on “L’Italia non è un Paese per donne… ma neanche per uomini!”

  1. mi trovate d’accordo su tutto, anche io sono in controtendenza rispetto ai miei coetanei in quanto sono uscita di casa prima dei 30, anche se con un aiuto logistico da parte dei miei – e qualche giustificazione data in giro del tenore “no , non è che non vado d’accordo con i miei genitori, ma voglio vivere da sola lo stesso”.

    @ stranamamma: la nostra sarà l’ultima generazione di iperaccuditi? forse sì, non so. lavoro all’università e ai test di orientamento (non test selettivi, test di orientamento) un buon 30% di studenti si è presentato accompagnato dai genitori – che sono rimasti seduti accanto ai figli durante lo svolgimento del test. colleghi di altre città mi hanno riferito che hanno visto la stessa scena anche nei loro atenei, e credo che a trento sia finito addirittura sul giornale.

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  2. Io credo che sia utile e necessario parlare di coraggio. Per una ragione molto semplice: non ci sono alternative. Posto che la situazione oggettiva per un giovane che inizia a costruire la propria vita non è nemmeno paragonabile alla situazione omologa di altri Paesi- a quanto pare- allora il nostro compito è da una parte quello di cercare di cambiare le condizioni, ma dall’altra è quello – altrettanto importante – sono anch’io d’accordo – di cambiare ottica nel proprio microcosmo privato. Educare al coraggio alla fine vuol dire educare a prendersi carico della responsabilità anche materiale delle proprie esperienze, vuol dire educare a credere nelle proprie risorse e nella possibilità di darsi un’opportunità diversa da quella di partenza qualora si senta la necessità di farlo, vuol dire insegnare a immaginare prima e cercare una strada concreta di realizzazione poi per qualsiasi progetto, sbagliare e saper cambiare, essere rigorosi. Questa visione e queste risorse personali, ai fini della costruzione delle proprie scelte, sono utili per tutti : sia per chi non è abituato ad attivarle perché tutto sommato è più “comodo” il supporto di una rete famigliare che in qualche modo neutralizza invece di incoraggiare lo sviluppo autonomo degli individui sia per chi è in grado di attivare tali risorse ma parte da una situazione di “svantaggio” materiale in cui la rete famigliare di provenienza non può compensare eventuali mancanze di risorse economiche per supportare le scelte individuali. E’ indubbio che avere o non avere questa rete iniziale fa molta differenza in Italia perché di sicuro siamo molto indietro su tutta la linea rispetto ad altri Paesi . Se poi accanto a questa visione “privata” di responsabilità lo stesso approccio viene utilizzato da parte della società in cui si vive, la distanza tra l’Italia e altre realtà diventa incolmabile. Se non ho capito male l’approccio utilizzato in Svezia è: io Stato ti supporto ma contemporaneamente tu prendi in mano la tua vita e poi mi renderai questo investimento nel tempo (che poi è un investimento che ha automaticamente una ricaduta sull’intera società e quindi si tratta di un investimento – come dire – oculato da parte dello Stato). E’ come dire: se agisci e cerchi di camminare in autonomia, puoi trovare dentro e fuori le mura di casa tua gli strumenti culturali e pratici necessari per farlo. Il coraggio e la sensazione di sicurezza diventano due facce della stessa medaglia. Fuori e dentro gli individui, nella società come nel privato. E dunque purtroppo il concetto di sicurezza associato alla camicia stirata danno la misura del nostro essere indietro prima di tutto culturalmente.

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  3. Conosco ragazze/i irlandesi che da studenti vivevano in case…diciamo non esattamente comode, ma che mai sarebbero rimasti a vivere con i genitori.
    Io stessa in Belgio ho sperimentato la vita priva dei confort casalinghi in studentato. Ebbene molti ragazzi che studiavano con me in Italia mi dicevano che avevo avuto coraggio, perché loro erano abituati alla loro doccia e non ci avrebbero mai rinunciato! Per loro il coraggio consisteva nel dover dividere la doccia, i bagni, la cucina (scarafaggi compresi….) e stare mesi senza TV.

