Nel comunicato stampa della Nestlè, Gruppo di primaria rilevanza mondiale nel settore alimentare, del 14 marzo 2012 si legge: “Nestlé ha deciso di promuovere due settimane di congedo di paternità per i propri dipendenti impegnandosi ad integrare sino al 100% dello stipendio il trattamento previsto dalla legge per il congedo parentale ai neo papà che ne faranno richiesta. Il Gruppo dopo aver esteso a 4 i giorni di permesso retribuito (per legge infatti il Contratto Nazionale di Lavoro riconosce al lavoratore padre un solo giorno di permesso – che, aggiungo io, se passerà il decreto sulla riforma del lavoro dovrebbero diventare tre -) ha deciso di incentivare l’estensione del congedo di paternità fino ad un totale di due settimane. Il ruolo del padre, infatti, è per Nestlé di fondamentale importanza nel momento della nascita di un figlio, ed una sua più attiva partecipazione alla vita domestica e alle cure familiari contribuisce positivamente ad un’effettiva parità tra i sessi.”
Ottimo, benissimo, splendido. Due settimane cominciano ad essere un periodo consistente al 100% della retribuzione, soprattutto perchè si tratta di un congedo da sovrapporre a quello obbligatorio della madre. Quindi le famiglie in cui l’uomo (o un uomo…) è dipendente della Nestlè, se ne staranno bel belle a casa tutte riunite con il pargolo nuovo di zecca almeno due settimane. Oppure si consentirà alla madre di lavorare serena almeno un paio di settimane, sapendo che il neonato è con il papà.
Non sappiamo molto di più sulle modalità di fruizione del congedo: si suppone possa essere preso per tutto il periodo in cui sarebbe possibile prendere il congedo facoltativo, ma con retribuzione piena. Oppure magari è fruibile solo dal momento della nascita in poi. Tutte le informazioni ci derivano dai comunicati stampa (e del resto è pure giusto così: essendo una questione aziendale è come fosse privata, sono anche fatti loro). Però la Nestlè ci chiede di parlarne. E a questo punto mi sorge qualche dubbio.
Un’agenzia di comunicazione, che esplicitamente dice di curare le relazioni con il web per il Gruppo Nestlè, ha inviato a noi, come penso anche a molti altri siti e blog di argomento analogo, il comunicato stampa relativo alle due settimane di congedo come segnalazione di “notizia interessante”… Bene, mi dico, visto che si mettono a disposizione per ogni ulteriore chiarimento, chiedo di poter porre qualche domanda a qualcuno in Nestlè che si è occupato della genesi di questa iniziativa per comprendere i motivi che hanno spinto l’azienda ad accollarsi quello che sicuramente è un onere.
Mando un paio di email per chiedere questo contatto, tramite l’agenzia di comunicazione (termine decisamente abusato, mi dico!!), ma non ottengo alcuna risposta (ok, forse non intendevano comunicazione bi-direzionale!).
Per carità, non mi illudo di essere una testata ambita, ma del resto, non sono stata io a cercarli: loro avevano cercato noi!
Su questo ho riflettuto diversi giorni e mi sono data qualche risposta. Seguitemi e poi ditemi la vostra.
Sì, sicuramente per Nestlè le due settimane di congedo ai dipendenti padri è anche una mossa di marketing. Perchè no? In fondo integrare la retribuzione per due settimane (cioè accollarsi il 70% di retribuzione base, dato che il 30% è previsto dall’INPS in caso di congedo facoltativo del padre) ai dipendenti che diventano padri (quindi solo ai dipendenti uomini, che decidono di fruirne) non è un onere stratosferico, se paragonato a pagine e pagine di pubblicità sulle riviste o a costosissimi spot televisivi. E poi sicuramente è una campagna che valorizza molto l’immagine del Gruppo: Nestlè è brava, bella e buona e ama molto le famiglie (che poi sono i destinatari principali dei suoi prodotti). Infatti l’azienda chiede di parlarne proprio in quei settori più sensibili a queste tematiche: blog e siti di settore, dove l’argomento della conciliazione tra famiglia e lavoro è diffuso e dibattuto.
