Se vi piace mangiare, e vi sfiziate a cucinare, allora gli UK sono il vostro paradiso.
Fermi tutti, basta con i fischi, piano con i sassi, non mi sono fumata niente di psicotropo, né, come sostengono alcuni, ho definitivamente disconosciuto il mio amatissimo paese, insieme all’amatriciana e le orecchiette con le cime di rapa (per non parlare delle recenti scoperte, tipo le Tegole valdostane, grazie a Silvietta che ha colmato questa profonda lacuna in tutti noi qui a GC). Nossignore, lo dico e lo ribadisco: non mi sono mai divertita tanto a cucinare, e assaggiare, da quando sono qui.
Se avete la pazienza di seguirmi, vi pregherei di considerare vari fattori.
Innanzitutto, il melting pot, il crogiolo di culture ed etnie, che ha immensamente arricchito la gastronomia nazionale, e di conseguenza colorato e rallegrato i negozi di alimentari. Al che la domanda “che cuciniamo stasera” si declina a vari livelli di astrazione, partendo da “in che lingua cuciniamo stasera”, a che latitudine ci spostiamo, e poi, una volta stabilito quello, possiamo parlare di che cosa nella fattispecie, senza perplessità, perché scendere al super dell’angolo basta e avanza per trovare curcuma, cardamomo, tapioca, soia, aceto balsamico di Modena, o spaghetti di riso. Oppure, per i pigri, il ristorante, che lungi dall’essere la nota di colore, offre garanzie di qualità, in quanto i clienti innanzitutto, prima che i gestori, sono “autentici” e possono fare la differenza. La cucina inglese, anche, quella che non si sa se esiste o non esiste, con tutte le variazioni e le contaminazioni, quanto è interessante, con le sue combinazioni ardite, i suoi sapori mai scontati. Il tutto crea una varietà tale che non ci si annoia mai, tanto che, per dire, i boys, quando siamo in vacanza in Italia, pur essendo formidabili forchette, assaggiano di tutto, gustano col professionismo dei revisori della guida Michelin, al quindicesimo giorno di ottima cucina italiana (pugliese, non so se rendo l’idea), immancabilmente cominciano ad aver meno interesse, e prima o poi uno dei due chiede “mamma quando facciamo un curry?”.
Un altro fattore è l’accessibilità di materiale di buona qualità. Certo, si vende di tutto, ma il biologico dilaga, per dire, così come il mercato equo, procurarsi cibo che appaga i sensi e l’etica diventa veramente facile, tanto da diventare un peccato non approfittarne. La materia prima locale è anche notevole: il mio amico P. gestore di un pluripremiato ristorante italiano mi mostra con orgoglio le capesante delle Orcadi, scelte di sua propria mano, bellissime e succulente, soddisfatto di come saranno speciali cu u salmurigghiu della ricetta della sua mamma, originale garantita 100% made in Palemmo.
L’informazione è anche ottima e abbondante, le etichette mediamente accurate e informative, la sensibilità verso intolleranze o diete particolari altissima: entrare in un ristorante, non necessariamente di grido, anche medio, e dichiararsi, che so, celiaci, vede tipicamente l’entrata in campo del personale di cucina che sciorina ingrediente per ingrediente i piatti che consigliano e quelli che no. Per non parlare di scaffali e scaffali al supermercato, che si prendono cura di ogni tipo di dieta e inclinazione alimentare. L’educazione alla buona cucina è onnipresente, i programmi televisivi si moltiplicano e sono seguitissimi, e in genere non prevedono lo/la chef di turno che fa bella mostra delle sue doti, ma entrano nel merito, spiegano le combinazioni alimentari, rivelano trucchi, o, quelli che io preferisco, attingono alla storia di ogni piatto, per rivelarne lo spirito. L’ultima serie del sempre ottimo Jamie Oliver, per esempio, noi ce la siamo seguita con i boys come un documentario, non tanto per imparare ricette, ma proprio a scopo educativo: abbiamo percorso virtualmente la Gran Bretagna, scoperto come sono nati certi piatti tipici, appreso come le varie immigrazioni, o i contatti con le colonie, hanno trasformato e arricchito ogni ricetta, insomma una storia del Paese partendo dai suoi piatti, assolutamente da consigliare se la trovate in giro.
