Undici mesi fa scrivevo un post su come essere buoni padri in Italia,
in cui citavo ricerche che analizzano come – per cambiare una cultura – nel caso narrato, quella della maternità, occorrano buone politiche, spinte gentili che sostengano costantemente il cambiamento altrimenti, al primo momento critico di svolta – nonostante i tempi che corrono – si tenderà a ripercorrere le tradizionali tappe, visioni e modelli che ci sono state tramandate dalla famiglia.
Oggi siamo di nuovo qua, a parlare non più del come ci piacerebbe poter narrare una maternità diversa, ma come stia diventando di ora in ora sempre più necessario, impellente, urgente.
Perché urgente ce lo possono dire alcune battute del rapporto di Save the Children sulla maternità in Italia, appropriatamente intitolato “Le equilibriste”, che esce puntuale per il mese di maggio e che vi invito a leggere.
In primo luogo, sappiamo che essere madri, oggi, in Italia, è una cosa rara: per motivi economici, di età, di circostanze sociali e contrattuali si fanno – secondo le statistiche – meno figli di quanto si desiderano. Non solo, la “nostra” coorte – nati tra gli anni ’70 e ’90 – ha rappresentato il momento demografico più sfavorevole, con solo 1,19 figli in media per donna. Conseguenze? “difficile osservare in Europa un paese con un rapporto così sfavorevole tra anziani e giovani”. Ne consegue che la forza delle esigenze delle famiglie e dei loro figli, su cui costruire le politiche del futuro, è minore – politicamente parlando – o conteggiando i voti al mercato delle elezioni – di quella degli anziani, aggravando la situazione.
In secondo luogo, essere madri danneggia la carriera lavorativa e le prospettive economiche: “le madri, in quanto donne, subiscono una discriminazione in termini di diritti e pari opportunità e, allo svantaggio di genere, spesso si sommano ulteriori condizioni sfavorevoli, quali l’appartenenza socio economica, la provenienza geografica, la nazionalità o il livello di istruzione”. [… ] “le madri meno istruite hanno una probabilità inferiore di 40 punti percentuali di essere occupate rispetto a padri con lo stesso grado di istruzione”. Quindi, pensiamoci bene se – per caso – abbiamo coltivato il sogno e l’ambizione di realizzarci come persone anche dal punto di vista dell’identità professionale.
In questo panorama, non possiamo stupirci se verremo discriminate anche dalle nostre colleghe di genere – in un momento di crisi economica – se per caso aggiungeremo alla discriminazione di genere anche l’handicap di essere madri.
Se vorremo farlo, come scriveva bene Alessandra, sappiamo che lo faremo “a condizione che”
A condizione di tenere tutto in equilibrio, ovvio.
“Le donne sono dunque in media più istruite e più competenti, ma si trovano a gestire, da vere equilibriste in asimmetria, la cura di figli e familiari, una vera e propria attività lavorativa addizionale e gratuita. Per contestualizzare l’equilibrismo della conciliazione tra vita privata e lavoro delle mamme, intervengono i dati ISTAT sull’uso del tempo, che nell’ultima rilevazione (2013) fotografavano uno squilibrio intenso dei tempi dedicati alla cura della famiglia tra le madri e quello dei loro compagni/mariti. Mettendo insieme infatti il tempo che le donne con più di 15 anni che lavorano impiegano per il lavoro retribuito (6 ore e 35 minuti) e quello familiare (5 ore) in un giorno medio settimanale, si arriva ad un totale di 11 ore e 35 minuti.”
Le politiche sociali, infatti, non sono state capaci di evolvere in maniera coerente ai cambiamenti generazionali che hanno avuto luogo in Italia: una donna nata nel 1940, raggiunti i 40 anni d’età, poteva mediamente contare su una rete di altri 9 adulti con cui condividere la cura di bambini e anziani, mentre una donna nata nel 1970 può contare solo su altri 5 adulti.
Questa asimmetria si paga: in termini di stress, di abbandono del mercato del lavoro, in termini di insoddisfazione.
Ma soprattutto, fermiamoci un attimo: questa asimmetria a che cosa porta? Qual è lo scopo per cui sta in piedi e non cerchiamo di cambiarla, di fare qualche modifica?
Le polemiche social e di persona mi snervano e mi infastidiscono non solo per i toni aggressivi e perché diventano la cloaca dove ciascuno vomita le proprie frustrazioni (e per imitazione finisco per farlo anch’io, cosa che non mi fa affatto bene): mi infastidiscono perché il tempo è una risorsa preziosa e non ho mai visto queste polemiche portare da nessuna parte, e invece io, da qualche parte, ci vorrei andare, nel tempo che mi è donato in questa vita.
Voglio un futuro per mia figlia e un presente per me in cui ci stiano le cose senza rischiare le coronarie mentre corri da un appuntamento di lavoro a scuola perché – per un qualunque buonissimo e sacrosanto motivo – chiude prima, o inventarmi soluzioni per far quadrare il cerchio tra le settimane in cui non c’è scuola né servizi educativi, ma io dovrei anche lavorare – e magari mi si chiede di apparire stirata, lisciata, incipriata e sorridente.
Voglio non dover nascondere le sovrapposizioni del mio curriculum e anzi, poterne andare fiera di fronte a un datore di lavoro (si, ho fatto formazione continua quando mia figlia aveva un anno ed ero incinta del secondo, si, ho dato un esame per un diploma di studi quando lui aveva sei mesi, ero reduce da una malattia invalidante agli occhi ed ero rientrata al lavoro), non dover solo raccontare il lavoro perché – si sa – una madre poi è troppo presa da altro.
Voglio parlare dei servizi educativi: che cosa insegnano, perché, in che modi, con che tempi e che strategie scelgono. Ma soprattutto con quale obiettivo fanno le proprie scelte. Quando dico che tre mesi di vacanze scolastiche non servono a nessuno – a me che invento equilibrismi, ai miei figli spossati a maggio perché hanno due verifiche ogni giorno e poi lasciati a dimenticarsi quanto appreso nei successivi quattro mesi, agli insegnanti stessi – e mi viene obiettato che non capisco, non so dei contratti, non conosco la situazione delle graduatorie e quanto stress è stato aggiunto sulle spalle dei lavoratori pubblici, io penso che stiamo parlando di due mondi diversi.
C’è un mondo, di critiche e sarcasmo sulle mamme, di “s’è sempre fatto così”, di roccaforti di privilegi inossidabili a quanto accade attorno.
E poi c’è il futuro. Un futuro che ci vorrebbe a parlare assieme di che cosa immaginiamo per noi e per i nostri figli nei prossimi anni. Dai debiti che ha il paese a quali sono gli obiettivi dei servizi educativi.
Ripensare la maternità, “garantire che i genitori – e in particolare le madri – siano sostenuti da adeguate politiche che favoriscono la genitorialità e la conciliazione tra vita professionale e privata, a partire da forme di lavoro flessibile, congedi parentali e di paternità e una adeguata copertura di servizi educativi per l’infanzia” significa investire sul futuro.
E il futuro sarà qui in un battito di ali, per questo è urgente.