I compiti li faccio io. Non quelli dei miei figli, ma i miei.
Mi sono rimessa a studiare a 40 anni, con una vita professionale da rimettere in careggiata, plasmare a mia immagine e sopravvivenza, due figli, un marito, una casa, un contesto pieno di limiti.
Faccio i miei compiti e li guardo fare i loro.
Loro hanno il diario settimanale o il registro elettronico con la pianificazione proposta dalla maestra. È quasi un gioco pensare assieme alla prossima settimana e aiutarli a dire “italiano per giovedì lo facciamo già oggi, così mercoledì dopo calcio posso giocare, che sarò stanco”, “colorare lo faccio dopo essere stata a musica, tanto mi rilassa e adesso gioco”.
Io ho la mia lista di capitoli, libri, argomenti da imparare, da me prodotta e autoimposta, da depennare facendo slalom nel quotidiano e negli appuntamenti. Un oceano di cose da sapere in cui talvolta mi sento affondare, sorretta solo da una zattera fatta di penne biro e di post-it.
Perché lo faccio? Mi chiedo ogni tanto, presa dalla stanchezza, dai dubbi, dalla fatica. Perché lo faccio: entusiasta di quello che posso comprendere, degli orizzonti che si ampliano, delle visioni, ogni libro come una vetta che ti porta a osservare il paesaggio dall’alto, da un angolo diverso.
Lo faccio per me: educarsi è crescere, personalmente e professionalmente.
Lo faccio per loro: diciamo sempre che i figli imparano da ciò che facciamo non da ciò che diciamo.
All’inizio di tutto questo percorso ho ascoltato più volte il discorso di Julio Velasco a Berlino, che ci ammonisce a riconoscere quanto siamo immersi in una cultura dell’alibi, in cui ogni scusa è buona per dire “non ce la faccio”, in cui sappiamo benissimo come dovrebbe essere il lavoro che l’altro dovrebbe fare per mettermi in condizione di fare al meglio il mio.
Velasco, ex allenatore della nazionale di pallavolo, parte da un principio che chiama della realtà: “le cose sono come sono, non come vorremmo che fossero”.
Vale per me, per il punto in cui mi trovo, vale per i miei figli, a confronto con una lista di compiti oggi troppo lunga, oggi troppo corta, da incastrare con i voglio fare sport, voglio fare musica, voglio esserci, voglio andare.
Il punto allora è: che ne faccio, di questo principio di realtà? Come “vincere”, realizzare i miei desideri e obiettivi, anche se le cose non sono perfette come le vorrei io?
Sviluppando capacità di adattamento e osservando il limite, l’errore, con un occhio critico: c’è, questo limite e poi ci sono io. Chi vince, tra i due? Come si vince?
Scegliendo le cose determinanti a farci vincere, adattandosi, cogliendo le difficoltà, gli errori, i fallimenti come segnali: di qui non si va, riproviamo dall’altro lato. In pace e senza giudizi.
Per questo, ho ripreso a studiare, a fare i compiti. Sono piena di limiti, di difetti, mentre studio, mentre tento di tenere in piedi i diversi aspetti della mia vita e del mio progetto, ma voglio che i miei figli vedano, agito in casa, il principio di questa domanda: preso atto che ho un sacco di limiti, ma anche un sacco di aspirazioni, di desideri, e che ho capito che per realizzarli devo superare queste mie mancanze, chi faccio vincere? Me stessa o i miei limiti, perché mi nascondo dietro un sacco di alibi?
– guestpost da contributor anonimo –