Non solo: ne ha un ulteriore vantaggio. Chi usufruisce delle due settimane sarà indubbiamente un lavoratore un po’ più contento, quindi un po’ più disponibile e più efficiente.
Insomma, se è una strategia di marketing, mi sembra vincente sotto tutti gli aspetti.
Però non mi sono fermata qui. Ho iniziato a spulciarmi tutti i comunicati stampa Nestlè sullo stesso argomento degli ultimi tempi. E ho trovato parecchie in formazioni interessanti.
Nestlè promuove l’apertura dei nidi aziendali negli stabilimenti.
Organizza gli “Junior camp”, ovvero degli spazi in azienda dove portare i figli durante le vacanze scolastiche quando i genitori lavorano (e se poi la merenda sarà a base di Nesquik, non sarà quello il peggiore dei mali!).
Offre un Maternity&Paternity Kit (con un nome tanto gender correct, da sembrare una di quelle acrobazie verbali a cui ci obblighiamo su questo sito!) a tutti i suoi dipendenti neo-genitori: e qui mi si sono drizzate le orecchie! Vuoi vedere che offre campioni di latte artificiale (in violazione del codice sulla commercializzazione dei sostituti del latte materno) visto che ne produce? Ebbene NO! Il kit non è altro che una serie di pubblicazioni che informano i dipendenti dei loro diritti, in quanto genitori, nei confronti dell’azienda e nei confronti delle istituzioni.
Consente il telelavoro, dove possibile, e prevede forme di part-time per chi ha famiglia.
Insomma, una serie di buone prassi decisamente ammirevole. Oltre alla dichiarata costante attenzione per ogni forma di conciliazione tra lavoro e famiglia, per tutti i dipendenti, uomini e donne.
Ecco, soprattutto questo mi ha stupito: tutte le comunicazioni sono attentissime a chiarire che si rivolgono a tutti i dipendenti, madri e padri, uomini e donne. Per Nestlè la conciliazione è una questione familiare, non materna. Mi sembra un argomento molto innovativo nel nostro panorama nazionale.
A questo punto ho fatto pace col mio senso critico e con lo scetticismo accumulato in questi anni di genitoricrescono. Ne sono certa. Per Nestlè queste sono anche strategie di marketing.
L’azienda ha deciso di affiancare alla promozione ordinaria (stampa, tv, ecc.) anche queste forme di promozione “sociale”. Però all’interno di questa azienda c’è qualcuno che si è posto problemi e ha cercato risposte: e oltre tutto non le ha cercate solo al femminile.
E’ vero che la Nestlè vuole che se ne parli e che sicuramente quello che c’è nei comunicati stampa è quello che vuole sia noto al suo pubblico di famiglie. Ma intanto è una strada che stanno percorrendo, mentre tante altre aziende ignorano questi percorsi.
Con investimenti non eccessivi, il Gruppo Nestlè trae un vantaggio di immagine proprio nei confronti delle persone a cui sono destinati la maggior parte dei suoi prodotti. Inoltre, ottiene anche un vantaggio nell’offrire dei servizi utili ai dipendenti, che sicuramente saranno per questo più efficienti e produttivi.
E magari “educa” ache i suoi dipendenti a considerare la famiglia una questione di uomini e donne.
Insomma, aziende italiane… che ce vo’?
Se questo è marketing, è intelligente e positivo.
Adesso, però, se qualcuno della Nestlè (anche qualche dipendente che usufruirà del congedo) volesse venire qui a parlare di questa esperienza dal di dentro, noi siamo a disposizione.
concordo con LGO, e infatti la nestle mi convince poco. Ma ho visto per esempio “in prima persona” per via di conoscenze come ad esempio Unilever (che magari il nome non vi dice niente, ma secondo me meta’ dei prodotti che avete in casa almeno sono loro) ha un fortissimo impegno di sostenibilita’, al punto da lasciare mercati quando non riesce a mantenere i suoi standard. Quindi, si, viva viva la multinazionale, ma capiamola bene.
