Ho sperato anche io che non attraccassero, che non arrivassero più, che non partissero nemmeno.
È stato un giugno di tre anni fa, il mio nome era finito sul giornale dopo tantissimi anni e per la prima volta era messa in dubbio la mia integrità morale e la mia buona fede. Non è che fosse capitato tante volte: una volta suonavo la chitarra, un’altra volta avevo ripescato un bimbo che annegava in piscina, un’altra ancora presentavo un teatro di ragazzi con disabilità. Adesso basta.
Ero uno di quelli che faceva “business sui migranti”.
Ricordo che passai due notti quasi insonni a temere i titoli del giorno successivo. Dovevo portare i bimbi al mare dai nonni, ma con la testa non ci sono mai stato; il telefono era il mio polmone artificiale, non me ne staccavo nemmeno per pochi secondi. Ricordo che arrivò una chiamata da numero sconosciuto, saran state le tre del pomeriggio, e non ebbi coraggio di rispondere. Temevo una nuova intervista. Che poi non erano nemmeno interviste: mi chiesero cosa pensavo del fatto che i richiedenti asilo avessero il cellulare, o se sapessi già il motivo della loro partenza da casa. Ma nessun reale interesse di capire, solo voglia di confermare una tesi. La tesi che loro venivano qui per oziare e vivere a sbafo e noi a lucrarci sopra.
Ed io non sapevo ancora nulla di questi ragazzi, come del resto i miei colleghi; li avevamo solo accolti senza essere concretamente pronti a farlo perché la prefettura non sapeva letteralmente più dove metterli.
E loro scesero dalla corriera e qualcuno nemmeno voleva, perché magari su c’era rimasto un compagno di viaggio, un amico e avevano gli occhi della paura che io mai avevo visto prima.
E lì lo ammetto, ho sperato che non ne arrivassero più; l’ho sperato perché non volevo più il mio nome sul giornale, non volevo rischiare discussioni inutili con gli amici o di venir picchiato da qualche razzista o altre paure irrazionali che, in quanto irrazionali, sapevo di mio quanto stupide fossero; eppure non riuscivo farne a meno.
Che rimanessero a casa loro. Che li respingessero.
Ma muoiono in mare. È cristiano farli morire in mare?
Glom!
Rimanessero in Libia. In Libia raccontano di lager peggio dei nazisti è umano questo?
Ri-Glom!
Aiutiamoli a casa loro. Certo, facile, e nel frattempo?
Non so, non posso risolvere tutti i problemi io.
E mi sono pensato vile, ma vile davvero: ho passato la vita ad ammirare gesti eroici di persone che in fondo sono normali (Peppino Impastato, Pino Puglisi, Oscar Romero e chissà quanti altri ancora) e poi non riesco a fare una cosa normale, semplice, lineare, come il mio lavoro con coerenza. Non rischiavo la vita e venivo anche pagato.
Comunque a quella telefonata non risposi: pochi squilli e basta. Salvai il numero e dalla foto profilo di whatsapp capii due cose: 1. Era Stefano, un amico di mio cognato che probabilmente aveva dato in mano il cellulare alla figlioletta ed era partita una chiamata per sbaglio. 2. Era ora di darsi una calmata.
Il lunedì ricordo che parlai con la collega che seguiva direttamente la situazione, anche lei non aveva gli occhi di chi aveva dormito bene.
Decidemmo di andare avanti. Era la cosa giusta da fare. Abbiamo iniziato una scuola di italiano, qualche tirocinio lavorativo, il volontariato con gli operai del Comune.
Nel giro di qualche mese nessuno parlò più di noi, i ragazzi hanno ottenuto quasi tutti lo status di rifugiato e adesso lavorano in giro per l’Italia o sono andati all’estero. Uno adesso allena anche una squadra di calcio di bambini e pare sia pure bravo.
Ad oggi nessuno è andato a spacciare, è finito in galera o ha stuprato. Non posso mettere la mano sul fuoco che non capiterà mai. Dio solo sa quanto vorrei poterla mettere anche per le cazzate che potrebbero fare o non fare i miei figli.
Sicuramente non sono titolato a parlare di politica internazionale e di come il Governo Italiano sta iniziando a gestire la questione delle immigrazioni. Se vi parlano del “business delle cooperative” che si prendono i soldi e non si occupano dei migranti, sapete che può essere vero, in molti posti è successo e questo va combattuto. Sarò al vostro fianco in questa lotta.
Ma se vi dicono che esiste solo quello siete legittimati a non crederci. Si può fare integrazione e si può fare fatta bene. E quando qualche cosa è gestita bene diventa una risorsa per tutti. E questo non è contestabile, non è buonismo; è esperienza!
Bravo, poche righe di buon senso che spazzano via tante parole inutili sciupate in questo periodo. Grazie per la condivisione e complimenti per quello che fai.
Grandissimo!
Forsa GAE!