Questo post è scritto per noi da Zauberei, autrice di un blog che seguo sempre con molta passione erlebnisblog, perché è in grado di stupirmi sempre con discussioni che partono da punti di vista per me inaspettati.
Zauberei è laureata in psicologia e filosofia, sta studiando per diventare una psicoterapeuta, mentre si diletta a scrivere un libro su psicologia e femminismo, per cui capirete, non ho resistito alla tentazione di invitarla a scrivere per noi.
Si chiama Piero, come mio suocero.
Il papà di Piero veniva dopo il lavoro in fabbrica, a Caserta, tutti i tardo pomeriggi, a coccolarlo e giocare con lui. Lo prendeva in braccio, si scambiavano sorrisi, lo strapazzava di affetto. Gli accendeva la televisione e gli faceva vedere, senza soluzione di continuità, a giro continuo, Joe Squillo che cantava – Siamo donne oltre le gambe c’è di più.
Ti piacciono le ballerine eh?
Piero rideva – benché per apprezzare le ballerine, e in genere tutto quello che potesse essere rappresentato in televisione era troppo piccolo. A Piero piaceva la musica, l’oggetto magico e sospeso nell’aria che cambia aspetto. Piero voleva anche mettersi in asse con il piacere del padre. Essere felice per farlo felice, senza starci a pensare.
Ho provato ad avere un figlio, per dieci anni.
La mamma di Piero mi guarda con gli occhi blu di una donna che cerca gli occhi di un’altra, e che le perdonino l’accanimento la cocciutaggine con cui ha inseguito il suo bambino. Le racconta dieci anni di aborti spontanei, di cure contro la sterilità, di falsi medici che le chiedono migliaia di euro e le procurano un’infezione all’utero. Di mesi interi di depressione dentro a un letto, con la pancia infestata di male e il figlio che non arriva. Soldi soldi soldi che se ne vanno.
Poi cambia medico, quello nuovo capisce il problema e lei rimane incinta.
Me lo voglio godere!
Il bambino intanto gioca con un cane di peluche che canta Sex bomb, sex bomb, sex bomb….
Te lo dico a te, e resti tra noi – che Piero mica è nato maschio, ci aveva la x ci aveva.
Piero era cioè nato in una condizione geneticamente di un tipo fenotipicamente di un altro. Fenotipicamente era nato in una condizione di intersessualità – con un accenno di organi sessuali maschili che l’operazione aveva poi portato a completamento. Nella difficoltà dell’incertezza i familiari e i medici avevano deciso di avviare una strada – opposta a quella del genoma.
Ho nascosto come ho potuto, la mia sorpresa e la mia perplessità. Ho assecondato il desiderio di normalità che cercava quella madre – sapendo che un po’ la mia era vigliaccheria, un po’ era consapevolezza che ci sono diversi momenti per diversi pensieri, e quello, non era il momento per la riflessione sulle difficoltà future.
Quando siamo arrivati qui in ospedale, mio marito piangeva in bagno e io qui sul letto con lui.
Lui.
Il fatto è che, quella che per noi è una discriminazione netta è per la natura una scala di livelli piuttosto sfumata e sofisticata, con una serie di combinazioni interne che magari ai nostri occhi non sono significative, ma che rendono conto di una complessità esistenziale importante. Noi siamo abituati a concepire il genere come una interpretazione culturale e psicologica del sesso, per alcuni più aderente per altri più flessibile, e il sesso, come la differenza che l’anatomia del corpo ci si mostra come palese e indiscutibile. Invece ci sono una serie di sottolivelli, che non vanno sempre in parallelo: tra la x e la y e il fenotipo, ci sono gli organi sessuali interni, ci sono i mediatori neuronali, ci sono gli ormoni, e la natura può decidere come mostra la storia di Piero di mantenersi in una situazione intermedia, obbligando i protagonisti di queste vicende sempre a scelte difficili – che agiscano in un senso o che agiscano in quello opposto. Si rimane sempre sconcertati, dalle categorie mentali che fanno poi muovere la scelta agli uomini, quando la natura non si è mostrata decisa: nel caso di Piero, lo stato degli organi interni ed esterni deve aver fatto dire ai medici che operarlo per una definitiva mascolinizzazione sarebbe stato più facile meno invasivo e in genere più di successo, che operare in direzione opposta, come il genoma suggeriva. Ma non è escluso che, abbia influenzato la scelta anche il desiderio dei genitori. A noi questo fa effetto, un effetto potentissimo, perché siamo abituati a pensarci come scelti dal sesso, come capitati dal sesso, il sesso come una cosa che struttura la nostra identità prima dell’identità stessa – e pensare che questa scelta arrivi in seconda battuta fa un’impressione piuttosto inquietante.