Insomma, qual è il problema allora? Il problema è che qui, se il cibo e le sue implicazioni culturali e sociali si conoscono benissimo, le questioni sollevate da Yeni Belqis nello stupendo post di ieri, per esempio, sono conoscenza comune, d’altro canto si cucina poco. In media la popolazione cucina con poca sicurezza, si sente in difficoltà a metter mano ai fornelli, e, a parte i fondamentali, non osa affrontare la preparazione un piatto partendo dagli ingredienti di base. La cosa ha implicazioni che forse possono sfuggire: non conoscere gli ingredienti di base, come arrivano nei mercati, come si manipolano, significa anche non saperli scegliere, e non saperli conservare e utilizzare al meglio, diventa un problema di igiene alimentare, non soltanto nutritivo.
Il fatto è che questo non è un problema di mancanza di risorse, quanto di mancanza di conoscenze: i genitori di ora sono lontani una o due generazioni dal tempo in cui si apprendevano le tecniche culinarie e le nozioni di base di conservazione e scelta dei cibi “per infusione”, semplicemente gironzolando in cucina da piccoli mentre gli adulti cucinavano.
È anche, o forse soprattutto, come molte cose in UK, un problema di classi sociali. Cucinare bene diventa qualcosa di elitario, qualcosa che si fa per diletto, per hobby, roba posh, roba da ricchi. Ed è questo argomento, quello della ineguaglianza sociale, più che quello immediato della salute in declino della popolazione, stranamente forse per come lo vedremmo noi, che è stato il fulcro dell’emozionante intervento in parlamento proprio di Jamie Oliver qualche anno fa, davanti appunto alla commissione di lavoro sulle ineguaglianze sociali: le classi meno fortunate hanno accesso forse a risorse, fra sussidi e altro, come non succedeva una volta, ma non hanno accesso alla conoscenza, alla possibilità di usare queste risorse per nutrire la propria famiglia in modo salutare e completo, invece di devolverle in cibo spazzatura di facile accesso. La crisi alimentare è tale, e l’ingiustizia sociale che ne deriva di tale portata, diceva il buon Jamie, che lo Stato deve prendersene carico: così come, durante le due guerre mondiali, fu instaurato il Ministero per il Cibo, per aiutare a razionare gli alimenti, allo stesso modo oggi c’è la necessità di crearlo di nuovo, il Ministry of Food, per diffondere conoscenza e accesso a principi nutritivi di base, per creare iniziative nelle scuole, per raggiungere capillarmente tutti, specie i bambini, che possono essere la chiave di svolta, i bambini di oggi possono prendere in mano la situazione e insegnare ai genitori quello che hanno disimparato nelle generazioni.
L’impatto di Jamie Oliver fu notevole: le iniziative ci sono state davvero, a molti livelli, dalla proposta di reintroduzione della “food technology” come materia obbligatoria nella scuola superiore (alla primaria lo è dal 1988), con reclutamento e training di insegnanti esperti in nutrizione e igiene, a tutti i livelli, ai fondi stanziati per extra classi di cucina per la primaria da fare dopo scuola (il mio boy one ha frequentato quella di primo stadio l’anno scorso in terza), a iniziative a livello di comuni e regioni (qui quella della mia Liverpool ad esempio) a nuove leggi che regolamentano il pasto a mensa nelle scuole.
L’iniziativa, o le iniziative, sono state accolte con varia attitudine dalla popolazione. Dal punto di vista educativo, il consenso è stato unanime: il riconoscimento che recuperare, o acquisire da zero, questo skill fosse importante, almeno quanto l’uso di tecnologie o di mezzi di comunicazione, è molto diffuso. E non legato al genere: la materia “economia domestica” era stata soppressa anni fa, come anche da noi del resto, in nome di una sua non rilevanza alla vita moderna per via di una connotazione troppo legata al genere, fra le altre cose, ma in una realtà come quella corrente in UK questo pericolo viene meno. In un sondaggio svolto tempo prima, all’interno di uno studio sulla popolazione e le attitudini al cucinare, ad esempio, il 98.5% delle donne e il 95.3% degli uomini intervistati riteneva molto importante insegnare ai ragazzi a cucinare (99.2% e 97.6% riteneva importante insegnarlo alle ragazze), e anche se ci vogliamo vedere per forza una questione di genere, le differenze sono troppo piccole per ritenerla significativa.
