Una delle prime cose che insegnano ai genitori è che i bambini, per placare l’ansia e sentirsi protetti, hanno bisogno di riti, di regole, di quotidianità scandita dagli stessi gesti agli stessi orari, insomma: di routine.
A ogni modo, su di me non funzionava.
Io la odiavo, la routine! Era la mia gabbia, le colonne d’Ercole oltre le quali non potevo andare, pena la destabilizzazione dell’ordine familiare e le urla di mia madre. Una serie di consuetudini che avvertivo istintivamente come coercitive e, pur non avendo esempi di vite diverse dalla mia, persino innaturali.
Non ero la sola la cui vita era inquadrata in orari e consuetudine rigidissimi, anche i miei coetanei erano irreggimentati. Il rispetto degli orari e la reiterazione monotona delle azioni quotidiane era uno dei cardini dell’educazione degli anni Settanta – e se pensate di esserne stati dispensati perché le vostre mamme avevano fatto il Sessantotto ed erano fisiologicamente refrattarie alle regole, ricordate che siamo andati tutti a letto dopo Carosello.
Che abbiamo aspettato tre ore sotto l’ombrellone prima di avere il permesso di tuffarci in mare.
Che abbiamo portato cappellini in feltro solo perché il calendario diceva che era arrivato Settembre.
Che abbiamo indossato canottiere in lana vetrata per lo stesso motivo.
E, anche se non ve lo ricordate, sono certa che abbiate passato buona parte dei vostri primi mesi di vita a piangere per la fame, ché le linee educative del genitore del secolo scorso prevedevano allattamento ogni tre ore. Contravvenire a questa regola era gravissimo, l’allattamento a richiesta sconsigliato: avrebbe comportato coliche gassose e sicura anarchia alimentare.
Insomma, i nostri genitori avevano preso molto sul serio la storia della routine. I miei senz’altro. L’unica cosa che posso dire a loro discolpa è che erano giovani, molto, e che la scansione rigida di orari e abitudini era una necessità più loro che mia: serviva a rassicurarli che stavano facendo tutto per bene. A nessuno di loro venne mai in mente di chiedermi se quei rituali mi trovassero d’accordo e per questo mi trovai a subire, sino a un’età che non rivelerò per pudore, uno dei pilastri di quegli anni: il riposino pomeridiano. Odiai ogni ora trascorsa nel silenzio e nella penombra in un tedio senza fine, mentre i rumori del mondo là fuori mi ricordavano che la gente continuava a vivere. Credo sia colpa di quel tempo sospeso, che in teoria avrebbe dovuto attivare gli ormoni della crescita, se adesso sono condannata all’abbiocco pomeridiano in un mondo che mi vuole performante a qualsiasi ora ma soprattutto dopo pranzo, quando iniziano le attività pomeridiane dei ragazzi.
A ogni modo, quello che vorrei dire adesso ai miei genitori in un rigurgito di recriminazione tardiva è che quella routine su di me ha funzionato male, lasciandomi addosso una voglia puerile di abbattere una a una le regole della mia infanzia. “Pronto, mamma? Volevo solo dirti che mi sono appena rovinata l’appetito. Biscotti, già”.
E siccome spesso si educa per reazione, ho fatto miei ben pochi dei rituali della mia infanzia. E siccome per reazione si cresce, le figlie la routine se la sono fatta da sole. Quella della diciassettenne, ad esempio, prevede sveglia a mezzogiorno, colazione, svacco, litigata con un fratello a caso, uscita con gli amici. Rientro? Sì, talvolta.
Il riposiiiiiiinoooooh (quello a mia madre serviva disperatamente per bersi un caffè in santa pace e riprendersi, dice che una volta che era sfinita e mio fratello non ne voleva sapere e lo portava in braccio cullandolo, cullandolo, cullandolo e quello urlava e non ne voleva sapere, ecco, dice che si è ritrovata improvvisamente davanti a una finestra aperta senza sapere bene ne come ci fosse arrivata ne chi l’ avesse aperta. E si è svegliata di botto anche senza caffè). No, ma le cose che mi hai ricordato, guarda.