Le relazioni che ci definiscono

Chi sono io? Spesso definiamo chi siamo unicamente in relazione al nostro rapporto con gli altri. Siamo madri, padri, sorelle, mogli, amici o nemici, generosi con alcuni, duri con altri, soprattutto severi con noi stessi. Proviamo a prendere il comando e scrivere in prima persona la storia della propria vita

Siamo una specie un po’ contradditoria, ammettiamolo.

Senza l’interazione, impazziamo

Un bambino, lasciato solo senza alcun tipo di contatto umano, regredisce nelle sue capacità comunicative, motorie, linguistiche, intellettuali.
Eppure, per determinare chi siamo, per comprendere la nostra vera vocazione, la scintilla di cui siamo i soli portatori, dobbiamo liberarci da sentimenti, emozioni, sensi di colpa, responsabilità, pensieri che costruiamo in relazione agli altri, per pensare in maniera autonoma e assumere come nostre le scelte che facciamo.
storia-personale
Quando le relazioni sono paritarie, possiamo pensare al rapporto come a una partita di ping pong: io dico/do/faccio qualcosa a te, tu l’accogli e dici/dai/fai qualcosa a me. In questo rapportarci l’uno all’altro agiamo liberi dalle emozioni che costituiscono le nostre sovrastrutture, le impalcature che – oltre a ciò che comprendiamo razionalmente, oltre alle sensazioni che provengono dal nostro corpo – ci riportano i segnali che ci fanno riconoscere eventi già vissuti, situazioni potenzialmente pericolose, cose lesive o cose belle per noi, la scintilla che ci rende felici – ora! – di condividere un bel cielo, un soffio d’aria frizzante, un raggio di sole, il profumo di una tisana.
Agiamo liberi non perché non esistano queste emozioni o sensazioni, ma perché sappiamo accoglierle, osservarle, spiegarle a noi stessi e scegliere di agire senza farci trascinare dalla loro ondata – oppure facendolo, ma consapevolmente.

Relazioni in equilibrio instabile

Molto spesso, però, le relazioni non sono paritarie, partono squilibrate già a cominciare da noi.
Sono tanti i motivi per cui possiamo elaborare delle strategie che non ci rendono liberi di scegliere di auto-determinare le nostre azioni, anche le più piccole, anche le più semplici interazioni sociali.
Qualche volta dobbiamo risalire al nostro stile di attaccamento (per dirla con Boris Cyrilnuk “Il ventaglio delle strategie affettive comprende: la bulimia affettiva degli iperattaccamenti ansiosi, la gradevole degustazione degli attaccamenti sicuri, l’appetito da uccellino degli attaccamenti evitanti, la fame violenta e il disgusto degli attaccamenti ambivalenti, il qualsiasi cosa degli attaccamenti confusi”), alla nostra storia familiare, a una catastrofe o a un evento che c’è piovuto addosso, alle interazioni e alla società culturale attorno a noi che con i suoi silenzi o la sua accoglienza ci ha consentito di elaborare i traumi con una strategia efficace o meno.
Tutti questi elementi convergono e ci fanno proiettare un determinato film di noi stessi in cui trovano posto le nostre personali strategie di sopravvivenza composte da piacere e dolore, generosità, empatia e masochismo, aggressività e paura. In questo modo agiremo perché “siamo quelli a cui si può sempre chiedere”, o perché “siamo quelli che pensano solo a se stessi”, o perché “ormai è troppo tardi per smettere di”, perché “vince chi attacca per primo” etc. etc..
Attorno a noi, le relazioni, i contesti non faranno altro che rafforzare quel film che ci siamo costruiti e tante volte proiettato (abbiamo già parlato di quanto alla specie umana faccia fatica cambiare, vero?!).

Risorse personali

Come fare, allora?
Intanto, se la sorte non ci ha donato di una base sicura da cui partire liberi per l’esplorazione del mondo, dobbiamo costruircela noi, guadagnarcela. Diventare noi la nostra personale portaerei, il nostro faro a cui tornare.
E poi, da quella, partire per l’esplorazione prestando attenzione ai segnali dati dalle nostre emozioni ma anche ai sistemi e alle strategie per cui continuiamo a comportarci in quella maniera che ci rende vittime di certi sistemi o di certe tipologie di persone solo perché un tempo – molto, molto lontano – ci venne comodo comportarci così.
Imparare che non abbiamo solo due- tre mosse con cui ribattere nel ping-pong relazionale, ma che possiamo sperimentarne molte, concedercene altrettante, fino a trovare quelle più efficaci per la nostra vita di adesso.

Un trauma, una sofferenza, uno scarto, può allora smettere di essere una coazione ad agire in automatico come se fossimo un manichino, quello che eravamo ma non sono più, ma può diventare un trampolino per un’evoluzione resiliente, un lavoro quotidiano di ricerca del nostro significato.
Essere in grado di dominare la rappresentazione che avevamo di noi stessi per ritornare liberi, anche e soprattutto nelle relazioni con i nostri figli, ma non solo.

Perché, prima di tutto, prima della relazione con loro, c’è l’esempio che diamo loro. Ed è bello mostrare la libertà di autodeterminarci anche nella relazione con noi stessi, nella possibilità che ci diamo di riprendere in mano la storia della nostra vita e scriverla libera dalle strategie che un tempo ci impose il contesto.
Adulti, finalmente.
Questo post è debitore a Boris Cyrulnik “Autobiografia di uno spaventapasseri” – Raffaello Cortina Editore.

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