Un’autrice e ricercatrice americana ha incontrato migliaia di ragazzi sul tema della vita sui social network e sul web in genere. Ne esce un panorama che non corrisponde a nessun luogo comune.
“Moltissimi (adulti) parlavano della vita dei giovani sui social media, ma in pochissimi erano interessati ad ascoltarli e a prestare attenzione a ciò che avevano da dire sulla propria vita, online e offline. Ho scritto questo libro per colmare questo divario (…) per riflettere sulle esperienze e sulle prospettive degli adolescenti che ho incontrato.”
Il libro è “It’s complicated – La vita sociale degli adolescenti sul web”, uscito in traduzione italiana per Castelvecchi ad Ottobre 2014 (ma disponibile gratuitamente per la lettura online in inglese) e questa, nella premessa, la dichiarazione di intenti dell’autrice Danah Boyd.
Otto anni di ricerca sul campo, viaggi in diciotto diversi stati degli USA, questionari formali ed incontri informali con i ragazzi, i genitori, gli operatori e una ricchissima dotazione di ricerche accademiche sociologiche, antropologiche, psicologiche e tecniche (cento pagine tra note e bibliografia) che il testo cuce insieme per supportare le sue tesi di fondo e smontare pezzo per pezzo gli argomenti di quel pensiero magico che è il determinismo tecnologico, per entrambi i suoi estremi, utopico e distopico.
“Le domande che mi pongo sono semplici: Cosa è nuovo e cosa non lo è nella vita influenzata dai social media? Cosa aggiungono e cosa tolgono i social media alla qualità della vita sociale degli adolescenti? E se a noi, in quanto società, non piacciono i risultati di una tecnologia, cosa possiamo fare per cambiare l’equazione in modo costruttivo, assicurandoci di sfruttare le qualità dei social media limitandone il potenziale abuso?”
Identità
Ragazzi e ragazze non vanno online per sfuggire alla vita reale, ma per incontrare sui siti di social media i propri amici e passare del tempo con loro. E’ l’amicizia il collante di questi siti. Sono dei veri e propri spazi pubblici online, assolvono più o meno le stesse funzioni dei parchi o delle piazze per le generazioni precedenti; ma le caratteristiche tecniche di queste piattaforme vanno comprese se si vuole utilizzarle a proprio vantaggio.
Gli adolescenti si impegnano per capire chi sono e come integrarsi in una società in cui i contesti sono collassati, i pubblici sono invisibili e tutto ciò che dicono o fanno può essere facilmente decontestualizzato e usato contro di loro; la definizione dell’identità in rete è più complessa, devono ragionare su chi può vedere il loro profilo, chi lo vede effettivamente e come lo interpreterà chi guarderà.
Privacy
Nel far questo non è che non tengano in nessun conto la questione della privacy, come affermano i sostenitori della sua morte, ma declinano la privacy in un altro modo: in generale non si preoccupano per i governi o le multinazionali, quanto piuttosto degli adulti paternalistici, che con il pretesto della loro sicurezza cercano di controllare ogni aspetto della loro vita sociale.
La loro voglia di mettersi al riparo da questi occhi indiscreti pur restando in questi spazi pubblici online, fa spesso in modo che sviluppino strategie molto creative per essere “privati” nonostante siano in pubblico, come la steganografia sociale (messaggi pubblici che nascondono messaggi segreti che può svelare solo chi ne possiede le chiavi di decodifica, perché appartiene allo stesso contesto). La steganografia è l’arte di nascondere messaggi in bella vista, e i ragazzi sono molto esperti. Molte delle scelte che fanno dipendono proprio dal fatto di sentirsi osservati, sorvegliati.
Dipendenza
Il linguaggio della dipendenza esagera l’uso che gli adolescenti fanno della tecnologia; al limite, sono dipendenti gli uni dagli altri, dalla propria rete di relazioni. Si rivolgono a qualsiasi ambiente che permetta loro di incontrare i propri amici; se non fosse impossibile, preferirebbero farlo faccia a faccia; pensano di avere pochissime occasioni per socializzare.
“Immaginando gli adolescenti come palle di ormoni incontrollabili, la società ha sistematicamente sottratto agentività ai giovani nel corso dell’ultimo secolo. Sono bloccati in un sistema in cui gli adulti limitano, proteggono e fanno pressione perché raggiungano il successo, secondo parametri definiti dagli adulti stessi”.