Una famosa intellettuale italiana, ma che saggiamente se ne è scappata in Nord America, Teresa De Lauretis, ha introdotto il concetto dell’abbietto, identificandolo con colui il quale per la sua natura fuori dalle logiche binarie di genere è espulso dalla società, ma da quella posizione di estromesso, riesce ad illuminarla e far capire delle cose di se agli uomini e alle donne su se stessi, che non avrebbero capito senza la sua presenza. Per esempio l’importanza strutturante e performante che ha per loro il genere e come la lettura culturale del genere venga prima della realtà sessuale e la condizioni. La condizione di transessualità proprio per la sua capacità di stare in una zona di passaggio mostra le vie culturali in cui il genere si declina: è quello che in concreto succede intorno a Piero, il cui destino esistenziale informe è precocemente e angosciosamente deciso dai suoi genitori, tramite le formule che la lettura culturale del maschile impone, ed è quello che succede a noi grazie a lui quando pensando alla sua intermedierà, sentiamo la forza dell’artificio culturale e politico che gli impone – sii maschio, sii femmina.
Sex bomb sex bomb, canta il peluche di un bambino di dieci mesi. Peluche in forma di cane da pastore, peluche nato per inculcare precocemente il destino sessuale: cane maschio che apprezza senza indugio una femmina sotto il profilo sessuale.
Ma se il martellamento della precoce sessualizzazione, potrebbe portare il piccolo Piero in un imbuto problematico durante l’adolescenza – quante aspettative angoscianti dietro questa perentoria richiesta paterna, quanto dovrà industriarsi questo bambino per non deludere lo sguardo del padre, per tacere di quello di cui non possiamo dire – nel nostro caso l’eventuale esperienza intrapsichica qualora emergesse una esperienza di intersessualità – non illudiamoci credendo che si possa davvero ribellarsi completamente dalla lettura di genere e di sesso nell’accudimento di un bambino. Questa è una delle zone in cui la genitorialità consapevole si trova a dover misurare un delicato equilibrio tra rispetto dell’altro e protezione dell’altro, tra ruolo di guida e ruolo di attesa: spostarsi nel gesto antitetico, negando per esempio in assoluto la presenza della differenza sessuale, è un gesto altrettanto patologico e forse di più che forzare precocemente al destino sessuale.
Per una quantità di buone ragioni.
La prima di queste buone ragioni è nel sottostimare la fragilità del momento evolutivo di un bambino, mettendo addosso a lui un grado di strutturazione pari al nostro, dal quale dovrebbe tranquillamente e liberamente discutere le travi maestre della strutturazione identitaria. Nell’annullare completamente la differenza di genere nella pedagogia, c’è la superficialità di chi, il proprio genere l’ha vissuto, interpretato solidificato e rivisto fino all’atto della procreazione, o dell’accudimento, che ne ha conferito l’ultima stimmate identitaria, e al povero figlio si vorrebbe invece chiedere – di fare quello che facciamo noi, senza tutti gli scalini pregressi che ci hanno strutturato. Noi destrutturiamo parte di una struttura conquistata – sono uomo così, sono donna così, così vestito, così vestita, così pensante, così provante, così madre, così padre, il piccolo invece dovrebbe destrutturate una struttura che ancora non ha.
La seconda buona ragione riguarda i significati emotivi che accompagnano i nostri messaggi di cura, e di trasmissione di significato – anche riguardo il genere. La mia sensazione è che negare totalmente o in larga parte la differenza sessuale vuol dire rifiutarsi di riconoscere l’identità dell’altro, ha qualcosa a che fare con la mancata assunzione di responsabilità – della forte responsabilità genitoriale il cui primo dovere è dire al figlio: io ti vedo – tu sei. E’ come dire – non so se ti vedo, aspetto te che ti fai vedere. Non so se ti riconosco aspetto te che ti fai riconoscere. Credo che questa pretesa possa creare un sasso di dolore e di inadeguatezza dagli echi che inestinguibili per una vita intera.