Io credo che le multinazionali vadano giudicate su scala mondiale, perché è su quella scala che si muovono. Se il prezzo del congedo per i padri è pagato dai bambini che raccolgono il cacao in Costa d’Avorio -perché il profitto è su questo che si regge, dopotutto – allora credo che sia un prezzo troppo alto da pagare.
io sono sempre stata renitente al mondo delle grandi aziende e multinazionali ma devo dire che le sto riscoprendo proprio grazie a questo aspetto. quando un’azienda si impegna con un proprio codice etico e lo fa rispettare, il dipendente lavora molto meglio e ne guadagnano anche loro. quindi sono molto d’accordo con Silvia: stanno mandando un segnale importante.
@Giulia77 sono d’accordissimo. Purtroppo non è una cosa possibile in tutte le aziende. Io credo che non sia nemmeno per cattiva volontà.
Oddio, io adesso sono passata dall’altra sponda, ho aperto un’azienda: io assumo solo mamme e solo part time. Ti giuro che durante la ricerca di personale sono stata accusata di essere discriminatoria perché nel mio annuncio di lavoro ho scritto che cercavo una mamma(formalmente è vero, ma chissene?). Oh, ma andarsene un po’ a quel paese?
Personalmente, ma parlo per ME e in base alla mia esperienza fortunata mamma-professionista, da noi vincoli di orario non esistono: se c’è la visita medica, lo sciopero della scuola, la varicella, la neve… puoi stare a casa, lavorare, recuperare, fai un salto e fanne un altro.
Ho avuto anche però la fortuna (l’onore) di trovare una persona che ha una grandissima responsabilità e senso del lavoro: se lavora da casa io SO che sta facendo un ottimo lavoro, e l’occhio del padrone non serve (e io tanto ci ho gli occhiali e mi mancano 4 diottrie, quindi… ).
Però in Italia, boh, non è mica facile: qui ci stiamo ammazzando di tasse. Avremmo lavoro per 10 persone e per ora stiamo collaborando con meno della metà delle risorse necessarie.
L’asilo in ufficio? Ma magari!
Credimi che io lo farei: una tata che ci guarda i bambini, li porta al parco, li fa giocare mentre noi lavoriamo… Ma non si può!
Le normative sono talmente rigide che faccio prima a costruire un razzo per andare su Marte, piuttosto che aprire un nido aziendale. ah ah!
Per questo io sono sempre stata a FAVORE delle multinazioniali: uccidetemi, che vi devo dire, io nemmeno mi vergogno a dichiararlo. Perché solo queste multinazionali possono offrire una qualità di vita (e di tempo) ai propri dipendenti che sia decente e dignitosa.
A meno che non si torni agli Anni Cinquanta e ai negozietti sotto casa, ma la vedo dura.
Hanno dei difetti? Certo, tanti! Ma io personalmente vedo tantissimi sforzi fatti in questi anni per cambiare, migliorare e fare qualcosa di meglio per gli esseri umani e per il pianeta. Lenti, ma ci stanno arrivando. Per questo sposo in pieno la tesi di Silvia: ma chissenefrega se lo fanno per marketing, ma ben venga! Magari scoprissero questo nuovo marketing della felicità: farebbero un favore al mondo!
@Giulia77, concordo con Silvia. E poi noi questo nostro mercato e la nostra idea del lavoro vorremmo migliorarli un pochino, no? 🙂 E allora ben vengano iniziative come questa e il parlarne apertamente.
Ma infatti intendevo proprio questo: non ha neanche senso indagare sul fatto che l’azienda ci creda “davvero” o meno. E’ comunque corretto che l’azienda lo sbandieri ai quattro venti come può, visto che si impegna su questo fronte.
Insomma, meglio di qualsiasi spot, anche con l’uomo a torso nudo, a cui ambiva mammamsterdam 😉
Claudia, Barbara, sono assolutamente d’accordo con quello che dite, tuttavia noi dobbiamo confrontarci con la nostra realtà lavorativa, che per la maggior parte delle persone (paradossalmente le più preparate e qualificate) non prevede nemmeno lontanamente che si possa scegliere tra più offerte di lavoro, per giunta in base ai benefit o a quanto l’azienda concede in termini di conciliazione lavoro-famiglia.
