La conciliazione tra lavoro e famiglia non come una questione “per mamme”, “per donne”, ma è un problema per genitori e quindi una questione di famiglia, nel suo complesso.
È una partita a scacchi, quella tra Marissa Meyer, la giovane AD di Yahoo! e Sheryl Sandberg, COO di Facebook e nuova maitre-à-penser del femminismo americano.
Giocano a chi farà scacco matto nella partita della conciliazione famiglia-lavoro. Dopo aver deciso di eliminare il telelavoro per i dipendenti di Yahoo!, attirandosi gli strali di molti, la Meyer ha annunciato di aver allungato il congedo di paternità a 8 settimane, oltre a quello di maternità a 12 (il congedo, stabilito nel Family Medical Leave Act del 1993, non è rimborsato dallo Stato e sono invece le aziende che possono includerlo nell’assicurazione dei propri dipendenti, proprio come l’assicurazione medica e il fondo pensione) e un «bonus bebè» di 500 dollari.
Quisquilie, rispetto a quanto si fa in Facebook o Google, ma tanto basta a far ritornare la Meyer sulle pagine dei giornali, e per far tornare noi a riflettere su quanto è ampio l’Oceano Atlantico.
Non possono non venirmi in mente le parole di Sheryl Sandberg in un famoso intervento al TED del 2010 nel quale consigliava a tutte le colleghe di stare bene attente a chi si sposavano. Vuoi continuare a lavorare? Trovati un marito che ti aiuti a cambiare i pannolini.
Mettendo insieme questi pochi elementi, mi viene da pensare che ormai nella mente delle signore e delle politiche statunitensi è acquisito un dato che da noi rimane sempre nel limbo: e cioè, che la conciliazione famiglia-lavoro non è una questione di donne, ma è una questione di genitori. Non è una questione di pari opportunità, ma una questione di diritto e di possibilità di fare il genitore, padre o madre.
A guardare le statistiche sull’utilizzo dei congedi di paternità (facoltativi) nel nostro Paese, capiamo che la strada è ancora lunghissima, e solo tra qualche tempo potremo capire quale impatto hanno i tre giorni del congedo obbligatorio stabilito nella riforma Fornero. Tante le questioni che si intrecciano: gli uomini guadagnano più delle donne, le culture aziendali disincentivano l’utilizzo dei congedi (se ti va bene pensano che tu non sia interessato al lavoro, se ti va male i colleghi ti prendono per i fondelli per i sei mesi successivi), e se c’è a casa già la mamma, che bisogno c’è che ci sia anche il papà?
Tutto qui? È su questo che dobbiamo lavorare, sui congedi di paternità?
Jennifer Owens di Working Mothers USA, in un suo articolo sui “nuovi” congedi parentali di Yahoo! (per inciso, la Owens ce l’ha a morte con la Meyer per la vicenda del telelavoro) ricorda sagacemente che «Parenting is a marathon, not only a sleep-deprived sprint», fare il genitore è una maratona, non una gara di velocità (e quindi il telelavoro vale tanto quanto le buone politiche sui congedi parentali, beccati questa, Marissa).
E qui ritorna il consiglio di zia Sheryl: scegli bene l’uomo con cui con-dividere la tua vita.
E ok, DonnaEmancipata e UomoIndipendente sono la coppia fiore all’occhiello delle pari opportunità, lui si lava i calzini da solo e che non le chiederà mai di stare a casa a preparargli la cena. Eppure, a un certo punto, succede. Succede che questa coppia metta al mondo un pargolo, che nonostante tutta l’emancipazione materna piange, ciuccia latte e fa la cacca, e la nostra coppia si tramuti improvvisamente nella versione post-moderna di nonno Giuseppe e nonna Maria: lui lavoro e divano, lei pargolo e bucato (e blog).
Niente di male, per carità.
A poterselo permettere.