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  4. Visione assistenzialistica… In Germania si dice che lo Stato ci metta parecchio del suo per sostenere chi studia… E credo anche in Svezia, confermi Serena?

    Un conto essere assistenzialisti un conto essere assenti e indifferenti… Del resto uno Stato SANO avrebbe tutto l’interesse a favorire chi vuol diventare UTILE allo Stato stesso, e chi studia perché mosso da sincero interessamento a quel che fa (perché in Italia c’è anche questo: si studia per il pezzo di carta e non a caso i tempi di laurea sono infiniti…) diventa bravo e questo lo porta ad aiutare il suo Paese, come minimo, attraverso le tasse che verserà!!!

    La mentalità italiana non è infatti solo sbagliata all’interno delle quattro mura, ma lo è nel rapporto con il Sapere, nel rapporto Discente-Docente (in tutti e due i versi), nel rapporto Uomo-Donna, Stato-cittadino, Cittadino-Legge, ecc

    Mi sa che c’è un Paese da rifondare daccapo…

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    • In Svezia gli studenti universitari possono chiedere una borsa di studio a fondo perduto di 200 euro al mese circa (non sono sicura della cifra esatta), che possono integrare con una prestito dallo stato, che poi dovranno ripagare in comode rate, più o meno a vita. In pratica per arrivare ad uno stipendio di circa 800/900 euro al mese, i giovani svedesi si indebitano con lo stato e ripagheranno il loro debito dal primo giorno in cui inizieranno a lavorare e guadagnare. Di fatto questo comporta che praticamente tutti se ne vanno di casa intorno ai 20 anni. Ovviamente gli studenti devono fare un certo numero minimo di esami l’anno per non perdere il diritto al sostegno economico. L’iscrizione all’università costa meno di 50 euro l’anno, che sono di fatto l’iscrizione al sindacato degli studenti, e che da diritto ad una tessera che fa accedere a sconti praticamente ovunque, quindi è ampliamente ripagata. La maggior parte degli studenti inoltre si impegna a lavorare extra il fine settimana, o la sera, e chiaramente l’estate, quando non percepiscono stipendio (vieni pagato solo durante l’anno accademico, e non per le vacanze!).

      Il discorso di Panz è anche giusto, è vero che in Italia un affitto costa molto e limita certamente le possibilità di spostamento, e questo fenomeno sta iniziando anche a sentirsi a Stoccolma. Però credo che ci sia proprio una mentalità sbagliata in Italia. I figli in Italia pretendono: pretendono di essere mantenuti, pretendono la macchina, pretendono i soldi della benzina, pretendono i soldi per andare a cena fuori. I figli maschi non sposati che a 30 anni vanno a vivere fuori di casa normalmente è perché hanno trovato lavoro in un’altra città, e il fine settimana portano i panni da lavare alla mamma (ne conosco a pacchi!). I ragazzi con cui mi capita di parlare in Svezia che sono ancora a casa con i genitori a 25 anni, si sentono in colpa per questo, e cercano di lavorare per pagarsi le sue cose.

      Ora vi dico una cosa che nella nostra mentalità italiana è sconvolgente. Sul quotidiano svedese ho letto più di una volta pubblicato il calcolo economico per una famiglia media, con tabelle di riferimento, in cui sono indicati quanti soldi i figli dovrebbero pagare per contribuire all’andamento economico famigliare, in base alla loro età e a quanto tempo passano fuori casa e dentro (per quelli che non se ne vanno a 20 anni ovviamente). A proposito di differenze di genere: i maschi dovrebbero pagare di più perché si sa che mangiano di più 😉

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  5. Panz, nell’articolo ho necessariamente analizzato un aspetto della questione, non potendone sviscerare ogni possibile causa. Diciamo che ho appuntato l’attenzione sull’aspetto “privato”, familiare. Che non puoi dirmi non esista: la famiglia italiana non è propensa ad aprire la porta di casa.
    Faccio un esempio: anche avendo possibilità economiche, mi sembra che si tenda sempre a preferire l’università cittadina o nelle immediate vicinanze, pur di conservare il ragazzo in casa, permettendogli di studiare senza preoccupazioni e senza lavorare. Difficilmente si tende a favorire la scelta di un’università anche lontana, che magari richiede una collaborazione tra mantenimento familiare e lavoro part time dello studente. E’ vero anche che da noi i lavori “da studenti” sono ben pochi.
    Non sono poi totalmente d’accordo con la visione assistenzialistica dello Stato: la creazione di opportunità è un dovere, ma lo è anche andarsele a prendere.

