Le opportunità di spendere parte della tua vita in una lingua non tua sono infinite. Per me, una delle più interessanti è scoprire, proprio a partire dalle parole, dai confronti con quello che una parte di te ha vissuto lessicalmente per tanti anni, concetti cui magari non avresti pensato, senza il salto. A volte frasi idiomatiche, che magari perdono significato per chi le usa quotidianamente, offrono l’opportunità di osservarsi dal di fuori, e magari anche di cambiare approccio su certe cose, di implementare un cambio di paradigma. Vi racconto qui delle cinque frasi idiomatiche o di uso comune in inglese che hanno avuto questo impatto per me, che mi hanno costretta a ripensare certe cose, e che alla fine, senza voler per forza dimostrare drastici teoremi sull’esistenza, hanno reso, di fatto, la mia vita più leggera.
Are you all right?
Io ero abituata a salutare, ed essere salutata, con un casuale “Ciao, come stai?”. Il come stai è una domanda aperta, che offre il fianco a risposte elaborate sulle condizioni proprie e dei propri, di salute di umore e quant’altro. Sarà che io porto il pessimismo d’ordinanza delle mie origini nel profondo Sud, ma la risposta a questa domanda è sempre, se ti va bene, un “non c’è male grazie”, o un “tiriamo avanti”, e se ti va male ti tocca l’elenco delle disgrazie degli ultimi mesi. Qui sono salutata, e saluto, con “Ciao, tutto bene?”. Che rispondi al tutto bene? È una domanda chiusa, o si o no, senza mezzi termini. Nell’incertezza, rispondi si, perbacco! E se rispondi no, è perché davvero hai qualcosa di importante da raccontare, e ti viene garantito assoluto ascolto. Mi son posta il problema varie volte, e devo dire che alla fine, dopo ponderazioni accurate, mi ritrovo a dire con cognizione di causa molti più si che no. E si sa, il crederci è il primo passo per il diventarci.
Draw the line
Sono sicura esista anche un’equivalente espressione in italiano, anche se ora mi sfugge, ma mi piace molto l’immagine di questo “tira la riga”, metti un segno, fin qui va bene, oltre no. Riesci quasi a visualizzarlo nella tua mente. Accetto la cosa fino a questo punto, oltre no. La linea di demarcazione fra quello che sei o vuoi essere, e quello che non sei, o non vuoi essere, aiuta a chiarire i pensieri, ad individuare linee guida nelle decisioni, ma anche a perdonarsi per certe trasgressioni. Che una linea si può sempre cancellare e tirare un po’ più in là.
Buying (an inch of) the story
Noi le storie le “beviamo”, l’inglese le “compra”. Se non compro la tua storia, vuol dire che non mi convince. Ma anche, comprare significa investirci, significa attivamente impossessarsene: e allora evitiamo di comprare un pezzetto di una storia necessariamente, che significa anche evitiamo di lasciarci trasportare dal sentimento di pancia, che si, bello, genuino, rustico, quellochevuoi, ma se siamo esseri pensanti ci sarà anche un vantaggio evolutivo in questo? E allora, distacchiamoci un minuto, pensiamo bene, ponderiamo. È proprio il caso di sentirsi “una pessima madre” alla fine di una giornata di stress? O etichettare persone in base ad atteggiamenti che a pelle non condividiamo (vedi le mamme del parco di Silvia?). Dobbiamo proprio indugiare in questa storia, o magari possiamo evitare di comprarne anche soltanto un pezzettino? E archiviare la giornata come una di stress, e basta? Coraggio, su, in fondo se non la compriamo, risparmiamo! Decresciamo felici almeno in questo, ecologia di pensiero.
Horses for courses
È sempre in agguato la tentazione di rammaricarsi di non essere supereroi. Così come è sempre in agguato l’illusione che delegare sia un po’ una sconfitta. Beh, no, non è detto affatto. Scegliere il “cavallo per l’ippodromo” è un’ottima strategia invece, lasciare fare le cose a chi le sa fare meglio, non sentirsi sconfitti o emarginati se la squadra comunque vince, ci sono altri circuiti dove tu potrai dare il meglio, e allora sono quelli in cui correrai. Ma anche trovare per tutti il talento che meglio si addice a ciascuno, e valorizzarlo (quello dei nostri bimbi, per esempio), senza guardare che fa il vicino.