Dal punto di vista pratico, però, il discorso si è declinato differentemente, e ci vedo anche qui, in modo interessante, un parallelo con quello che dicevamo il mese scorso sui vaccini obbligatori. Da un lato, lo Stato si rende conto che qualcosa serve alla popolazione, e si sente autorizzato ad intervenire, anche con misure coercitive. A mensa non sono più ammessi cibi considerati non consoni. Il menu deve prevedere una certa combinazione di nutrienti. Ai bimbi non è più consentito (questa una raccomandazione, che molte scuole hanno fatto propria) portare per merenda da casa non solo l’ovvia barra di cioccolata o sacchetto di patatine, ma anche merendine o barrette ai cereali, o persino torte fatte in casa, soltanto un pezzo di frutta. Chi porta il pranzo da casa vede il contenuto del cestino monitorato regolarmente. Dall’altro lato, tuttavia, l’imposizione dall’alto, in questo caso di restrizioni alimentari, non è vista di buon occhio da tutti, il libero arbitrio dovrebbe essere salvaguardato anche in questo caso, secondo alcuni, proprio come abbiamo notato per i vaccini. Io so quello che fa bene a mio figlio, io e solo io decido su questo aspetto. La retorica del “mio figlio non mi mangia” si applica in pieno: genitori preoccupati che i figli non tocchino cibo in mensa passano surrettiziamente hamburger e barrette di cioccolato a ricreazione attraverso i cancelli della scuola. Proteste sulla falsa riga di “Jamie torna alla tua vita agiata e ai profitti del tuo ristorante e lascia stare i nostri bambini” non sono isolate. Anche opinionisti noti e apprezzati sono dubbiosi. E prima di bollare queste manifestazioni come segno di scarsa sensibilità, vi prego di considerare cosa accadrebbe se la mensa scolastica del vostro pargolo, che si nutre solo di pasta al filetto di pomodoro e caragrazia se la mangia, decidesse di bandire la pasta asciutta, con voi consapevoli che non alzerà forchetta, e che tremate al pensiero di come tornerà a casa affamato, afflitto e stanco.
Come concludere questo contributo, se non con la solita, mia considerazione favorita, cioè che la realtà è più complessa di come la si dipinge, e val sempre la pena dimenticarsi delle “storie” di facile consumo e pensare fuori dagli schemi? In questo caso ad esempio: molto facile sarebbe cadere nell’illusorio rimpianto dei bei tempi andati, di quando i bambini dietro il grembiule della mamma la guardavano preparare manicaretti, mentre la società moderna sempre di corsa, sempre fuori casa, la mancanza di valori tradizionali, i maledetti cibi confezionati, le catene di fast food dilaganti, signora mia che tempi. Innanzitutto, per gli UK, questo non si applica del tutto, la preoccupazione che la capacità di cucinare fosse carente fra le classi rurali che cominciavano a spostarsi nei centri urbani risale al 1780, secondo scritti dell’epoca. In secondo luogo, la retorica, la “storia” dei bei tempi andati è una retorica infida, perché rimette di nuovo tutto in mano ad un passaggio di conoscenza unidirezionale, e limitato all’interno di una logica familiare, tipicamente a stretto appannaggio delle donne di casa. Avere il coraggio di abbandonare questa visione nostalgica, di mulini bianchi e mamme sapienti dee domestiche, tuttavia, potrebbe significare aprirsi a nuove opportunità ancora più efficaci e di spessore sociale, con l’interesse per la cucina e il mangiare sano, proprio come tutte le altre conoscenze nei vari settori (perché dovrebbe essere diverso?) che scaturisce dalla scuola, ma anche da una famiglia dinamica e versatile, dai contatti con altre culture, dai viaggi, da amicizie, e anche, perché no, da informazione trasmessa dai media. Non è così alieno tutto ciò, non solo, permette di allargare la propria base di conoscenze molto al di là della “cucina della mamma”, per quanto buona essa possa essere, e senza compromettere altre conquiste sociali: mi pare una situazione win-win.
Un’altra facile trappola è guardare con compiacenza alla situazione UK, contenti magari che in Italia no, non è così per noi, e ritenere pittoresco, ad essere benevoli, un popolo che non sembra interessarsi alla buona cucina, un valore così radicato per la cultura italiana, che loro ritengono superfluo o comunque non parte integrante del tessuto della società. Non dimentichiamo però che tutto è relativo, come si dice, e che a casa nostra ci sono altri valori che noi riteniamo altrettanto non degni di farci perdere il sonno, e magari questo rende noi altrettanto pittoreschi agli occhi altrui.