Per la mia esperienza personale (certo potrei essere stata particolarmente sfortunata, ma temo di non essere l’unica…) posso dire che essere maggiormente qualificata, mi impedisce di cambiare lavoro, pur desiderandolo e avendo tentato varie volte, perché si preferisce inserire nell’organico persone molto giovani, con poche pretese economiche, disponibili ad orari molto flessibili perché senza famiglia al seguito, il tutto per un contratto da precari (che io probabilmente non accetterei, essendo tra i pochi fortunati ad avere un contratto a tempo indeterminato). Figurarsi in queste aziende la conciliazione lavoro-famiglia a che livello può essere.
In molti Paesi l’attenzione al lavoratore fa parte di una politica di fidelizzazione che fa lavorare tutti meglio e volentieri, ma non mi sembra che il nostro Paese si possa annoverare tra quelli, sicuramente non in questi ultimi anni.
Le iniziative della Nestlè rientrano in quella che si chiama “corporate social responsibility”, che si potrebbe tradurre con “tutto quello che rende i nostri dipendenti e il mondo un po’ più felice e a noi fa tanto fico”.
Nella mia azienda c’è il servizio CSR che si occupa di beneficenza, iniziative sociali (campagne per il bio, corsi della CRI, donazione del sangue), iniziative varie per i dipenenti (dal disbrigo di pratiche burocratiche al telelavoro).
Sono tutte iniziative molto belle, utili e adeguatamente pubblicizzate. E’ difficile dire quanto di questo provenga dal genuino interesse dell’azienda verso il mondo e i propri dipendenti e quanto invece sia frutto di moda, calcolo e necessità di marketing. Però alla fine: che importa? E’ innegabile che siano iniziative utili, quindi per me tanto vale approfittarne sperando che si diffondano.
Ricordo che, quando lavoravo per Amnesty International, uno dei principali mezzi di persuasione verso i governi era il fatto di pubblicizzare quanto fossero “cattivi”. Il nostro obiettivo era far riconoscere diritti, i ministri di turno di certo non erano folgorati sulla via di Damasco, ma per noi contava l’obiettivo. Credo che anche qui l’importante è che questa mentalità prenda piede, se poi l’azienda ci crede davvero tanto meglio.
@mammamsterdam, vi siete fissate ‘co sto Dash, che è l’unico (o uno dei pochissimi) marchi che ha SEMPRE usato testimonial maschi. Adesso è bastata la mamma di coso, come si chiama, De Luigi, per scatenare il putiferio: giammai che una donna usi un detersivo per i panni! Eddaje.
Si chiama target. Prova a farmi uno spot di detersivi politicamente corretto, con due uomini omosessuali che lavorano part time e si dividono equamente i lavori di casa, e poi mi dici quanti ne vendi.
E’ ovvio che la pubblicità deve semplificare. Non ci vedo niente di sbagliato. Diventa tragico se le donne sono USATE come oggetti, come quelle che stanno ignude per publicizzare il silicone (e io mi scandalizzerei allo stesso modo epr l’uomo nudo che pubblicizza il detersivo: ma anche no).
Ma una signora di mezza età che pubblicizza il Dash, santocielo, che problema fa? Io il Dash non lo uso finché non diventa green, ma infatti ho ben capito che quella pubblicità non riguarda me.
Solo che mò non si può dire più la parola ‘mamma’, che guai: dal femminismo siamo passati al mammismo. Io non mi sento una specie protetta. Ho un paio di sinapsi al giorno (non di più…) che mi permettono di decidere cosa comprare, senza offendermi se Dash scrive: più mamma non si può.
Adesso si potrebbe proporlo alla dash, che finché non mi fa lo spot col bonazzo a torso nudo che stende i panni, su cui sto insistendo su parecchi blog ultimamente, vuol dire che non mi prende sul serio come consumatrice con tutti gli ormoni e le sue cosine a posto. Io volevo addirittura un corcorso a punti dove se compri tanto Dash te lo mandano a casa per fare una lezione su come piegare i panni in modo da non stirarli. Eddaje Dash, ti sto regalando idee marketing vincenti ed equosolidali, perché non mi dai retta?
@Claudia, ecco, grazie, l’hai detto meglio di me.