Sicurezza
Che dire poi dei grandi temi al centro del dibattito sulla sicurezza?
“La maggior parte delle violenze sessuali sui minori avvengono a casa, e sono perpetrate da persone di cui il minore si fida. Le molestie sessuali non sono iniziate con l’avvento di internet e non sembra neppure che internet ne abbia scatenato un’epidemia”.
Nonostante questo la retorica dei molestatori sessuali, sconosciuti avanti con gli anni incontrati su internet, è dominante nel dibattito pubblico, che dovrebbe invece andare alla radice dei comportamenti a rischio online, di solito legati a situazioni problematiche offline.
Bullismo
Così come quello che gli adulti e i media etichettano genericamente come bullismo spesso non ne ha le caratteristiche (squilibrio di potere e ripetizione dell’aggressione): anche qui questa categoria ombrello impedisce di vedere come l’aggressione, la cattiveria, il gossip, il pettegolezzo (nell’insieme drama) siano parte importante delle relazioni tra adolescenti e nella loro ricerca di potere e status all’interno delle proprie reti e siano mutuate da una società civile che li alleva a reality show e gossip al vetriolo sulle celebrità.
Disuguaglianze
Dall’altra parte il mito di una tecnologia salvifica che avrebbe appianato le disparità sociali si infrange davanti ad una realtà in cui nella rete vengono riprodotte tutte le divisioni della società reale: i gruppi si creano in ragione dell’omofilia, e online vengono riprodotte tutte le divisioni su base etnica e socioeconomica presenti fuori dagli ambienti mediati dalla tecnologia. Avere accesso alle informazioni disponibili su internet non è abbastanza per superare le disuguaglianze strutturali e le divisioni sociali.
Così come il concetto di “nativi digitali” non è altro che un comodo parafulmine che nasconde la distribuzione impari delle abilità tecnologiche ignorando il presunto livello di privilegio previsto per essere “nativi”.
Educazione ai media
“I giovani hanno bisogno di un nuovo alfabetismo”: devono ricevere un’educazione ai media e capire come districarsi in un mare di informazioni facilmente accessibili e poco verificabili; per una partecipazione critica hanno bisogno anche di competenze tecniche, che devono essere volontariamente studiate (passare del tempo sui social network con gli amici non basta) e sono legate alla qualità dell’accesso che i ragazzi fanno ad internet e, quindi, allo status socioeconomico. In tal modo si riproduce in altra forma il digital divide, legato non più e non solo all’accessibilità fisica dei dispositivi ma alla qualità del loro utilizzo.
Gli adulti dovrebbero aiutare i giovani a sviluppare le competenze e la prospettiva per affrontare in modo costruttivo le complicazioni portate dalla vita dei public in rete. Collaborando, giovani e adulti possono contribuire a creare un mondo in rete migliore.
Questa prospettiva di “tecnologia neutra” mi ha in un primo momento lasciata piuttosto perplessa: oltre ad essere ricercatrice alla Microsoft Research, Assistente Professore alla NY University, e membro dell’Harvard’s Berkman Center for Internet and Society, curriculum di tutto rispetto per una classe ’77, danah boyd (che non usa le maiuscole nel nome) dice di sé “At my core, I’m both an activist and a scholar” (“Nel mio nucleo sono insieme un’attivista e una studiosa”).
Alla luce della sue precedenti analisi e articoli sul nesso tra privacy, big data e diritti civili, mi aspettavo da lei un testo più politico, che contenesse critiche al modello produttivo del capitalismo del web 2.0, che affrontasse il problema della sorveglianza declinandolo come sorveglianza partecipativa (sui social network tutti controllano tutti), che emergessero più decisamente critiche alla ideologia della trasparenza assoluta e del “Non ho nulla da nascondere”.
Per rintracciare questi aspetti di critica, che pure ci sono, bisogna fare uno sforzo e leggere tra le righe: Facebook viene utilizzato sempre come esempio negativo e anche di Google e dei suoi algoritmi viene data un’immagine tutt’altro che positiva.