E come post scriptum, una provocazione: vi siete mai chiesti come si vive in un Paese in cui, nella popolazione tra i 45 e i 64 anni, soltanto un terzo degli uomini e metà delle donne sono normopeso, e dove il 36% dei bambini dai 7 agli 11 anni è obeso, tanto da meritarsi il triste primato di essere il Paese al primo posto in Europa per l’obesità infantile? No? Beh, guardatevi intorno allora: questa è l’Italia.
Interessantissimo intervento, e concordo su molto di quello che scrivi. L’Inghilterra NON è un Paese dove si mangia male, affatto, e conoscere nuove cucine significa anche aprirsi a nuovi orizzonti (come se qui servisse.. eheh… a scuola di Viola ci sono 48 nazioni diverse).
La cosa che purtroppo non capisco è come, a fianco di campagne giustissime come quella del plurimiliardario Oliver che io amo ma che brandizza anche le piantine di basilico e il loro terriccio (no jokes!), a fianco alle Nigellas & co. che invadono le librerie, a Blumenthal in tv, ci sia anche una cultura diffusa del cibo elaborato per bambini.
I menu delle scuole, almeno di quelle che ho visitato io, pubbliche e non, è ricco di grassi cotti, fritti, creme, burro, salse. Qualcosa a cui non mi abituerò mai. E se va bene che il venerdì ci sia sempre ‘fish’n chips’, va meno bene se è accompagnato dal giovedì col mac’n cheese e il mercoledì col sausage and mash, il martedì con le enchiladas o chi per loro, e via dicendo. Così come di snack spesso danno la frutta, ma in contesti familiari spesso propinano il sacchetto di patatine o la barretta di cioccolato supercalorica. Uno stile che non amo, e che secondo me potrebbe essere migliorato, facendo sentire ai bambini il vero sapore dei cibi.
@gloria, dipende da scuola e scuola, ma a me e’ capitato (non in UK pero’, in australia) di aver mandato i boys in un asilo dove proibivano qualsiasi merenda a base di noci a tutti, anche quelli non allergici, a loro compravo le cose nut-free infatti per cio’ che portavano all’asilo. Non ne ho esplorato a fondo il motivo, probabilmente per non rischiare anche i (rari) casi dove l’allergia si manifesta anche nel respirare prodotti allergenici… oppure per evitare problemi qualosa i bimbi si scambiassero le merende, non saprei sinceramente.
Anche da noi a Stoccolma, nella scuola dei miei figli almeno, sono totalmente vietati noci/nocciole, e vestiti con i quali si va a cavallo(!!!!) causa allergie per tutti i bambini, anche quelli che non sono allergici.
@Raperonzolo, ma che vuol dire “regole e proibizioni riguardano solo cibi altamente allergici come le noci”? I bambini non possono portare a scuola cibi allergizzanti a cui non sono allergici?
Peró io ti garantisco che questo punto di vista del cibo come carburante l’ho visto tanto anche in Italia.
Mia madre é cosí, per lei mangiare é una perdita di tempo, qualcosa da fare al volo, magari senza sedersi a tavola, che stare seduti a tavola é una perdita di tempo, una rottura di scatole, una noia infinita…
Cosa che creava qualche conflitto con mio padre, che faceva il cuoco e amava cucinare e sperimentare anche a casa.
No, l’ Italia sta sopra alla Francia per la quantità di tipi di caglio usati, mi pare 11 rispetto a cinque.
Ma anche se vado al mercato semicoperto in centro (abbiamo uno dei mercati piú belli dell’Inghilterra noi a Norwich, cosa credete, é lí fin dal tempo dei normanni…), al banco di formaggi dove soddisfo le crisi di astinenza da Gruyère d’alpage e altre meraviglie casearie , hanno 15 varietá di Cheddar diverse, e poi hanno altri formaggi inglesi assortiti.
Che di solito sono vecchiotti e un po’ rinco perché non li compra quasi nessuno, mentre le specialitá straniere vanno, comprate dagli stranieri nostalgici e da quelli che vogliono un po’ di vacanze all’estero nel piatto.
L’ultimo pezzo di “stinking bishop” che abbiamo preso, formaggio puzzoso che peró in genere non é piú virulento di un taleggio medio, era cosí maturo che avrebbe fatto impallidire pure un francese (era in offerta).