Perché nella versione post-moderna di nonno Giuseppe e nonna Maria, lei oltre al pargolo, al bucato e al blog ha anche un lavoro, per di più necessario. Sempre per la solita storia della crisi. Poi lei a un certo punto si stufa, e molla il lavoro, più spesso del marito, per fortuna. E allora ecco di nuovo tecnici e politicanti ad affaccendarsi alla ricerca di una soluzione nelle pari opportunità, impiego femminile, dati demografici, e tutto quel gran guazzabuglio di grafici e numeri: donne, madri, asili nido, parità, quote, incentivi, leggi, congedi, leggine e decreti.
Che, se la conciliazione fosse una questione di famiglia, magari verrebbe riconosciuto anche il diritto a non lavorare per dedicarsi alla cura del proprio figlio, con una tassazione che sia equa – ma provate a dire questo in giro in Europa e vi accuseranno di voler rispedire le donne dentro le mura domestiche dalle quali infine sono state liberate, e ritorniamo daccapo.
Perché il vizio sta tutto lì: in Europa le politiche di conciliazione sono ancora politiche per permettere alle donne di lavorare, non politiche per il benessere del lavoratore e/o della famiglia.
E questo vale per il discorso pubblico.
Poi mi sono accorta che c’è anche un discorso tutto privato, di quelli che si fanno (o, meglio, non si fanno) tra le mura di casa.
Torniamo indietro un attimo. Torniamo a due secondi prima dell’implosione, a quella sera in cui il neonato finalmente si è addormentato e Donna Emancipata e Uomo Indipendente si ritrovano sul divano. O ancora più indietro, al momento in cui si sono guardati negli occhi e si sono detti “Facciamo un bambino”.
Stop.
In quel momento sospeso, e in tutti i giorni che seguono quel momento, i due si sono chiesti e si sono detti reciprocamente chi si sarebbe preso cura del bambino? Chi lo avrebbe accompagnato al nido, chi dal dottore quando è malato, chi alla lezione di tennis? Si sono ridetti la reciproca responsabilità delle loro scelte e decisioni, di decisioni prese in due? Ne hanno parlato, in quel momento e negli anni a seguire? (perché un conto è farle, le cose, un conto è dirsele).
Da una ricerca australiana, risulta che le mamme che hanno scelto di rimanere a casa dopo la nascita del figlio non hanno discusso insieme al partner questa loro scelta.
Ancora, mi ronzano in testa le parole di zia Sheryl: scegli bene l’uomo con cui con-dividere la tua vita. E mi viene da pensare che non intendesse, banalmente, “sposati uno che sappia caricare la lavastoviglie” ma “sposati uno con il quale condividere le scelte di lavoro e di cura della vostra famiglia”.
– scritto da Lorenza di Milano e Lorenza
questo articolo è di 3 anni fa, eppure ancora molto attuale (ovvero poco o niente è cambiato).