Poi ho deciso di leggere il libro considerando oneste le premesse; nell’introduzione, danah boyd dichiara: “Do per scontata, e raramente cerco di mettere in discussione, la cultura capitalista che è alla base della società americana e dello sviluppo dei social media. Pur credendo che questi presupposti siano criticabili, questo andrebbe oltre i propositi del mio progetto. Accettando il contesto culturale in cui vivono i giovani, cerco di spiegare le loro pratiche alla luce della società in cui si trovano”, o ancora, nell’ultimo capitolo: “I mondi commerciali a cui hanno accesso non saranno l’ideale, ma non lo sono nemmeno la mobilità ridotta che vivono, né la vita pesantemente organizzata che conducono”.
Fatte queste premesse, il testo rimane fortemente politico: affermare che i problemi degli adolescenti online non dipendono da caratteristiche intrinseche della tecnologia ma dal complessivo sistema di valori della società è un forte atto di accusa e una chiara richiesta di autocritica; danah boyd ci restituisce un ritratto della società americana dalle tinte veramente fosche.
Purtroppo, e fatte le dovute proporzioni (da noi, per ora, non c’è il coprifuoco!) molti degli aspetti problematici che riguardano gli adolescenti, come la restrizione della mobilità e la mancanza di tempo libero, non sono lontani da quello che si vivono i ragazzi nelle città italiane, mentre forse nei piccoli centri ancora godono del privilegio di poter stare insieme agli amici in piazza. Fare in modo che ragazzi e ragazze tornino a popolare le piazze delle città, a frequentarsi di persona, a passare meno tempo connessi a siti online di cui non conoscono le regole e ai quali regalano le proprie informazioni, questa sì sarebbe una bella sfida per il mondo degli adulti: ricreare una città a misura di bambini per migliorare per tutti la qualità della vita.
– Giorgia del collettivo sm4mm3 –
Questo guestpost è stato scritto per noi da Giorgia e fa parte del progetto di cui è parte, che così ci racconta.
Smamme è in origine il nome di un gruppo di auto-aiuto tra mamme, soprattutto monogenitrici, legate dal desiderio-bisogno di fare rete per scambiare e accrescere le competenze necessarie all’educazione e all’accudimento di una figlia o figlio.
E’ da sempre un gruppo informale il cui collante principale è una visione affine dell’educazione: dal rifiuto dei metodi autoritari e coercitivi nasce l’esigenza di cercare, insieme, strategie sempre nuove per affiancare bambine e bambini nel percorso verso le loro autonomie.
Così, crescendo i figli e le figlie, alcune di noi hanno sentito l’esigenza di strumenti specifici per poter essere presenti anche nel loro rapporto con le tecnologie. E sono nate le Sm4mm3, smamme tecnologiche e anche qualche papà.
Il nostro blog è sm4mm3.noblogs.org, ed è un blog-bradipo: siamo lente, ci piace fare le cose con calma, vederci di persona, discutere, confrontarci.
la cosa più simile ad una ricerca come quella di boyd che conosco relativa ad alcuni paesi dell’europa (tra cui l’italia) è un progetto che si chiama Net Children Go Mobile, sovvenzionato dall’UE. Sul sito del progetto si trova tutto il materiale. Secondo me le somiglianze sono più metodologiche (approccio scientifico applicato alle scienze sociali) che di merito, perché mancano completamente le critiche all’esistente che rendono interessante questo libro. Si fanno statistiche, da cui emerge anche la minore ricchezza di contenuti per gli utenti non anglofoni, e si danno suggerimenti (nello specifico si chiede alle aziende di produrre contenuti di qualità, sottovalutando l’aspetto che nel web 2.0 la maggior parte di contenuti sono genereati dagli utenti stessi). L’aspetto delle differenze socioeconomiche è molto trascurato, tanto che questo parametro, utilizzato nell’esposizione di alcuni dati, ad un certo punto “misteriosamente” sparisce nei grafici che riguardano la mediazione familiare rispetto alle tecnologie. Non so se ci sono altre ricerche simili, se vi va di questa possiamo parlarne.
Grazie Giorgia per questa recensione molto ben scritta. Sono contenta di vedere anche che sempre più voci parlano del fatto che i ragazzi sono molto più consapevoli di quanto riusciamo ad immaginare. Mi chiedo se uno studio simile svolto in Italia o in altri paesi darebbe lo stesso risultato. Per quanto il web è vissuto in maniera globale dai giovani, è evidente che il mondo anglofono possa naturalmente viverlo in modo più globale, mentre il web italiano, o francese, ad esempio, potrebbe subire maggiormente il condizionamento del paese specifico sia in termini di cultura generale, sia in termini di cultura del web. Ne sai qualcosa in merito?