Non era semovente, ma dopo un giorno in frigo ha cominciato a acquisire sfumature fluorescenti inquietanti , lo abbiamo mangiato prima che mangiasse noi. Forse era anche lui lí dal tempo dei normanni 😉
PS: I formaggi italiani standard si trovano dappertutto o quasi, nessun problema.
@rape’, vero, infatti i cestini da casa sono monitorati piu’ che policed 🙂 a scuola dei miei ogni tanto fanno un censimento di cosa c’e’ nei cestini, e nel caso (senza fare nomi of course!) arriva una circolare a casa con i ritultati, pregando i genitori di considerare pranzi alternativi. Comunque in varie scuole, almeno nella mia zona, i cestini da casa non sono consentiti, ci si deve per forza servire della mensa
@stefrafra, prima ero un po’ di fretta, ma ci tenevo a commentare sulla seconda parte delle tue osservazioni, e cioe’ la giusta tristezza nel constatare come il cibo venga visto come “carburante” e basta. Ecco, questa era un po’ la questione cui mi riferivo verso la fine: io, da italiana, trovo molto (molto!) difficile accettare questo punto di vista, e ci tengo a trasmettere ai miei boys l’amore per la buona tavola e per le cose fatte con cura (e per fortuna il loro appetito aiuta nell’impresa), ma allo stesso tempo mi rendo conto che ci sono altre questioni per cui la coscienza collettiva nostrana back in Italy applica lo stessissimo punto di vista, e ci si comporta allo stesso modo (non mi importa che… basta che…), e tutto sommato non mi sento di dire che quelle siano questioni meno importanti (specie socialmente e politicamente) di queste o viceversa.
Grandissimo articolo. Mi trovo pienamente d’accordo. L’unica cosa che vorrei puntualizzare è che per quanto riguarda i bambini che portano il pranzo da casa, il monitoraggio è difficile e molti bambini continuano a portare patatine e merendine. E’ un problema prevalentemente logistico. Quando arrivano a mensa 250 bambini, 100 dei quali con il pranzo da casa, non si può guardare dentro alla borsa di ciascuno e le regole e proibizioni riguardano solo cibi altamente allergici come le noci. Comunque dal programma di Jamie Oliver in poi la rivoluzione c’è stata eccome. Solo pochi genitori perseverano con il junk food.
@Stefrafra 😀 ahhh l’ubiquo cheddar! Ma anche qui, e’ un po’ come la storia dell’inglese come lingua, e’ la piu’ ricca, ma se ne usano pochi vocaboli in media. In GB ci sono 700 varieta’ di formaggio registrate, contro ad esempio le 400 della piu’ ovvia Francia (l’Italia credo sia a livello della Francia), ma non e’ detto che tutti si trovino da Tesco ovviamente.
Una cosa che forse nell’articolo manca un po’ é l’effetto deleterio che i razionamenti del tempo di guerra hanno avuto sui Britannici…
Mi spiego, la produzione del cibo venne centralizzata, tutto doveva doveva essere “efficiente”, massima resa, minimi sprechi. Controllato, standardizzato e razionato proprio dal “Ministry of food”.
Non si sono piú ripresi.
La cosa ha segnato per sempre multiple generazioni, per esempio, il formaggio appare nella forma di un blocco uniforme, vagamente mattoniforme, rigorosamente senza crosta, di Cheddar. Ci sono altri formaggi, ma il Cheddar, se andate in un supermercato qualsiasi, occupa 2/3 del settore formaggi.
Adesso esistono decine di variazioni con descrizioni fantasiose del contenuto, ma a parte rare eccezioni quando lo apri il gusto é sempre quello, di Cheddar, acidulo, piú o meno salato, non é cattivo, ma é sempre lo stesso.
Idem per il prosciutto, 250 variazioni di prosciutto cotto, ma alla fine della fiera resta lo stesso prosciutto, magari tagliato piú fine, o piú grosso, o con la crosta di briciole di pane, ma il gusto é sempre quello.
Il pane, stessa storia, abbiamo cominciato a farcelo in casa almeno una volta alla settimana, misto grano/segale, visto che la mitteleuropa in casa nostra regna abbastanza sovrana, (diciamo che in Svizzera eravamo contenti tutti e due).
Certo si trova pane decente ma devi andare nella la panetteria/boutique, o nei negozi “bio”, dove a volte trovi cose inaspettate tipo l’appelstroop (venduto come “succo concentrato di frutta”) olandese o belga, oppure gli speculaas. La mia dolce metá olandese apprezza, e pure io, che la mia nostalgia passa per lo stomaco.