Take your time
Immaginate la scena: una conferenza, o una relazione pubblica, voi, la persona che rappresenta il più fulgido pensiero in materia, parlate davanti ad una platea gremita, che pende dalle vostre labbra, tutti hanno letto le vostre pubblicazioni, studenti prendono forsennatamente appunti. Si arriva al momento delle domande dal pubblico, ed eccola che arriva LA domanda, una cosa cui non avevate mai pensato, un dubbio legittimo, una possibile estensione non considerata, ma avreste bisogno di pensarci su, di consultare la letteratura, prima di esserne certi. Che fate? Sudate freddo? Tentate una risposta? Andate a braccio sperando di sgamare la domanda? Fate appello alla vostra profonda conoscenza in materia per convincere la platea che ci avevate pensato e avevate scartato l’ipotesi? Colleghi italiani alle loro prime conferenze internazionali sono puntualmente stupiti dal fatto che spesso speakers inglesi semplicemente rispondono “oh, la domanda è davvero interessante, ci devo pensare, ci possiamo parlare dopo, alla pausa, o per e-mail?”. Stupiti che questa sia una risposta legittima, e che nessuno dalla platea faccia partire i pomodori. Perché benché in Italiano “prendere tempo” abbia un’accezione negativa, si prende tempo se si vuol cercare di svicolare, o rimandare, qui invece è cosa buona e giusta. Non siamo sempre sul palcoscenico (anche quando lo siamo!), non siamo tenuti a sapere tutto, non dobbiamo necessariamente apparire in pieno controllo della situazione, e soprattutto non dobbiamo aver paura di mostrare quello che siamo realmente, la “brutta figura” è un’invenzione. Take your time, prendi tempo, il tuo tempo, quello che ti occorre, una risposta arguta non serve a nessuno, una soluzione affrettata neanche, prendere tempo significa dare il giusto peso alle cose, rispettare chi ti sta davanti, i suoi tempi e le sue esigenze, significa approfondire per capire meglio, significa rilassarsi di fronte ai propri limiti.
Non so se riesco a rendere la sensazione di eureka che hanno avuto per me queste frasi, un po’ come quando ho scoperto il potere (e il gusto) dell’understatement (ma su questo ci vorrebbe un post a parte), mi rendo conto che viste dal di fuori possono sembrarvi escamotage sempliciotti, ma magari invece anche voi ne avete di analoghe che ci potete raccontare?
Mi piacerebbe tantissimo un post sull’understatement, quindi promettilo, dai!
Le espressioni linguistiche fanno parte del modo di sentire di un popolo. Ho sempre trovato carina anche A penny for your thoughts, o thank’s god, it’s friday, chemi ritrovo a pronunciare spesso il fine settimana..
Ciao!
Trovo molto interessante la tua lettura. L’unico paese dove ho vissuto a lungo e’ stato la Spagna e non mi ricordo di frasi idiomatiche che abbiano cambiato cosi tanto la mia visione del mondo.
Io, forse perche ci sono stata per dei periodi troppo brevi, avevo trovato snervante l’americano How you doing chiesto dalla cassiera del supermercato o entrando nei negozio. Non so, ma che me lo chieiD a fare che tanto non te ne frega niente?
Invece ho sempre adorato la risposta francese “ca va” alla domanda come va? Va. Senza tirare in ballo divinita’ o la storia della propria vita!
Take your time invece e’ un mantra. Che per me significa anche approfondire bene le cose.
Ciao
V
Belle! Mi compro “horses for courses” e “take your time”, me le terrò strette per benino entrambe non vivendo in UK 😉
mi piace tantissimo questa riflessione sulla lingua, perché la lingua deriva dalla concezione del mondo di un popolo e allo stesso tempo la plasma. In questo modo uno straniero imparando determinati modi di dire deve entrare in una diversa conformazione del pensiero, in un diverso modo di concepire le cose. Prenderò il mio tempo, imparerò a puntare sul cavallo giusto e a tirare linee (che poi da noi sarebbe tiramm innanz, ma effettivamente fa più rassegnato, nel draw a line c’è almeno il gesto attivo del disegno).
una cosa su are you all right. mi ha fatto subito pensare che in arabo c’è un’espressione simile per salutarsi, dopo il buongiorno si dice kullu tamam? che vuol dire tutto bene? (in tunisino lebbès, che vuol dire niente male? ) e che si risponde? in genere o dici che va bene e allora ringrazi Dio (al hamdulillah) oppure fai capire che potrebbe andare meglio, o che hai qualche problema, e allora non è che ringrazi Dio, ma lo tiri in causa comunque e dici che va come vuole Lui (inshallah).
A parte il comrparsi la storia, riconosco tutte, ma proprio tutte queste espressioni anche nella loro versione olandese e hanno avuto lo stesso effetto su di me. Per il mio carattere, la più importante è quella “fin qui ma non oltre” che mi impedisce di esaurire forze, energie ed entusiasmo nelle esigenze degli altri. E certe volte riesco persino ad applicarle in famiglia e riusciamo persino a fare dei piccoli passi avanti.