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  6. L’articolo è molto bello, brava Silvia. Personalmente però nutro delle perplessità. Certo quello italiano è un problema prima di tutto culturale, ma non credo rispetto alla impossibilità di uscire di casa.

    Parliamo tra eletti.

    C’è un sacco di gente che a 24 anni il lavoro non ce l’ha. Donne e uomini che un affitto extralusso come viene richiesto nella maggioranza delle città italiane non possono permetterselo. Non credo che negli altri paesi europei la differenza tra salario e affitto sia così macroscopica come in Italia.

    Per altro mi irrita anche un po’ l’idea che in questo si debba pensare alla necessità di coraggio: la possibilità di iniziare la vita adulta (e proprio le possibilità materiali) dovrebbero dipendere in prima istanza dallo stato, in base a leggi e opportunità che da noi mancano totalmente.
    Poi noi italiani siamo culturalmente gretti, ignoranti e poco propensi all’impegno e alla responsabilità civile e individuale, ma secondo me qui non c’entra tanto.

    Non è su questo che si dovrebbe giocare il coraggio.

    Parola di una che di casa è uscita a 18 anni.

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  7. Che le questioni di genere non abbiano riguardato gli uomini è un segno di debolezza da parte nostra. E la debolezza, squadernata sotto il camminare della Storia (non della cronaca squallida) e del Femminismo, prende strane strade. La violenza è una di queste. E’ la più evidente e, oggi, la più forte: uomini che odiano le donne perché si permettono di prendere la parola, di chiedere conto di quella stessa violenza. Dell’uso abnorme e cieco di quella forza. E la “forza cieca” è “debolezza pura”, un cortocircuito che, come vediamo è pericolosissimo e dà colpi di coda terribili.
    Tutti dobbiamo essere educati al coraggio: i bambini, maschi e femmine, ognuno per la sua parte e perché non abbiano a subire ruoli che non si sono scelti (vittima e carnefice); noi adulti a riconsiderare come ci poniamo di fronte all’altro a cominciare dalle nostre parole, dai nostri pensieri, dai nostri (troppi) pregiudizi. Grande rivoluzione che comincia dentro di noi ma che deve, deve, deve uscire fuori, nel mondo. Altrimenti si rischia la gabbia dentro la gabbia. Grazie delle riflessioni e del lavoro che ci sta dietro. 🙂

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  8. Ecco, credo che tu abbia ragione, Silvia. Educare al coraggio mi sembre la formula giusta, purché non resti, appunto, soltanto una… formula.
    Da genitore vorrei uscire dalla terribile gabbia di dover educare mia figlia come un vittima predestinata e mio figlio come un colpevole comunque.
    ciao

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    • Desian, certo che il rischio è che “educare al coraggio” resti solo una formula. Anche perchè dare il buon esempio non è mica facile: che di aver coraggio, tante volte, non va neanche a noi “grandi” che ci nascondiamo nelle tranquille quotidianità… e magari ci sembra anche di essere arrivati da qualche parte, sensazione nemica del coraggio.
      Spero di ricordarmi, soprattutto negli anni a venire, che la porta va aperta un giorno alla volta: non c’è un giorno in cui i figli vanno via di casa. C’è un percorso, che parte anche da oggi, da questa mattina quando gli ho detto che le scarpe doveva allacciarle da solo, senza lagne e gli ho chiesto, per favore, di portare i panni, suoi e miei, nella cesta. Perchè ci si accudisce un po’ a vicenda, da subito e da sempre.
      Sarà a venti o a trent’anni, si vedrà: ma vorrei riuscire a preparare il cammino per dire un giorno “tu provaci”.