Quindi é vero che se uno ha voglia di spendere un paio di £ in piú, o di avventurarsi nei numeroso negozi “etnici”, si trova praticamente tutto (carne di cavallo esclusa…) , ma é roba di nicchia: o da immigrati, o da ricchi e “posh”.
Che per alcune fasce di popolazione é un peccato mortale.
Ho sentito tanta gente dire che “il cibo é carburante”, la qualitá non importa, basta che dia energia.
Un po’ triste coem concetto.
PS: io abito a Norwich, se interessa, zona rurale in cui si trovano tante buone cose, dagli asparagi ai granchi….
PS2: io trovo che nei ristoranti quasi tutto sia abbastanza salato anche in Inghilterra, ma sono di solito poco salata di mio, al contrario di mia madre che cucinava con la saliera in mano. Aggiungere sale si puó fare facilmente, toglierlo é impossibile.
Casereccita’ (mi fa ridere, mia madre era come la tua, una noooia!) la intendo piu’ come capacita’ di sapersi arrangiare con quello che c’e’, saper maneggiare ingredienti e attrazzature senza timori, insomma quello che dici tu nel post che sta facendo Jamie Olivier (ma tu vedi che io ste cose le devo scoprire su gc?? :)), (ri)appropriarsi di un’abilita’andata un po’ perduta.
Infatti, vai a fare la spesa e trovi di tutto e di piu’, su 5 scaffali 1 e’ di patatine, uno di scatolette e 3 di cibo polacco/indiani/italiani, perche’ l’identita’ culinaria del paese non e’ che non ci sia, ma appunto e’ diventata necessariamente fusion assorbendo profondamente dalla altre culture per portare quello che – secondo me per ragioni principalmente climatiche – non c’era o era molto limitato, vedi ad esempio un largo uso di verdure che non siano tuberi o di condimenti che non siano di origine animale o metodi di cottura che non siano ipercalorici… E allora forse e’ cosi’ che le capacita’, insieme alla tradizione, sono andate perse, e’ successo dando spazio a culture diverse e assottigliendo la corda che teneva legati alla propria. Forse mi sbaglio, del resto non e’ che ne sappia niente, ma ho questa impressione.
E allora ecco che bisogna ricominciare tutto da capo, con la scuola, il governo ecc.
Stavolta spero di non aver lasciato parole per la strada 🙂
(Scusa Super, probabilmente sto ancora insistendo sulla prima parte del post, ma e’ quella che mi ha colpita di piu’, dopo mi sono un po’ persa).
grazie ai primi commentatori 🙂
@mammamsterdam 😛
@Barbara, vero, anche qui e’ lo stesso, si finisce tipo la lezione di nuoto e si tira fuori la barra di cioccolata, povero figlio. E’ vero anche il discorso che fai sul paese che costringe a riflettere, in realta’ in generale vivere all’estero per un po’, dovunque, e’ una grandissima palestra di riflessione, perche’ ti costringe a guardare le cose con una lente diversa, e le sorprese sono infinite.
@Gloria, se per profondo Nord intendi la Scozia, ti devo dar ragione, ho lavorato per 3 anni ad Edinburgo in un paio di progetti di ricerca legati alla nutrizione e l’impatto sulle malattie cardiovascolari (che come saprai li’ sono a livelli da paura), qui nella zona invece devo dire che mi trovo molto bene, i mercati ma anche le fattorie che vendono biologico e consegnano a casa sono proprio tante. Ma a prescindere dal biologico, come dicevo, io ho sempre trovato facile procurarmi materiale in generale, se decido di fare una torta particolare, in italia devo cominciare dalle pagine gialle per capire dove trovare ingredienti speciali, qui basta che scendo in paese.
