Tre parti, tre stili, tre mezzi per portare

Una mini-storia degli stili genitoriali dell’ultimo quindicennio attraverso il parto e il portare.

Nel Natale del 1998 mi ritrovai al reparto di ostetricia per partorire la mia prima figlia.

Foto © simpleinsomnia utilizzata in licenza Flickr CC
Foto © simpleinsomnia utilizzata in licenza Flickr CC

Tutto si svolse secondo protocollo: il travaglio, che aveva un corso fisiologico, mi venne comunque accelerato con una flebo di ossitocina. Venni quindi trasferita sul lettino da parto, dove le mie gambe vennero legate ai gambali con delle cinghie elastiche (a ripensarci: perché? Temevano scappassi?) Quindi, nell’ordine, subii: episiotomia, manovra di kristeller, strizzamento dell’utero, lacerazioni e punti di sutura.
Erika mi venne appoggiata sulla pancia per una manciata di secondi, quindi fu portata al nido. L’avrei rivista ogni tre ore per l’allattamento ma – venni a sapere dopo – durate questo lasso di tempo le veniva somministrata della soluzione fisiologica.
La bimba veniva pesata prima e dopo la poppata e la differenza di peso tra quel prima e quel dopo dava risultati scoraggianti. Colpa dei capezzoli introflessi, del poco latte, della sua difficoltà di suzione, va’ a sapere. L’allattamento misto venne caldamente consigliato.
Fuori dall’ospedale mi attendeva il classico regalo da primipara: il trio navicella + ovetto + passeggino.
Usai quel passeggino sino alla nascita della secondogenita, esattamente 4 anni dopo.

Nel Natale 2002 mi ritrovai al reparto di ostetricia per partorire la mia seconda figlia.

Tutto si svolse secondo protocollo: un’ostetrica rimase con me durante il travaglio sussurrando parole di incoraggiamento e aiutandomi a muovere i fianchi per accelerarne i tempi. Nella stanza, illuminata da luci azzurre, non c’erano lettini con cinghie elastiche ma vasche esagonali, grandi palle di gomma, e persino strisce di stoffa che scendevano dal soffitto a formare delle liane.
“C’è della musica che vorresti ascoltare?” chiese la mia fata madrina.
“Sì” la sfidai “Pachelbel”. Un click, e le prime note del Canone risuonarono nella stanza.
Lara nacque nella posizione scelta da me e senza bisogno di tagli, manovre e lacerazioni. Si attaccò subito al seno e rimanemmo assieme nelle sue prime ore di vita, dopodiché venne portata al nido da dove, ogni tre ore, mi veniva portata perché la allattassi. Le ostetriche mi incoraggiarono a proseguire l’allattamento al seno per almeno un anno e si resero disponibili ad assistere noi puerpere anche dopo le dimissioni.
All’uscita mi attendeva un regalo: un passeggino nuovo.
Il nuovo trend minimalista, infatti, riteneva navicella e ovetto degli accessori di così breve durata da meritare la rinuncia.

Nel Ferragosto del 2008 partorii il mio ultimo figlio.

Fu un parto in batteria: noi partorienti eravamo separate da mura sottili e due ostetriche si spostavano dall’una all’altra misurando dilatazioni e incoraggiandoci ad assumere la posizione più gradita per l’espulsione.
Per distrarci, tra una contrazione e l’altra, vennero affrontati argomenti quali: la tutela sindacale della categoria, i danni prodotti dal colesterolo contenuto nella torta al formaggio e i vantaggi dell’imbottigliamento del Sagrantino direttamente sul territorio di produzione.
Fu un parto molto istruttivo.
I bambini vennero lasciati con noi per un tempo indefinito, quindi mamme e neonati raggiunsero le proprie stanze dove, finalmente, si praticava il rooming in.
Il personale del reparto consigliò alle puerpere di allattare a richiesta evitando di pesare i bambini prima e dopo la poppata e ci incoraggiò a prenderli con noi nel letto per il co-sleeping.
Alle dimissioni ero esausta, ma mi attendeva un regalo: una fascia portabebé, perfetta per praticare l’attachment parenting e per placare il bimbo attraverso l’abbraccio contenitivo protratto come Gordon comanda.

Un anno dopo caracollavo per le strade del centro storico di Perugia all’inseguimento della marching band di Umbria Jazz con il mio bambone nella fascia. Di tanto in tanto sfoderavo il seno per allattarlo a richiesta, lanciando sguardi di disapprovazione verso le sciagurate col passeggino – so Nineties! – e quelle armate di biberon, madri senza cuore che sicuramente non portavano i loro bimbi nel lettone.

Io, al contrario, avevo seguito tutte le linee guida della maternità del nuovo millennio portandomi il bimbo appresso ovunque, allattandolo ovunque, dormendo con lui, combattendo eroicamente contro ragadi e lombosciatalgia.
Eppure” pensavo tra me e me mentre il bambone si dimenava nella fascia e la marching band riprendeva il suo corso “sento che c’è qualcosa di sbagliato in questo nuovo trend educativo. Ma cosa, santo cielo, cosa!

 

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5 thoughts on “Tre parti, tre stili, tre mezzi per portare”

  1. Ah! Ah! Fantastico racconto di vita vissuta! Ho un figlio solo nato in casa nel 2005 e mi sono spupazzata quasi tutti le tendenze natural chic, per così dire… Non mi pento di nulla – negli anni ho operato parecchi aggiustamenti – ma se avvessi avuto un secondo pupo col cavolino che lo avrei allattato ad oltranza per diciotto mesi! ????

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  2. Ho una confessione da fare: quando ho letto che il tema del mese di febbraio era il “portare”, mi sono messa da parte, perchè, ho pensato, ormai il mio più piccolo ha tre anni…non sono più interessata all’argomento. Eppure l’ho portato. Eppure era il terzo. E anche io, in qualche modo, forse meno di te, ma ho vissuto tra i tre parti il passaggio culturale dall’ovetto alla fascia. E come te, ho pensato che con tutto l’amore possibile verso i figli e verso l’attachment parenting, forse a volte, solo a volte però, “si stava meglio quando si stava peggio”. Grazie di nuovo per avermi fatto riflettere sulla mia vita di mamma. Grazie davvero!

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  3. E quali sono i danni prodotti dal colesterolo contenuto nella torta al formaggio? Me so’ ammazzata ! 😀 Bellissimo post. Mi sembra incredibile che nel giro di 10 anni sia cambiato tutto così velocemente

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