Siamo certamente diversi dai nostri genitori, e il mondo è probabilmente molto diverso da quello che loro si immaginavano per noi. Quali sono le aspettative che abbiamo sui nostri figli? E’ possibile prepararli ad affrontare il futuro, quando non sappiamo realmente come sarà?
Mio padre non ha finito le scuole dell’obbligo. Io sono dottore di ricerca in Estetica. Mio padre è passato per più matrimoni naufragati. Io sto ancora navigando bene con il primo. Mio padre è omofobo, vagamente razzista, chiuso a qualsiasi forma di novità sociale. Io sono un attivista antisessista. Mio padre ha subito rovesci economici notevoli, dai quali ogni volta si è risollevato con fatica e la cui frequenza non sembra diminire con l’avanzare dell’età. Io ho lavorato per pagarmi pressoché tutte le mie scelte (cominciando dall’università) e tuttora vivo in una stabile medietà economica senza lussi e senza eccessivi timori.
Per una sola generazione i cambiamenti, visti in maniera assoluta, sono enormi – e spiegabili con una mobilità sociale e una serie di avvenimenti storici possibili probabilmente solo in un paese occidentale nell’ultimo cinquantennio. Rimane il fatto che mentre m’interrogo un po’ sgomento sulle differenze tra una sola generazione e l’altra, guardo con inquietudine a quella generazione che ho messo al mondo.
Facciamo, a bella posta, un po’ di considerazioni banali. Sono nato senza internet e telefoni cellulari, senza media generalisti onnipresenti e martellanti, cresciuto in una cultura molto poco critica nei confronti di se stessa e poco impermeabile ai contatti con altre culture. Mi trovo, da adulto, in un ambiente sociale pubblico completamente stravolto (a essere generosi e superficiali) rispetto a quello in cui sono nato, ma anche rispetto a quello in cui sono cresciuto con i miei genitori. La domanda, diceva qualcuno, nasce spontanea: che mondo sarà quello nel quale i miei figli saranno adulti, o comunque dovranno compiere le loro prime scelte autonome dalla mia volontà e dalla mia vita?
La verità, nuda e cruda, è che non ho alcuna possibilità di saperlo. Quest’anno Ivan comincerà le medie, e delle mie scuole medie conservo, a mo’ d’esempio, tra i pochi ricordi nitidi quello dei professori di educazione tecnica. Convinti ambientalisti, a metà degli anni Ottanta ci dicevano che, se l’industrializzazione non si fosse fermata, nel 2000 non ci sarebbe stato più ossigeno per gli esseri umani, tutto consumato dalla combustione di petrolio, carbone e derivati in un pianeta senza foreste. Non è andata proprio così, e questo non ha giovato alla serietà della causa ambientalista, anche se io adesso faccio la raccolta differenziata, uso l’auto meno possibile e non compro prodotti che non mi assicurino il minimo impatto ambientale nella loro categoria produttiva.
Quante balle staranno sentendo adesso i miei figli, e quante gliene sto raccontando io in perfetta buona fede? Chi lo sa. Li sto proiettando in un futuro fuori da questo paese, provando a fargli imparare più lingue possibili e insegnando loro – certo la cronaca di questi tempi non m’aiuta molto – a essere “cittadini del mondo” interessati ai diritti di tutti. Di certo non ho nessuna delle preoccupazioni che avevano i miei genitori per me. Non m’interessa che titolo di studio avranno conseguito, né quale tipo di lavoro sceglieranno o in quale paese vivranno – e per quanto tempo. Mi sembrano tutti, attualmente, valori e situazioni così aleatorie e fortunose da non meritare alcuna pianificazione.
Mi preoccupo molto di più, rispetto a quello che fu fatto per me, della loro interiorità: le qualità umane, l’equilibrio psicologico, la loro capacità di condividere sentimenti ed emozioni, il rispetto per le diversità. Se penso a quello che è successo, in pochi anni, alla mia generazione, non posso che ammettere che sto facendo tutto ciò alla cieca, senza la minima possibilità di sapere come sarà il mondo – la mia città, il mio paese, la mia vita – tra vent’anni.
Forse essere genitori consiste in questo.
Certo studiano molto anche quelli che hanno il padre professore, ma in generale studiano molto quei bambini a cui viene trasmessa l’importanza dello studio. Lasciando da parte le eccezioni, quello che voglio dire è che noi ci impegniamo quasi automaticamente affinché ai nostri figli non manchi quello che è mancato a noi, che sia cosa di tipo materiale o psicologico-emotivo. La società cambia rapidamente, ma non credo che i bambini abbiamo difficoltà ad adattarsi. Loro sono pronti ad accettare il mondo così com’è e non vivono paure se non siamo noi a trasmettergliele. Quello che noi siamo verrà inevitabilmente trasmesso ai nostri figli e sicuramente quello che ogni genitore vorrebbe insegnare al proprio figlio è vivere senza paure. Ma ne siamo davvero capaci? Non lo so, certo ci proviamo.
La tua riflessione è interessante e riguarda molti di noi. Credo però che noi ci comportiamo con i nostri figli molto spesso così come i nostri genitori hanno fatto con noi, nel senso che ci preoccupiamo di dargli e di insegnarli proprio quello che a noi è mancato. Pensaci bene. Per esempio così come nostri genitori si sono preoccupati dei nostri studi perché loro non hanno avuto la possibilità di farlo, noi ci preoccupiamo di fargli acquisire un coscienza ecologica fin da piccoli perché noi l’abbiamo acquisita crescendo. Lo stesso discorso può valere per altre cose. Non credi?
Questo in parte è senz’altro vero, Dominga, anche se non credo sia così “meccanico” – studiano molto anche quelli che hanno il padre professore universitario, per quello che è la mia esperienza. Rimane il fatto che le trasformazioni sociali, in gran parte del tutto imprevedibili, abbiano reso molta di questa “preparazione” al futuro in gran parte inutile, proprio perché rispetto alle generazioni precedenti noi “oggi” possiamo essere sicuri di poche cose, tra cui una: la società cambia in maniera molto più rapida di prima. Noi forse abbiamo avuto dei tempi di adattamento – o dei mezzi per adattarci – che non so se e quanto avranno i nostri figli, per cui mi pare più utile prepararli proprio a questo: ad adattarsi. Cosa che detta così suona un po’ triste e cupa, ma che può anche significare provare a insegnare loro a cogliere qualunque possibilità senza troppe paure.