Ero una bambina mora dai capelli a caschetto, avevo gli occhi scuri e lo sguardo volitivo, avevo sei anni.
Ogni mattina mio padre mi portava a scuola, a fatica scendevo dalla macchina e lo salutavo con la mano, prima di sparire inghiottita dall’edificio grigio che conteneva anche la mia classe.
Mia madre mi veniva a prendere alle dodici e quaranta, prima del pranzo, il dopo scuola allora era un’eccezione.
Non ricordo molto le facce dei miei compagni, era una classe eterogenea di gente che arrivava e poi spariva, la mia compagna di banco si chiamava Paola.
Guardavo con curiosità un bambino seduto in prima fila, un biondino dagli occhi azzurri che mi sembravano più limpidi dell’acqua di un ruscello.
Mi piaceva, cercavo di attirare la sua attenzione, osservavo da lontano la sua strana famiglia quando lo veniva puntualmente a prendere.
C’era la madre, una donna alta e magrissima, lo guardava seria chiedendogli subito i voti della mattinata. Era spesso vestita con un cardigan blu e delle scarpe grigie consumate.
Di fianco c’era la zia, sempre, lo prendevano per mano e attraversavano la strada sulle strisce pedonali davanti alla scuola.
Erano identiche, persino i capelli grigi erano legati dietro con la stessa cipolla, fatta con cura da mani sapienti, quelle dell’una e quelle dell’altra.
Guardavo i loro vestiti, spesso avevano scelto lo stesso particolare: lo stesso colore delle scarpe, lo stesso maglione, la stessa gonna oppure la stessa sciarpa.
Mi chiedevo se si sentissero al telefono la mattina per mettersi d’accordo su quale vestito mettersi.
Allora non capivo cosa voleva dire essere gemelli.
Avevano entrambe una borsa blu con i manici di legno, la tenevano a tracolla nello stesso identico modo.
Mi facevano impressione: il medesimo sguardo su questo bambino sorridente, la stessa premura, la stessa dedizione, nonostante solo una fosse la madre mentre l’altra soltanto la zia.
Mi rivedo bambina, mentre all’uscita salivo sulla cinquecento gialla di mia madre guardando quel terzetto tornare verso casa.
Quando ho saputo di aspettare due gemelli la prima immagine che mi è venuta alla mente è stata il ricordo di queste due signore.
Ho avuto paura.
Paura della dipendenza, dell’incapacità di considerarsi distinti, dell’intreccio eccessivo di queste due vite concepite nello stesso istante.
Ho immaginato la loro vita da grandi, mi sono vista la famiglia di uno e la vita solitaria dell’altro, stretta intorno agli istanti di una quotidianità non sua.
Mi sono chiesta se sarei stata capace di evitare che uno dei miei figli guardasse suo nipote come quella zia, così indissolubilmente legata alla sorella da ritenersi parte così intima della sua vita.
Ho passato questi primi sei anni ad avere quello spettro, a distinguere tutto con minuziosità per impedire che i miei figli diventassero come quelle due gemelle.
Dai vestiti, alle scarpe, dalle cartelle, agli spazzolini, dalle tazze ai costumi da bagno.
L’ho deciso io, loro col tempo hanno distinto i loro gusti, ora scelgono da soli quasi sempre cose diverse, con naturalezza.
A tre anni, con sofferenza, ho scelto la divisione delle classi alla materna, con difficoltà e struggimento, mio e loro, quantomeno di quello più debole.
A volte al buio, la sera, quando non riesco a vedere più neanche le stelle, penso a cosa avrei fatto se non avessi avuto in classe quel bambino dagli occhi color del cielo.
Forse se non avessi conosciuto quelle due signore con lo chignon in testa la vita delle mie due creature sarebbe stata diversa.
Forse avrei fatto altre scelte, avrei percorso altre strade, girato altri angoli, preso diverse direzioni.
La vita però è fatta di istanti, di cose vissute, di ricordi accartocciati nella testa che all’occorrenza vengono fuori, come quello di queste due donne che stringevano la mano del mio compagno biondo.
E penso che in fondo, nonostante tutto, sia giusto così.
Per me, come dice gae, l’interdipendenza non è necessariamente un male, o almeno, magari lo è per le nostre categorie di “singoli” e non lo è se sei gemello (o magari sì, dipende dai casi suppongo).
Sto leggendo un libro di Vonnegut, Comica Finale, che lui ha scritto quando ha perso la sorella (non gemella). Parla di un amore a tratti incestuoso (ma l’incesto è un simbolo, in questo romanzo non mi dà fastidio) tra due fratelli gemelli (maschio e femmina). Quando stavano assieme erano un’unica testa, di intelligenza grandiosa. Separati, sentivano che la loro testa diventava come di legno.
Post intenso, come sempre.
@El_gae la tua storia sicuramente e’ simile a quella di queste due sorelle che ricordo io, e incide anche la generazione, perché un tempo sicuramente era più comune la similitudine assoluta, senza grossi ragionamenti su come distinguere. Eppure a me sono rimaste impresse queste due signore, una visione da film e quasi irreale.
@raffaella i miei post sono storie frutto dei miei pensieri e di quello che ho vissuto. Le mie scelte pure, credo come quelle di tutti noi, e’ impossibile non farsi influenzare dal proprio vissuto, da ciò che si trascina nella nostra testa in tutti i momenti del nostro quotidiano…
Ma si, e’ giusto così! Chi di noi non si fa influenzare, consciamente o inconsciamente, dal proprio vissuto e dai propri ricordi? Il gioco del what if, in fondo, e’ solo un gioco. Io sono figlia di un padre gemello non identico (guarda un po’): mia nonna non credo avesse mai avuto problemi. Anzi, in famiglia ci giocavano un po’ con questa cosa: uno biondo, uno moro, uno grassottello e uno magrolino. Visti i tempi, li chiamavano uno Adolfo e uno Benito (poveri bambini!). Io che ho due bambini con un anno di differenza fra di loro, ho l’incubo che la piccola possa crescere con l’ombra del fratello sempre proiettata addosso. A ognuno il suo vissuto!
Io in una storia così c’ho vissuto: mia madre e mia zia sono gemelle identiche, in pochi, in paese, le distinguono anche ora che sono ultrasessantenni. A pensarci bene per noi è stato normale crescere così, credo anzhe per loro. Il problema della dipendenza fra g,ellimho iniziato a pormelo con i miei. Ah, io e mio cugino eravamo sempre vestiti uguali, da piccoli, anche se si andava in negozio separatamente. Spesso ci confondevano. Un po’ sono stato gemello anch’io.