Beh, la Nestlè è una grossa multinazionale, sono sicura che ha deciso di “importare” anche in Italia delle iniziative che in altri Paesi erano in uso già da tempo. E in questo campo ben venga. Sono molto contenta, Silvia, che non sei riuscita a trovare la “sòla” in questa iniziativa, sono strasicura che la tua ricerca è stata molto minuziosa. Ogni tanto qualche buona notizia risolleva il morale.
@Giulia non sono molto d’accordo con quello che dici. La soddisfazione dei lavoratori di un’azienda in alcuni Paesi è una variabile molto considerata. All’assunzione, oltre al contratto da firmare, ti danno un opuscolo che descrive tutti i “benefit” a cui hai diritto. Oltre alle condizioni contrattuali, appunto. Più benefit ti offrono più avranno domande di lavoro da gente in gamba che vorrà lavorare lì, e in diversi Paesi l’elenco dei benefit pesa sulla scelta di lavorare in un’azienda e non in un’altra tanto quanto lo stipendio offerto. E’ il nostro mercato del lavoro che è molto vecchio da questo punto di vista. Certo, hai ragione sul fatto che più l’azienda è piccola e più tutto è difficile, ma da noi neanche le aziende grandi hanno di norma il nido/asilo aziendale, per dirne una.
Non penso che l’obiettivo primario sia farsi pubblicità per vendere di più, piuttosto per accaparrarsi i dipendenti migliori. Se sono brava e ho ricevuto offerte di lavoro da diverse aziende, molto probabile che scelga quella che mi permette di conciliare meglio lavoro e vita privata. La maggiore produttività o i maggiori guadagni derivano indirettamente da quello, dall’attirare i lavoratori meglio qualificati, più che dal genitore che al supermercato, mentre sceglie lo joghurt, pensa alla politica aziendale di chi lo produce.
Le aziende medio-piccole possono calibrare l’investimento in base alle loro possibilità, a me sembra piuttosto che ci sia una gravissima miopia di fondo per cui l’azienda (media, piccola, grande, quello che è) non si rende conto che investire in questo senso non sono soldi buttati per far beneficenza. L’ho già detto altrove: le politiche di conciliazione lavoro-famiglia esistono (dove esistono) perché si è capito che aumentano la produttività, non perché siamo teneri e ci piacciono i bimbi.
Purtroppo da questo meccanismo doppiamente benefico (per il lavoratore e per l’azienda che ne trae pubblicità) sono escluse tutte le aziende medio-piccole, per le quali un investimento economico di questo tipo potrebbe essere gravoso, o in ogni caso le aziende di servizi e consulenza, che poco o nulla trarrebbero dal promuovere iniziative di questo genere perché non hanno nessun prodotto da vendere al grande pubblico dei consumatori.
Credo che una soluzione potrebbe essere quella degli sgravi fiscali alle aziende che aiutano i propri dipendenti a conciliare lavoro e famiglia.
Questo è esattamente l’approccio che io AMO del marketing. Ci sono persone sconvolte dalla mia affermazione, e io lo accetto. Ma secondo me il cambiamento delle aziende passa attraverso il rafforzare le loro prassi positive, e non attraverso il boicottaggio. Perché il boicottaggio non scalfisce minimamente l’azienda. Mentre invece rafforzando le prassi positive, l’azienda trae un vantaggio da un marketing positivo, e ha più a cuore il cambiamento.
Molti criticano la logica del profitto aziendale, e anche questo lo accetto. Trovo però assai difficile che un’azienda non abbia come obiettivo il profitto: un gruppo che mantiene centinaia di migliaia di persone nel mondo, DEVE fare profitto, altrimenti chiude.
Il profitto e il commercio non sono il male assoluto, e son quanti anni che cerco di dirlo? Troppi.
I cambiamenti delle aziende ci sono, io li vedo, stanno crescendo. Sono lenti? Sì, sono assai lenti. Ma del resto chi ha studiato un minimo di sociologia dell’organizzazione, sa che un’Organizzazione è un essere vivente, e che al suo interno il cambiamento non è radicale, ma giornaliero, e ha dei tempi lunghi.