Quando la società ci fa vergognare del comportamento dei nostri figli, siamo sicuri che sia sempre necessario cambiare la società e non il comportamento? La vergogna quando sappiamo cogliere la sfida, può trasformarsi in un motore importante per la crescita.
Benaltro che il ristorante
È stato praticamente impossibile sfuggire al dibattito sul ristorante che vietava l’ingresso ai bambini, quasi quanto dribblare tra i commenti e le aggressioni più o meno velate al termine “petaloso”. Sembra che in un momento storico come questo, i problemi sociali, economici, politici e internazionali siano così complessi e richiedano così tanta pazienza per essere compresi e sciolti, come il nodo di Gordio, che preferiamo tagliare dritto e inserirci in discussioni che padroneggiamo meglio.
Inizierò, allora, ribadendo il benaltrismo del problema, come nella pratica comune di queste discussioni, per dare il mio piccolo contributo.
Non parlerò del diritto o meno dei genitori a portare i figli al ristorante, del diritto o meno del ristoratore a chiudere la propria porta, del diritto o meno degli altri commensali a mangiare in pace o a urlare sguaiatamente parolacce e bestemmie senza doversi preoccupare degli eventuali bambini presenti (che palle, dicono loro! – giustamente? Mi chiedo io).
Diritti inalienabili
I diritti di cui stiamo godendo, in molti luoghi del mondo sono ancora inesistenti. Per lungo tempo, sono stati inesistenti anche tra noi. Il diritto alla vita, alla libertà di movimento, alla libertà di parola, alla proprietà, a sposare chi amiamo, a divorziare da chi amiamo, a far nascere figli del nostro sangue oppure no, se non ce la sentiamo, al lavoro o almeno alla sua ricerca. Si stanno sperimentando forme di diritto al reddito minimo. Il diritto alla pace – che godiamo da più di sessant’anni, in Europa Occidentale, se escludiamo Berlino e la Germania divisa, la ferita della guerra dell’ex-Jugoslavia – ci è stato garantito grazie a una forma politica, imperfetta e in divenire, l’Europa, fortemente voluta da Ministri illuminati come De Gaulle, Adenauer, Churchill, De Gasperi, che avevano ben presente il ricordo del fumo dei forni crematori della “soluzione finale”, il massacro tra popolazioni affini. Il trauma è ancora in fase di “smaltimento” da parte delle seconde e terze generazioni, non stiamo parlando solo di pagine di un libro di storia.
Questi diritti, di cui godiamo e di cui vorremmo potessero godere tutte le persone del mondo, o almeno così ci sembra quando ci emozioniamo e addoloriamo di fronte alle sofferenze, alle ingiustizie, alle atrocità ancora permesse in troppi paesi, sotto troppe dittature, sono per noi una ricchezza purtroppo scontata.
Un po’ di frustrazione fa bene a tutti
Dopo aver provato la gioia di poter comprare praticamente tutto ai nostri figli, di potergli permettere tutto, di poterli invitare a godere di tutto, sembriamo incapaci a tollerare la frustrazione di dire “no”. Che il diritto all’ennesimo possesso, all’ennesima uscita, all’ennesima esperienza, forse – oggi – va rinviata.
Sono ben consapevole che la frustrazione, una situazione interna o esterna che non consente di conseguire un soddisfacimento, può diventare dannosa, perché scatena aggressività o reazioni regressive, di chiusura in se stessi. Ma in piccole dosi, è, io credo, un fondamentale motore di sviluppo. A partire da Carol Dweck continuando per altri che stanno studiando la stessa materia, si sta lavorando sull’impatto positivo che ha definire un lavoro (un compito, un’interrogazione) “non ancora” arrivato al risultato prefisso. Non un voto che sia un giudizio definito, quasi una pietra tombale sotto cui seppellire la nostra predisposizione alla matematica o alle scienze, ma una piccola, sopportabile frustrazione a cui reagire.
Vergognarsi è un’emozione faticosa ma indispensabile
La frustrazione è anche la vergogna di non essere all’altezza del confronto con gli altri. Vergogna potrebbe anche essere disapprovati dagli altri.
La vergogna è una di quelle emozioni, faticose e difficili, che ci piace tanto sbattere fuori dalla porta, quando lei vorrebbe solo aiutarci a comprendere meglio le regole sociali per farci vivere bene dentro al nostro gruppo, per essere accettati dal nostro gruppo.
Il dovere di essere parte di una comunità è la garanzia per i nostri diritti
Accettare la frustrazione e la vergogna perché nostro figlio – generalmente amabile – non sta salutando, sta urlando sguaiatamente, si sta gettando per terra nella corsia del supermercato, sta facendo il bullo, sta spacciando droga, non va a scuola, ruba nel mio portafoglio …. – ci porta a un bivio fondamentale.
Pretendo il diritto di fare accettare questo comportamento, che fino adesso è stato intollerato, perché credo davvero sia utile alla società cambiare in questo senso, mi piace un mondo così?
Oppure, così come godo dei diritti che la comunità a cui appartengo garantisce a tutti, mi faccio carico del dovere di educare mio figlio a seguire le norme comuni?
Accetto, insomma, la vergogna come un segnale di “poter fare meglio” e accompagno mio figlio a gestire un minimo di frustrazione, che diventerà in futuro il suo personale patrimonio: la capacità di appropriarsi delle norme della comunità a cui vorrà appartenere, per sentirsene parte e far sbocciare la sua individualità in mezzo e con gli altri?
Rileggo questo post dopo i fatti di Roma, dei due ragazzi che hanno ucciso qualcuno per divertimento. E rilinko questo articolo che mi pare cada proprio come si dice ” a fagiolo”
http://www.huffingtonpost.it/vanna-iori/quel-familismo-amorale-che-rende-i-figli-disumani_b_9457018.html
eh.. si.. ecco come pensieri comuni si sovrappongono, rincorrono e rinforzano..
rispetto ed educazione sembrano estinti da tempo–….
O forse inconsciamente non sappiamo dove condurre la societa’ e anche l’educazione e’ priva di direzione?
Ci sono tante interpretazioni, magari a qualcuno piace cosi.