L’identità dell’adolescente

L’adolescenza è un'”invenzione moderna”, è l’età della tensione tra la spinta a crescere, anche lontano dagli esempi, e il bisogno di restare.

Foto David Fuller utilizzata con licenza Flickr CC
Foto David Fuller utilizzata con licenza Flickr CC

L’adolescenza non è sempre esistita. Una cosa che ancora mi meraviglia, tutte le volte che penso all’adolescenza dei miei figli, alla mia o a quella di chiunque altro, è un fatto storico oggetto di un libro di Jon Savage, L’invenzione dei giovani, nel quale si racconta che l’adolescenza è un’età… inventata. La parola nasce all’inizio del ‘900 e identifica un nuovo gruppo sociale che la società industriale non riesce a inquadrare, non riesce a controllare. L’adolescenza nasce ribelle, per forza: cercano subito di inserirla in uno schema sociale. Nascono settori industriali per far sì che questa “nuova” fascia d’età – la vita si allunga e così i periodi di transizione fino all’età adulta – sia occupata a fare qualcosa: crescere con i “valori” più giusti. Ma giusti per chi, per che cosa?

Problema di identità.

L’adolescente, per antonomasia, cerca se stesso e se stessa. Va all’avventura per capire chi è, cos’è destinato a fare, quale destino lo aspetta – cerca di capire cosa sia, il destino. L’identità si costruisce a fatica, a volte con dolore, a volte con amore, tra una continua lotta di desideri e repressioni, libertà e regole, espressioni e impressioni. Si parte con un simbolo: un fiocco colorato, rosa o azzurro. Perché il rosa? Perché l’azzurro? Hanno una storia da raccontare, i colori, ma pochi la sanno, pochi se ne interessano.

Il “normale”.

Domina la ricerca di sé un’enorme pressione sociale, incarnata nella paura di essere diverso, esclusa, anormale, strana, inadatto, incapace. L’enorme flusso di stimoli, che da poco colpiscono anche un corpo in trasformazione, si governa a fatica e fa sbandare da un’idea all’altra, da una passione all’altra, da un modello all’altro. Da tutto si prende e a tutto ci si dà. Ovunque fa sentire la sua voce uno spettro, un assillo, un giudice inesorabile: il “normale”. Si soffre moltissimo pur di essere accettati nei canoni di una regolarità sociale, o pur di trovare quell’ambiente, quelle persone, quella cultura che finalmente si confà a quella cosa che l’adolescente, continuamente, diventa. Ma chi ha mai stabilito, definitivamente, cos’è “normale”? Cosa gli si oppone, cosa sono il “mostro”, lo “strano” e il “trasgressivo”?

Relazioni orizzontali e verticali.

Si viene al mondo in una rete – e da molto, molto prima del web. Siamo presi tra relazioni verticali – i nostri genitori, i nostri antenati, i “grandi” ma anche i “piccoli” fratelli, sorelle, cugini – e orizzontali – compagni, amiche, la classe, lo sport. Da tutti questi nodi riceviamo impulsi, parole, oggetti, abitudini, sentimenti che entrano nella nostra abitudine a volte a forza a volte piacevolmente, ma più spesso senza che ce ne accorgiamo, senza che sia una scelta. In adolescenza rifiutiamo in blocco o aderiamo senza riserve, forziamo i nodi di queste relazioni sperimentando i primi dolorosi strappi, le prime amorevoli ricuciture: quello che si faceva da piccoli non lo si può fare più, perché i ragazzi non fanno quello che fanno i bambini, le ragazze non fanno quello che fanno le bambine. Ma quanto potere passa per queste relazioni, per queste etichette? Quanto ne assorbiamo, e in che maniera? Come se ne stabilisce un equilibrio – ed è l’equilibro la situazione migliore?

La violenza fisica e verbale.

In adolescenza cresce la forza, fisica e verbale. Si diventa più alte, più grossi, il corpo si gonfia, gli sguardi si fissano, la fronte si alza e sempre meno cose si guardano dal basso verso l’alto – spesso anche i propri genitori diventano più piccoli. Si controlla e si domina una potenza sempre maggiore, e in quella rete di relazioni è “normale” scontrarsi con altre forze, con altre potenze: le prime che s’incontrano, la madre e il padre. E poi altre volontà diverse si scontrano, le parole volano, e in quello scontro si modellano, oppure s’infrangono, oppure si scansano indifferenti. In adolescenza si affronta la violenza, fatta o subita, detta o sentita, la sua ebbrezza o il suo terrore, e la sua rappresentazione nell’enorme calderone mediatico nel quale si cresce. Sono io quello che ammazza la fidanzata, la compagna, la moglie? Sono io quella che viene insultata, picchiata, lasciata per terra? Oppure è tutto finto, è tutta una messa in scena, è tutto il contrario e nessuno me lo dice?

L’immaginario e il simbolico.

Però il primo amore non si scorda mai, perché l’amore è il primo vortice di luoghi comuni, stereotipi, ignoranze, lacune, emozioni inesprimibili, “cose proibite”. Presto la vera lotta viene allo scoperto: c’è in ballo il genere. Sei uomo, sei donna? Allora devi fare così. Allora devi essere così. Allore devi dire questo, allora non devi mai dire quello. Allora la tua natura – la natura, quella che crea le leonesse con la criniera e i cavallucci marini maschi gravidi – è quella, e non altra. E’ naturale che tu sia così. Ma così come? Come vedo in tv o come dice nonna? Come mi vogliono gli amici o come leggo nei libri? Come vedo su internet o come dice papà? E perché di certe cose non si riesce neanche a parlare?

L’esempio, lo strumento e il sostegno.

Si può essere padre di un adolescente con l’esempio, accettando che il tuo sarà l’esempio che non seguirà. Si possono fornire tanti strumenti per comprendere, criticare, costruire, cambiare punto di vista – anche se l’adolescente non li userà quasi mai nel modo che tu avevi pensato. Si può essere presenti in ogni momento per essere di sostegno, anche se il tuo sostegno non sarà usato per reggersi ma per poggiare qualcosa che impiccia. Si può crescere molto insieme a una adolescente, perché la stessa strada non si può mai fare due volte.

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