Prendiamo il termine hate speech dall’inglese statunitense giuridico: si tratta infatti di una vera e propria categoria giurisprudenziale, che ha visto negli USA una accesa discussione giuridica sulla liceità, secondo il loro ordinamento, dei discorsi di incitamento all’odio, che hanno nella comunicazione online un canale privilegiato (per i motivi che vedremo), ma che non si limitano a questa e coinvolgono tutto il linguaggio pubblico, anche politico, oltre che il linguaggio privato.
La “questione americana”, sull’argomento, si incentra soprattutto sulla compatibilità tra incitamento all’odio e libertà di espressione: essendo, gli statunitensi, dei cultori della libertà di espressione totale, sono finiti in moltissimi per sostenere che l’incitamento all’odio verso un gruppo sociale, una etnia, un genere o anche una persona, sia una delle tante forme di questa libertà.
Ovviamente, anche nella società americana, c’è chi ha spostato la riflessione dal dato squisitamente giuridico di compatibilità con il primo emendamento (articolo costituzionale, per capirci, che tutela la libertà di parola e di stampa, ma non solo) a quello etico della liceità di contenuti che incitano all’odio. Lì i grandi temi di questa discussione, sono l’odio etnico e quello di genere (che da noi invece fatica ad essere riconosciuto e ad affermarsi come problema).
La questione si è fatta di gran rilievo anche nel nostro continente, trasportata inevitabilmente su internet e adattata alla nostra “personalità” nazionale. Infatti, soprattutto in Italia, di hate speech si parla molto più in riferimento alla tutela della persona, piuttosto che come modalità di discussione politica.
Una grande differenza è poi data dal sistema giuridico sul quale va a innestarsi: il nostro sistema italiano, pur garantendo libertà di espressione, sulla carta (spesso molto meno in pratica), pone anche dei limiti garantisti dei diritti personali lesi dall’espressione libera senza freni. Ma sempre di questioni personali e singolari parliamo.
Cosa è l’hate speech?
Facciamo però un passo indietro e cerchiamo di chiarire cosa è l’hate speech.
Possiamo tradurlo con “incitamento all’odio”: si tratta di una modalità di comunicazione violenta attuata da persone che si scagliano contro un gruppo sociale o una persona, con il chiaro intento di fare proseliti, di convincere altri ad unirsi al gruppo.
Esempi di hate speech sono i più vari e si manifestano in ambienti diversissimi:
– discorsi politici che portano al limite la contrapposizione tra cittadini e stranieri, attribuendo a un gruppo etnico la responsabilità dei mali sociali;
– incitamento alla violenza sulle donne, come nei gruppi sui social network, anonimi e non, in cui si pubblicano foto e si incita allo stupro;
– pagine dedicate a denigrare un personaggio pubblico, o peggio a manifestare il proprio odio o fantasie violente contro questa persona;
– bullismo verso un singolo: a scuola, sul lavoro, negli ambienti sportivi, laddove si deride e insulta, invitando altri a fare altrettanto;
– cyberbullismo, quando pratiche di bullismo passano per i social media, come i gruppi whatsapp che incidono tanto sulla vita degli adolescenti;
La gravità di questi comportamenti non è solo nel loro evidente contenuto violento e aggressivo, ma anche e soprattutto nella capacità di generare emulazione e adesione, dando agli hater la forza e l’impersonalità della massa, del gruppo e moltiplicando il danno alla vittima.
Parole ma non fatti
Gli hater difficilmente vogliono “passare all’azione”, mettendo in pratica i loro intenti violenti. Lo scopo dell’hater è solo quello di sentirsi parte di un gruppo, unito dall’odio verso qualcuno, e di veder ingrossare le fila del gruppo stesso.
Il danno provocato alla vittima, singolo o gruppo minoritario, sta nell’ingrandirsi a dismisura del gruppo di hater, fino a incidere realmente nella vita concreta. Per capirci, l’hater non stupra, ma pone la vittima come oggetto di stupro agli occhi di un numero di persone sempre più ampio, fino a diventare così ampio da comprendere tutto il contesto sociale della vittima, che perciò diventa un soggetto “da stuprare” ed è costretta a vivere anche nel quotidiano con questo marchio.
Se questo è evidente nell’incitamento al bullismo, che fa proseliti in una cerchia e isola la vittima, è necessario fermarsi a riflettere anche su quanto questa modalità di espressione sia deleteria nel discorso pubblico.
Quanto il discorso politico sui mali dell’immigrazione nel nostro Paese, basato su slogan, su dati manipolati e sulle difficoltà sociali preesistenti, ha creato un movimento di pensiero ostile all’immigrazione e poi politiche concrete volte a penalizzarla? Quanto queste modalità espressive hanno spostato l’attenzione dai dati reali sull’immigrazione in Europa, creando una serie di “dati percepiti”, spesso irreali, che hanno determinato leggi e provvedimenti? Quanto l’adesione a questo pensiero “contro” ha determinato l’emergere di forze politiche in tutta Europa, con conseguente approvazione di leggi e incidenza sulle politiche interne ed estere?
Insomma, stiamo vivendo un’età dell’odio, o è soltanto una sensazione data dall’amplificarsi di ogni forma di comunicazione? Di sicuro la novità è una certa facilità ad esprimere odio e violenza, senza considerarne le conseguenze, e in questa cultura dell’odio senza responsabilità stiamo crescendo i nostri figli.
Perché il web è la sede ideale per gli hater?
- Prima di tutto per il filtro dello schermo: quel fenomeno che ci permette di andare in “luoghi” pubblici senza averne la percezione, restando nella nostra confort zone, casalinga o lavorativa. Questo è sicuramente un fenomeno, legato al web e in particolare ai social media, con il quale fare i conti: la spersonalizzazione della partecipazione. La mancata percezione delle conseguenze di un’azione perché in realtà non la stiamo davvero “facendo”, ma la stiamo solo scrivendo o dicendo.
- Poi c’è l’illusione dell’anonimato: creando profili fake e utilizzando nickname si ha la sicurezza di non essere raggiungibili e quindi si pensa di godere di un buon margine di impunibilità. Niente di più falso, vista la facilità di tracciare la provenienza di ogni comunicazione sul web.
- Le parole e le immagini condivise sul web hanno una diffusione straordinaria, come mai nella storia dell’umanità si era mai vista. La quantità di persone raggiungibili è enorme e non serve più essere un utente qualificato per diffondere le proprie idee e opinioni. Si genera così una sensazione di onnipotenza, che incentiva ad alzare sempre più i livelli di ferocia. Si raggiungono facilmente persone pronte a condividere le stesse modalità di espressione.
- L’incertezza delle fonti aiuta la diffusione di notizie false e quindi la possibilità di dare grande risalto a informazioni falsificate appositamente per scagliarsi contro un soggetto. Finché l’informazione era veicolata nell’ambito giornalistico, un controllo doveva pur esserci. Una volta uscita da questo ambito, solo un discreto livello culturale e una capacità di analisi critica permettono di porsi domande e dubbi sulla verità di un fatto.
Che fare? Essenzialmente vedo una risposta concreta solo nella cultura, intesa nel suo senso più ampio.
Conoscere lo strumento web, conoscere le fonti delle notizie, conoscere le persone che ci vivono accanto per sviluppare empatia e fratellanza, conoscere la storia e le origini dei fenomeni sociali.
L’unico strumento contro l’odio è la conoscenza.
– Questo post costituisce una premessa per la identificazione del fenomeno hate speech. Seguiranno post sui diversi aspetti toccati in questo articolo –