Una madre qualunque

A dire la verità, il mio essere madre di tre figlie non è un’esperienza del tutto originale. Non è un “ripensare la maternità”; è anche un ritrovarmi in mia madre, un riconoscermi in attitudini che possono essere definite “materne”, più che lo scrollarmi di dosso uno stereotipo.

Certo, non sono la mamma delle pubblicità. Ma del resto non assomiglio neanche a una persona delle pubblicità. Non sono diventata incoerente con me stessa per poter sbandierare una famiglia normale; dopo il parto non mi sono chiesta cosa dovevo dimostrare al resto del mondo. Semmai ho chiesto alla bambina sola che ero come potevo farla stare meglio.

Foto privata

All’inizio sembrava fossi diversa: avevo 23 anni e tre figlie piccole, tutti mi dicevano la loro e io mi opponevo. Mi opponevo al “battezzarle non farà certo male, anche se non sei credente”. Mi opponevo al “senza la tv le farai crescere come delle emarginate”. Mi opponevo ai consigli spiccioli dispensati dai passanti: “signorina, sua figlia mangia la sabbia, le verrà certamente il tifo”. Ora non più: ho 35 anni, tre ragazze fantastiche ed è più frequente che mi dicano (davvero!) “se un giorno avrò figli, vorrei che fossero così”.
Non ho quasi imposto regole, le ho lasciate essere se stesse, sono sempre stata me stessa.

Ma ora che stanno diventando adolescenti mi scopro anche dire e fare cose “da mamma”. Come quando richiedo il rispetto degli orari, anche se gli orari mi fanno venire la claustrofobia (ma sono un compromesso accettabile per stare bene con gli altri). Come quando dico“impegnati di più nello strumento, devi capire che opportunità hai tra le mani, io non ce l’ho mai avuta, ti prego, suona”. Potrà capire, una dodicenne, che cosa significa crescere senza opportunità? Mi ritrovo a dire “non è vero che non piaci a nessuno, a me per esempio piaci tantissimo”. Sì, ma sei mia mamma, pensa la tredicenne timida. O “ma che t’importa di quello che pensano gli altri?”. Certo, io mica vado a scuola, mica passo la giornata a dover dimostrare che ho studiato o a cercare di farmi accettare da almeno venticinque persone. Che ne so io, di cosa significa avere tredici anni!

Come mia madre, non vado alle riunioni scolastiche, non faccio le torte per la raccolta fondi, non organizzo feste indimenticabili per i compleanni. Se mi chiedete quale delle tre è in 2^H ci devo pensare un po’ e non distinguo neanche le rispettive mutande.

Come ogni mamma, mi scopro “non poter capire” cose che in realtà ho vissuto solo pochi anni fa (venti, a dire il vero). E mi scopro “non accettare” i comportamenti che mi ricordano tanto il mio lato peggiore: la polemica gratuita, la dignità estrema quando non serve, le manie di persecuzione e il rifiuto di comunicare.

Che cosa ho ripensato, io, della maternità?
A dire il vero, niente.
I membri di una famiglia spesso non coincidono con gli invitati al pranzo di Natale. La famiglia è chi si occupa di te quando ne hai bisogno. Quando sei piccolo, quando sei vecchio, quando ti scade il contratto di lavoro e ti serve un divano dove dormire, quando sei giù e vorresti un abbraccio, anche se dici “vai via, voglio stare sola”.
La mamma è quella persona che quando ti guardi indietro ti accorgi che c’era. A prescindere da come si vestiva, quanto a lungo ti ha allattato, con chi andava a letto, che lavoro faceva o non faceva, quante scelte sbagliate ha fatto, se ti ha vaccinato o meno, a quanti gruppi Facebook di mamme era iscritta, quante volte cambiava le lenzuola.

Ho fatto esattamente quello che ci si aspettava da me.
Non ho portato avanti bandiere, me ne sono stata nella mia bolla autarchica a fare il meglio che potevo. Senza lasciare entrare più di tanto le aspettative confuse del resto dell’umanità.

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