La terza ragione riguarda la relazione del bambino con i suoi pari – con la cultura in cui è immerso, e che ha un potere emotivo incredibile sulla sua vita. Un bambino ha il diritto inalienabile di essere amato e accolto dalla sua cultura di appartenenza, di giocare con i suoi pari di essere riconosciuto nel momento di strutturazione del se parallelo a quello degli altri. Deve avere la moneta di scambio – che passa anche per i codici culturali di genere – per poter interagire con gli altri. Dunque è importante che egli ne sia dotato.
Ed è importante che egli ne sia dotato – con intelligenza.
L’intelligenza di saper dosare con gradualità la consapevolezza della possibilità interpretativa. E’ come se noi con i nostri figli dovessimo aiutare loro a concepire l’identità di genere come un arco gradualmente flessibile e da imparare a piegare con il tempo piano piano, assecondando e integrando nello sfondo del sesso i diversi aspetti di se, mano mano che maturano, e rispettando le fasi e i movimenti in cui il genere si sgretola e si ricompatta, si dissolve e si riformula in forme sempre più sofisticate. Ci sono stagioni della vita in cui è per esempio normale una maggiore rigidità di genere – i bambini che dicono le femmine? Pfui! Le ragazze che attraversano il momento del ciclo mestruale. Rispettare questo momento, anche cedendo ai luoghi comuni della cultura dominante è una cosa sana, così come è altrettanto importante rispettare e anzi incoraggiare i momenti in cui la lettura sessuale di se viene articolata e riproposta. La questione non è le bambole no, e i lego si per per le bimbe, i lego si e le bambole no per i bimbi, la questione è soprattutto il come leggere nel tempo gli oggetti culturali usati dai piccoli per cominciare a dirsi. Piano piano mostrare ai figli il fatto che essi sono manipolati dalla cultura ma che deve arrivare un momento in cui la devono manipolare a loro volta, regalando un grado di complessità ai propri figli maggiore di quello che loro hanno ricevuto. La questione non è tanto le bambole si, le bambole no.
Ma le bambole come, le bambole quanto, le bambole con.
ah. grazie.
Allora – è chiaro che quando un bambino mette in discussione un mito, è arrivato il tempo in cui è pronto per farlo. Il fulcro del ragionamento non è stabilire una data in cui imporre la razionalizzazione di Babbo Natale, o altro pensiero razionale. Babbo Natale è un esempio per illustrare il discorso dell’emergere delle categorie mentali. Ricordo anche che nel mio esempio il bambino di anni ne aveva due, e due in psicologia evolutiva è diverso da 5 come 25 anni dopo saranno diversi da sessanta.
Dai due ai sette anni i bambini passano da una grande maggioranza di mondo interno, a un graduale impossessarsi della realtà, al punto che dopo quell’età certi test – per esempio la figura umana che i bambini disegnano come la percepiscono emotivamente ma non realmente – non si possono fare più. Quello che qui mi interessa dire: non si fa un buon adulto, pensando il bambino come un piccolo adulto. Esso diviene adulto passo per passo, ma all’inizio è un’altra cosa.
Ma mi sa che siamo in altro post:)
Come ho già detto non sono convinta della giustezza del mito di babbo natale per i bambini grandicelli (5 anni e oltre). Girovagando su Internet ho trovato il pensiero di Francoise Dolto. Mi sembra un ottimo spunto di riflessione.
Quando un bimbo o una bimba si fanno delle domande e chiedono conferme penso sia inutile “tirarla troppo alla lunga”. Non è che siamo noi a temere la loro crescita e relativo abbandono della prima infanzia? La magia delle feste possiamo crearla noi senza rivolgerci ad agenti esterni, per così dire.
Link:
http://www.torinobimbi.it/testi/natale.htm
Sempre in riflessione.
mio figlio ha quasi 6 anni, sa che le renne non volano ma crede a babbo natale, sa che la terra gira ma dice “il sole si tuffa nel mare per dormire”, anche il mito e’ sapere, conoscenza, un modo altro di imparare il mondo. le storie e la fiducia incantata sono un biglietto per la saggezza.