condivido l’idea di base ma non ho capito il passaggio: “Che, se la conciliazione fosse una questione di famiglia, magari verrebbe riconosciuto anche il diritto a non lavorare per dedicarsi alla cura del proprio figlio, con una tassazione che sia equa – ma provate a dire questo in giro in Europa e vi accuseranno di voler rispedire le donne dentro le mura domestiche dalle quali infine sono state liberate, e ritorniamo daccapo.” allora, se vogliamo parlare di Europa probabilmente è così, ma questa frase non ha nessun senso, anzi è sbagliata per quanto riguarda l’Italia. si perchè chi ha un coniuge che non lavora ha diritto alle detrazioni per il coniuge a carico. nella famiglie in cui si lavora in due però, le detrazioni sulle spese necessarie a mandare avanti la famiglia sono ridicole. siamo costretti a pagare asili nido a caro prezzo, quando vai dal commercialista e gli porti tutte le ricevute si mette a ridere perchè potrai detrarne una percentuale trascurabile. puoi scaricare solo i contributi, non lo stipendio, pagati ad un’eventuale colf/tata e anche quelli non completamente. eppure una baby sitter è strettamente necessaria quando lavori a tempo pieno, visti gli orari e i calendari scolastici ottocenteschi di questo paese. vogliamo parlare dei centri estivi che bisogna pagare perchè le scuole sono chiuse 3 mesi e 1 settimana in estate? neanche quelli si possono scaricare, che io sappia. e allora di cosa parliamo? di famiglie monoreddito ne conosco tante (basta frequentare una qualunque scuola pubblica per notare come siano almeno una buona metà delle famiglie con bambini, e le statistiche lo confermano). e a parte pochissimi casi di “scelta” (che io chiamerei pigrizia, ma se puoi permettertelo è assolutamente legittimo), tutti gli altri lo hanno fatto per un preciso calcolo: quello stipendio in più lo spenderei tutto o quasi per poter lavorare e allora conviene di più stare a casa. poi possiamo parlare per ore di realizzazione professionale, ma le donne non sono tutte laureate e ambiziose, e spesso scelgono la strada (apparentemente) più comoda ed economica. penso che le istituzioni dovrebbero dare per scontato che si lavori tutti e metterci in condizioni di farlo, perchè lavorare non è solo un diritto ma anche un dovere e soprattutto una necessità. se poi qualcuno può permettersi di stare a casa perchè uno stipendio basta buon per loro, non ho nulla in contrario e non me ne può fregare di meno. ma che non pretendano di avere agevolazioni fiscali perchè c’è chi si fa il mazzo tutto il giorno, per guadagnare uno stipendio che spesso non è nemmeno adeguato al titolo di studio che ha, paga le tasse abbondantemente e affronta mille difficoltà e dalle istituzioni e dalla società riceve solo calci nel sedere.
Cara Cosmic,
provo a mettere in fila il tuo ragionamento… Se ho capito bene, affermi che in Italia le famiglie nelle quali uno dei due coniugi (più spesso la donna/mamma) decide di non lavorare sono avvantaggiate fiscalmente rispetto a quelle nelle quali la donna decide di lavorare, e che questa cosa sia profondamente ingiusta rispetto alle detrazioni (del tutto ridicole) per chi, lavorando, deve pagare asilo – nido e baby-sitter. Qui sicuramente sta il punto di corto-circuito, secondo me, ma a livello politico e sociale, più che familiare: la mancanza di una tassazione equa in cui sono riconosciuti i costi di cura – cosa che accade in molti paesi, ma non nel nostro. Il risultato? Tante donne che non lavorano e pochissimi bambini (ho fatto un rapido conto con un sistema che ho trovato online del quale non so giudicare l’affidabilità, nel 2015 la detrazione Irpef per un reddito di 30.000 € per il coniuge a carico era di 700 € circa). Hai ragione ad essere arrabbiata, e molte donne che lavorano (per scelta, per necessità, per piacere, per non diventare killer seriali) lo sono, giustamente. Anzi, meglio: tante famiglie sono affaticate ed esasperate da un sistema che non solo non riconosce, ma rende la conciliazione famiglia – lavoro (che a scriverlo ora, mi sembra un termine vetusto) difficile, basti pensare alla scuola, come scrivi anche tu. In questo post il mio obiettivo era puntare l’attenzione sul fatto che spesso le scelte di conciliazione non sono esplicitate all’interno della coppia, e questo porta a una serie di scelte (o non scelte) piuttosto inconsapevoli… E finisce che ci sentiamo schiave e schiacciate da un sistema che neanche noi sappiamo bene cosa sia. In questi tre anni sono cambiate tante cose, in realtà, e sicuramente sono cresciute le difficoltà, soprattutto per le giovani donne. La mia domanda è come possiamo indirizzare in maniera creativa queste nostre arrabbiature, per smetterla di sentirci quelle che prendono solo calci nel sedere