Comunque, la parte iniziale del post era propedeutica alla seconda, più che avere un valore in se, non mi sento di entrare nel merito della cucina, sia perché non ne ho le conoscenze profonde, sia perché il gusto personale qui la fa da padroni. Ma mi sento di aggiungere due parole sul tuo commento a proposito delle cose “caserecce”. Mi ha fatto sorridere perché ci sono mediamente due concezioni quasi diametralmente opposte di questo concetto. Una e’ quella di mia madre, faccio cose semplici, che mi richiedono al massimo 20 minuti di preparazione e 5 ingredienti, se ci devo mettere di più, no, la ricetta non la guardo nemmeno. Il che ha significato che io ho mangiato nel mio tempo in famiglia sempre più’ o meno le stesse cose, con variazioni che riguardavano la sostituzione di verdura x con verdura y, o pesce w con pesce z, ma siamo li. L’accezione di casereccio di mia suocera e’ che faccio tutto io con i crismi del caso. E’ un po’ la filosofia della sacra setta della pasta madre (hey, lo sapete che vi voglio bene, voi li, e lo dico per sfottere, eh?), certo con l’abitudine tutto viene più’ facile, ma si perde un po’ la concezione di quanto chi non ha mai cucinato prima possa trovare tutto esoterico. Per farti un esempio pratico, lo spirito con cui sono state organizzate le classi doposcuola per le primarie, di cui parlavo sopra, era proprio dimostrare che non ci vuole Nigella o Jamie per cucinare un piatto equilibrato. Se un bimbo di terza, certo con l’aiuto dell’insegnante per cose potenzialmente pericolose come scolare la pasta, ce la fa, anche un adulto ce la può’ fare. Al corso, venivano menzionati principi di base di nutrizione, e venivano preparati, dai bambini, piatti che rispecchiavano questi principi. Il piatto veniva poi fatto portare a casa per farlo assaggiare ai genitori, insieme alla ricetta. Ora, in una di queste occasioni, hanno fatto un piatto di pasta al forno, nutrizionalmente ineccepibile come piatto unico, tutto sommato gustoso e children-friendly, e soprattutto facilissimo da fare. A casa, raccontato questo, hanno cominciato a dire eh si, ma ci voleva il soffritto, piuttosto che la besciamella, o che razza di idea metterci dentro il mais, e robe del genere. Questi commenti erano tutti dettati dalla visione “casereccia” di come fare la pasta al forno, ma perdevano completamente di vista l’obiettivo della cosa. Poi, entrambe le accezioni di “casereccio” delle nonne di casa, non sono direttamente correlate al quanto il piatto e’ salutare. Mia madre usa molto la padella per esempio, perché’ ovviamente e’ sbrigativa, con tutti i problemi del caso. Mia suocera ha la mano larga in cose tipo la pioggia finale di parmigiano, che sconvolge tutti i bilanci calorici. Senza contare il sale, che noi mettiamo poco (ma anche nei ristoranti, un’altra delle imposizioni, hai notato come salano pochissimo, e poi ti mettono la saliera per poi far decidere a te se vuoi condire meglio? In Italia io trovo tutto salatissimo).
La Gran Bretagna continua a essere un paese che fa tendenza. O fa esempio, o ci costringe a riflettere.
Per quanto riguarda le mense scolastiche, a scuola di TopaGigia la merenda la passa la mensa. Si richiede gentilmente ai genitori di non fornire cibo da casa. Poi all’uscita è un’esplosione di merendine, ma allora un esamino di coscienza ce lo vogliamo fare o no?
Oh mamma, quanta carne al fuoco (!)…
Diciamo che ho qualche dubbio sulla facilita’ di reperire cibo di qualita’, almeno quassu’ nel profondo nord non e’ che lo trovi sotto casa, ti devi sbattere parecchio e comprendo che non tutti hanno la voglia, la possibilita’ e il tempo di farlo. Per dirne una, noi ci abbiamo messo 3 anni suonati per scovare – per caso – un mercato della frutta e della verdura come si deve. E quando si va e’ una festa.
Per giunta il concetto di “healthy” qua assume sfumature un po’ diverse da quello che io ritengo davvero salutare, insomma di questa voglia di riscoprire il cibo (da cui il proliferare di trasmissioni tv sull’argomento, un po’ come con i makeover delle case…) io lo vedo tradursi in una grossa speculazione e anche distorsione di quello che praparare e mangiare cibo secondo me dovrebbe essere, cioe’ semplice, minimal in un certo senso, “tera tera” e spurgato di tutto sti fru fru che ci girano attorno. Leggi: per fare un buon piatto non serve mica impilare gli ingredienti a torretta…
Semplita’ e casereccita’. Ecco, manca la casareccita’.
Ma soprattutto si’, senza un curry ogni tanto davvero non si puo’ stare 😀
Io ho una da portare avanti: smettetete di impacchettarmi le mele e le pere, vi prego. Non po vede.
ma magari ripasso, che l’argomento e’ potenzialmente infinito.
Una ola. Scientifica, così mi piaci, scientifica.