I bambini e le bambine incontrano presto relazioni e strutture di potere, e anche la violenza che li accompagna. Il che non vuol dire, automaticamente, che si tratti di «violenza sui minori»: stiamo parlando di forme di potere e di esibizione di un potere (quindi anche forme di violenza) che non si riconducono però a reati, né azioni classificate come comportamento violento, come abuso, a volte neppure maleducazione.
Il gioco del «poliziotto buono e poliziotto cattivo», ormai proverbiale in tanti telefilm e cliché letterari, lo si usa in famiglia da secoli. Il papà è quello che è «meglio non far arrabbiare» o le conseguenze della sua arrabbiatura saranno ben peggiori di quelle materne; meglio non fargli sapere le cose; meglio non costringerlo a decidere, meglio non metterlo di fronte al fatto compiuto; la sua ultima parola, di solito, è quella definitiva. Questi sono modi per istituire una gerarchia di potere nella quale l’uomo/padre sarà sempre superiore alla donna/madre, e lassù rimarrà per tutta la durata della crescita del bambino o bambina. L’eco di questa gerarchia si sentirà ovunque durante le attività di bambini e bambine.
Ancora oggi molti genitori credono che i giochi nei quali si usa la forza (regolata) o il contatto fisico siano pensati per i maschi e non per le femmine – anche quando la forza è solo usata metaforicamente; la scelta degli sport da svolgere è troppo spesso dettata, specie per le ragazze, dalla preoccupazione per uno sviluppo «femminile» del corpo secondo i consueti e mai discussi canoni di grazia e armonia, senza valutare l’ipocrisia di questo canone.
Per le bambine ginnastica artistica sì, arti marziali no; pallavolo sì, pallacanestro no; atletica sì, calcio no. I desideri di bambini e bambine passano quasi sempre in secondo piano rispetto alle richieste di una immagine sociale del loro sesso, e non ci sono casi e statistiche che tengano: la mentalità patriarcale e sessista resiste a ogni evidenza numerica e a ogni testimonianza eccezionale.
Deviare un desiderio, mortificare una possibile esperienza di sé, sono forme di violenza, e spingere una bambina verso la danza invece che verso il judo o un bambino al calcio invece che al pattinaggio artistico – quando queste scelte sono dettate da pregiudizi – sono violenze. Violenze che hanno un valore “contaminante”, perché queste scelte rimarranno come segni impressi, strade, condotte di comportamento per un bambino o una bambina da usare anche in futuro. Si sottovaluta troppo spesso che il comportamento sessista di un genitore è avvertito dai bambini e dalle bambine come «la regola», come ciò che va fatto per essere accettato e voluto come bambino o bambina.
Questa imposizione, che sembra ovvia e naturale da parte di una figura autoritaria, per la prole ha un peso emotivo enorme: è in gioco la solidità del rapporto, che per bambini e bambine è vitale, quindi una repressione o una deviazione del desiderio avrà conseguenze molto sentite. Tanto per cominciare, le avrà subito nei rapporti tra pari instaurati da bambini e bambine: la violenza ricevuta sarà immancabilmente trasmessa, con i gesti o con le parole.
Tipicamente ci si stupisce di quanto i bambini e le bambine a volte siano crudeli o spietati nei loro giudizi; ci si dimentica però dei bambini nati in contesti sociali umanamente terribili che imparano a manovrare armi, o a lavorare per dieci ore al giorno in tenera età. Com’è possibile? In realtà è molto semplice: in quei contesti la loro vita è quella, è l’unica vita che abbiano vissuto e di cui abbiano sentito parlare. E pur in un contesto diverso, l’incidenza di quella realtà vissuta rimarrà decisiva: cresciuto in un contesto sessista, il bambino o la bambina sarà sessista nei pensieri e nei gesti, volendo e desiderando quei segni distintivi del proprio sesso che gli sono stati imposti, che vede agiti intorno a sé, che sente come socialmente accettabili da quando è nato.
Eppure non dovrebbe essere difficile immaginare quello che succede. I bambini tra loro sanno essere straordinariamente capaci di non stupirsi di situazioni che a noi adulti sembrano complicatissime, così come sono terribili nel discriminare chi non appartiene al loro gruppo, alla loro cerchia, a ciò che riconoscono simile a loro. Queste capacità non sono innate: sono una risposta, non filtrata da un linguaggio evoluto e da una lunga esperienza di vita, a ciò che l’ambiente sociale li ha educati ad essere. Lo stupore che suscitano in noi la loro tolleranza come la loro crudeltà, dovrebbe essere l’inizio di una migliore e più profonda comprensione di certe dinamiche sociali: invece rimane troppo spesso un’estatica ammirazione – o una empatica repulsione – per un comportamento singolo, che rende ai nostri occhi quel bambino o quella bambina unici autori e ideatori del comportamento che vediamo. Quasi mai è così.
Tratto liberamente a cura dell’autore dal libro “Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni” di Lorenzo Gasparrini, Editore Settenove
“Mamma, io sono un maschio, vero? Non sono una femmina”
“Amore, hai il pisello, direi che sei proprio un maschio. Perché, qual è il problema?”
Guarda, altro, sospira, poi fa:
“Le femmine vanno a balletto”.
E fu così che alla tenera età di 4 anni trovai una classe di balletto di soli maschi – scoprii che un altro paio di scuole ne avevano – e comunque dopo tre mesi di casino e un saggio, Luca decise che in fondo balletto non gli interessava. E manco a suo fratello maggiore che aveva insistito per farlo anche lui.