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  9. Post interessantissimo e pieno di riflessioni che condivido. Personalmente, anche laureandomi (con la vecchia laurea, non la triennale) a 24 anni ero fuori casa. Ma molte delle mie coetanee/coetanei ancora adesso (a 32 anni) sono a casa coi genitori, serviti e riveriti, e quando gli chiedi se andranno a vivere da soli la loro risposta è “Chi me lo fa fare?” o quella dei genitori “Ma poverino, come si mantiene?”. Una nota dolente (una delle tante). Noi, ad esempio, siamo andati a vivere per conto nostro abbastanza presto (per l’Italia), ma lo stesso Roberto non aveva mai fatto una lavatrice/lavato i piatti/lavato in casa/stirato/cucinato. Io lo facevo da quando avevo 17 anni (e forse proprio per questo sono uscita presto di casa!)… Una differenza di genere notevole, e mentre io sono certa del fatto che anche se fossi stata sola sarei andata a vivere per conto mio, lui dice sempre che probabilmente sarebbe rimasto a casa.
    Noi abbiamo due bimbe, ma certo se avessi avuto un maschietto non avrebbe avuto sconti sulle “faccendine” di casa!

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  10. Concordo con tutto quanto ha scritto Silvia nel post. Mi rendo conto che la situazioe economica dei giovani in genere non sia rosea eppure vedo intorno ancora troppi retaggi socioculturali che tarpano le ali a molti. Ricattucci da parte dei genitori del tipo: “Se ti sposi ti aiuto a comprare casa, se convivi no” esistono ancora purtroppo e per opporvisi serve coraggio.
    Eppure a volte mi chiedo se la nostra non sia davvero l’ultima generazione di iperaccuditi. Mi spiego: ho molte amiche (ebbene sì soprattutto femmine) che fanno parte del gruppo (ovviamente con una buona dose di modestia mi ritengo fuori!!!!) e, proprio in quanto iperaccudite anche da sposate e/o da madri, non credo faranno mai ciò che le loro madri fanno per loro perché sono abituate a farsi “servire” più che a “servire”.
    Il verbo “servire” è un po’ forte, ma è mutuato dal vocabolario di mia madre…..

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  11. Sorrido leggendo questo articolo perché proprio ierisera a cena si discuteva del fenomeno che si osserva nell’estremo Norrland svedese, in cui i maschi restano nei loro paeselli in mezzo ai boschi, mentre le femmine hnno piú facilitá ad emigrare, studiare ad altri livelli, e crearsi una vita piú agiata altrove, tanto che in alcuni posti certi villaggi sono praticamente formati da maschi (i quali cercano compagne da Thailandia o Russia).
    Ho chiesto al mio Vikingo da cosa potesse dipendere, e la sua risposta si puó riassumere cosí:
    -le femmine sanno che per loro é piú difficile realizzarsi socialmente e si impegnano di piú, specie scolasticamente.
    -tra i maschi é considerato poco virile sbattersi sui libri.

    Alla fine nell’estremo Norrland si é formata una generazione di uomini che non hanno avuto il coraggio di impegnarsi a migliorare il proprio stato. Stranamente, un comportamento considerato “macho”/vincente, ha relegato questi uomini ad uno status socio/economico inferiore.

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  12. Bellissimo post, grazie Silvia.
    Ogni volta che sento riflessioni di questo genere ripenso al mio amico americano che mi diceva che poteva tranquillamente rimandare certe decisioni a quando la casa fosse vuota, tanto il figlio aveva 10 anni e tra 8 se ne sarebbe andato senza più tornarci in pianta stabile. Il bello è che ne era totalmente sicuro, come se fosse una cosa normale. Bello, no?

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  13. @Silvia, trovo molto significativa la chiusa del post, laddove indichi nel coraggio qualcosa da insegnare ai nostri figli.
    insegnamento rivoluzionario davvero,laddove siamo immersi in un bagno culturale che parla tanto di sicurezza e ci si dimentica che accanto ad essa viaggia il coraggio..
    la riflessione che introduci che i problemi di genere vanno visti anche dal lato maschile.
    d’altro canto è la cifra di genitori crescono…

    🙂
    monica

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  14. Bellissimo:
    “sfidare il mondo”…
    “educare al coraggio”
    Parole sante… Da iperaccudita tremebonda ne so qualcosa…

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