Oggi è l’8 marzo, ma qualcosa ancora qui non va…
Non riesco a togliermi dalla mente il “caso di Cisterna di Latina”.
Che brutto chiamarlo “caso”! Tanto più che proprio non è un caso, non ha nulla di casuale.
E’ uno dei tanti femminicidi e qui, le femmine uccise, sono due bambine. La femmina madre è ancora viva, non si sa per quanto e, temo per lei, non si sa perché. Sarà sempre e comunque una donna uccisa.
Questo “caso”, non ha nulla di diverso da tanti femminicidi, se non fosse che è un caso paradigmatico, un caso di scuola, come dicono i giuristi: riassume in sé tutte le caratteristiche del femminicidio, non manca nulla.
C’è una decisione da parte di una donna di compiere una scelta di vita diversa da quella condotta fino a quel momento. Uno stop, un cambio di direzione.
C’è una negazione di questa decisione da parte di un uomo. Non una scelta diversa, neanche un rifiuto: proprio una negazione. Così non deve essere. Cancellazione della decisione.
C’è il contesto, che poi è quello che determina la ripetizione di caso dopo caso, quello che rende plausibile per l’assassino l’assurda teoria per cui la decisione di un altro essere umano possa essere cancellata, negata, terminata.
Il contesto, è un problema nostro. Il contesto siamo noi. Tutti noi.
Nel contesto nasce la narrazione di questa vicenda, come tante, come tutte le altre.
Il contesto parla di raptus, di follia, di gelosia, di depressione, addirittura di amore, di sentimenti, di ferite. Nel contesto ci sono anche voci che urlano: No! Dobbiamo parlare di omicidio, di assassino, di mentalità patriarcale, di lucida determinazione, di sottocultura sessista.
Nel contesto c’è di tutto: c’è padre di famiglia, c’è troia, c’è carnefice, c’è separazione, c’è pazzia, c’è te lo sei andata a cercare, c’è basta. C’è la conta delle morte, c’è la giustificazione degli assassini, ci sono le parole di circostanza e i tentativi di spiegare che sono proprio le parole che vanno cambiate per prime, da subito.
Nel contesto però ci sono anche due elementi, che sono, sì, anch’essi contesto, ma sono un “contesto qualificato” per così dire, un contesto che ha delle responsabilità istituzionali.
Il primo. Ancora una volta le richieste di aiuto c’erano state, ma erano state sottovalutate. Eh no. Sottovalutate non mi sta più bene: erano state volutamente e scientemente messe a tacere. Perché oggi gli uomini delle Forze dell’Ordine non possono sottovalutare una storia del genere, non ci sono più scuse.
Io li conosco poliziotti, carabinieri e magistrati che NON sottovalutano, che si muovono subito quando sentono racconti del genere, che hanno imparato a cogliere i particolari. E allora perché altri loro colleghi no? Sono proprio i poliziotti, i carabinieri e i magistrati che NON sottovalutano, o meglio che non chiudono gli occhi, che danno la misura della colpa di chi invece rifiuta di agire. Perché loro dimostrano che è professionalmente possibile intervenire, che non c’è irrimediabilità, non c’è impossibilità di previsione, non c’è forza maggiore. Ogni persona in posizione di autorità che interviene per tempo, rende evidente la responsabilità di chi si è rifiutato di agire. Per ogni azione tempestiva c’è una donna che non morirà: forse non farà notizia, ma misurerà la responsabilità della morte di un’altra. E qualcuno, prima o poi, dovrà chiedere conto di questa responsabilità.
Il secondo. Ancora una volta il racconto di questa vicenda su troppa stampa è colpevole: orribile e colmo di parole moleste, squallide e violente.
“Luigi ha sofferto molto dopo la separazione, ma non lo faceva vedere”
“Voleva tornare a casa e ha fatto di tutto per riuscirci. Non so se sia stato un marito pessimo, sicuramente era un ottimo padre e adorava le sue bambine”
“A distruggerlo è stata la lontananza dalle figlie. Non voglio giustificarlo, ma sia Antonietta che il suo avvocato hanno gestito male questa situazione.”
“Era geloso della moglie, ha visto qualcosa che non andava e ha fatto quello che non avrebbe dovuto fare”
“Il carabiniere aveva già aggredito la moglie in passato. E chi lo conosceva racconta che era molto legato alle figlie.”
“L’atroce follia del carabiniere napoletano: «Gino è crollato senza Martina e Alessia»”
Però ci sono sempre più quotidiani o siti di informazione che hanno scelto un’altra strada: hanno scelto di curare le parole da usare, hanno evitato di parlare di raptus, gelosia, follia; hanno dato voce a chi si occupa di violenza di genere per spiegare che in questi casi si parla di crimine lucido, di rapporti di forza e potere, di patriarcato, di negazione.
Questi organi di stampa danno la misura della responsabilità di tutti gli altri, che invece hanno deciso di raccontare la solita storia del dramma della gelosia. Chi finalmente ha scelto una narrazione diversa, dimostra che è professionalmente possibile cambiare registro, che la cultura passa attraverso l’informazione onesta e consapevole. Chi non l’ha fatto, oggi è ancora più colpevole di ieri.
Solo che non possiamo continuare a contare le morte, per fare un piccolo passo a ogni nuovo omicidio. Dobbiamo correre, dobbiamo sbrigarci. Non c’è più tempo ed oggi è un altro 8 marzo.