Ogni generazione ha la sua emergenza sociale, la sua particolare differenza da accogliere.
Pensiamo a Don Bosco, che decise di occuparsi dei bambini poveri, gli esclusi dalla nuova società industriale che stava crescendo a Torino nella seconda metà dell’ottocento. Pensiamo a Luigi Ciotti, che già dalla fine degli anni sessanta iniziò ad occuparsi di disagio giovanile, di alternative al carcere e di tossicodipendenza e di reintegrazione sociale e poi, sapendo leggere anche i bisogni nuovi, ha fondato Libera, per lavorare a sud, contro le mafie, dagli anni ’90 in poi.
E, se non fosse sufficiente il tempo, a determinare il bisogno, possiamo volgere lo sguardo ad altre latitudini: Madre Teresa di Calcutta, Raoul Follereau, Harvey Milk…
Senza dimenticare le centinaia di persone che hanno lavorato nell’ombra, senza apparire, magari non dotate del carisma comunicativo di chi è stato citato, ma non per questo meno capaci di mettersi in gioco per i diritti propri e degli altri.
Penso, ad esempio, alle famiglie che negli anni settanta-ottanta hanno fondato le associazioni di genitori che hanno portato all’integrazione scolastica dei bambini disabili, all’avvio di strutture che mirano all’integrazione lavorativa e sociale, pensando che fosse possibile un futuro diverso dal “normale” manicomio.
A distanza di tanti anni siamo propensi a pensare a tutte queste persone come degli eroi, dei paladini nei quali riconoscersi.
Già, riconoscersi!
Mi chiedo spesso: in una nuova deportazione come quella perpetrata dai nazisti contro gli ebrei, avrei il coraggio di essere giustamente illegale come fece Giorgio Perlasca, che mise a repentagli la sua stessa vita?
O, più banalmente, ci provo ogni giorno a portare avanti con determinazione quegli obiettivi di integrazione per il quale sono pagato (grazie a chi trenta anni fa ha lottato perché venisse riconosciuto il mio lavoro)?
Risposta difficile; spesso il mio cervello si alza e chiede imbarazzato “Facciamo il caffè?” nel goffo tentativo di cambiare discorso.
Ed ora si parla di immigrati e tutti stanno iniziando a capire che non sarà un’emergenza ma è una nuova rivoluzione, come quella industriale, che cambierà il mondo per sempre. O almeno fino alla prossima emergenza che poi diventerà un cambiamento.
E il mio cervello ci prova ancora a smarcarsi, a chiedere il conto, a fare la battuta che stempera la tensione. E vorrebbe dirmi che in fondo non è un problema mio, che io mi occupo di disabilità, che ho tre figli e da pensare ce n’ho lo stesso.
Ma qui sta il vero problema: siamo di fronte alla sfida sociale della nostra generazione e ci tocca preparare quella prossima, quella che subirà le conseguenze delle nostre scelte, delle nostre politiche.
Non è così semplice decidere in quale futuro vogliamo far vivere i nostri figli: spesso non è così immediato prevedere il risultato delle nostre azioni.
E posso condividere le paure (e a volte ne sono atterrito io stesso) di chi, ancora nel bisogno perché disabile, malato, anziano o senza lavoro, sente minacciati i suoi diritti, le sue economie.
Ma credo che la storia sia dalla mia parte quando dico che ricordiamo più volentieri chi ha lottato per integrare di chi ha rifiutato l’aiuto o, peggio, è arrivato ad uccidere discriminando. E la lotta per conservare quello che abbiamo a me ricorda tanto la legge della giungla.
Forse non sapremo con certezza le conseguenze delle nostre azioni, quasi sicuramente, non me ne vogliate, non rimarrà traccia di noi nei libri di storia. Ci rimane la possibilità di decidere come vogliamo essere ricordati dai nostri figli.
ma cosa serve (el dise) la memoria de ieri, a smentegarse (a digo) el dolore de ancò
(Valincantà – La Vita sta dolse canson)
Vans, hai colto in pieno, invece. Però possiamo lavorare per cambiare il loro sguardo, no?
Sai, mi chiedo anche io come ci giudicheranno i ns figli tra 15 anni.
Temo che il loro sguardo non sarà diverso dal ns nei confronti dei contemporanei dei nazisti. So che è un paragone forte, ma se 70 anni fa ci poteva essere la scusa del non sapere, adesso sappiamo eccome.
E la risposta a “cosa stiamo facendo” è purtroppo desolante.
Scusa serata un po’ negativa.
Gae grazie, mi hai detto quello che avevo bisogno di sentire