Il Piccolo Jedi è molto competitivo.
No, non così per dire. Non uno che “non sa perdere”: uno che se perde mette su una sceneggiata che pare Mario Merola che recita l’Amleto. Uno che se perde gli prende lo spleen anche dopo una settimana al solo ripensarci. Uno che ci soffre proprio nel profondo dell’anima.
Sono otto anni, vabbè no, dai, saranno sei/sette anni che cerco di trovare un metodo costruttivo per uscire dalla spirale della eccessiva competitività.
Nel corso della sua piccola vita ha piantato grane inimmaginabili per ogni sconfitta, a qualsiasi gioco, in qualsiasi circostanza.
Che poi non è solo questione di non saper perdere, cosa ben diversa dalla competitività, è proprio quel modo, a me del tutto estraneo e sconosciuto, di affrontare ogni situazione vagamente competitiva come la gara della vita, mettendoci anima, corpo, polmoni e lacrime, finché ce n’è.
Insomma, io vivo nel timore che questo modo di vivere il confronto, gli si ritorca contro, ora e in futuro. Magari mio marito avverte meno questo timore e, sotto sotto aizza, ma finge di condividere la preoccupazione.
E allora i poveri genitori inquieti, desiderosi di forgiare il carattere dei figli in modo da smussare i difetti e rinvigorire i pregi, pensano allo sport.
Lo sport di squadra.
Fino all’anno scorso de portavamo il pargolo a nuoto, ma già da un po’ iniziava a dare segni di malcontento. E così da quest anno gli abbiamo dato libera scelta, spingendo oltremodo per l’istruttivo sport di squadra (pregando che non prendesse in considerazione il calcio, l’hockey su ghiaccio o il polo, ognuno per motivi diversi…)
Il ditino inizialmente di era appuntato sul basket, poi, per via di un campetto di beach volley sulla spiaggia, a settembre la decisione era presa: pallavolo.
Io non so bene cosa sia successo in questi pochi mesi, ma giovedì scorso, tornando a casa, gli chiedo:
“Che avete fatto oggi a pallavolo, la partita?”
“Sì, partitella”
“E come è andata?”
“Bene. Abbiamo perso, ma abbiamo vinto un set” …continuando a mangiare avidamente la merenda con il massimo buonumore…
L’istinto era di riportarlo il palestra per controllare se lo avessi scambiato con un altro.
“Bene” e “abbiamo perso“, non sono due parole che mai pensavo potesse infilare nella stessa frase. Addirittura non pensavo che potesse pronunciare “abbiamo” e “perso” insieme…
Miracolo? No, adattamento. Perchè il maggior pregio della specie umana è quello di adattarsi ed il bello dei bambini è che, anche i più restii al cambiamento, sono camaleonti rispetto alle nostre aspettative di adulti.
La prima volta che, qualche mese fa, reagì male alla sconfitta, il suo allenatore (uomo di sport di squadra) disse semplicemente “Ci penso io“. Ecco, aveva capito il punto debole, e su quello ha lavorato. Egregiamente, direi!
Lo sport di squadra, interpretato bene e in modo sano, valorizza la competitività buona, quella propositiva, quella propulsiva, quella che fa da motore.
Uno dei valori più importanti, che si apprendono in una squadra, è la dimensione collettiva, la ripartizione delle responsabilità e dei risultati.
Vincere o perdere non è più una questione mia e basta, è un risultato del gruppo.
Ci si assumono le responsabilità altrui e si alleggeriscono le proprie, dividendole con gli altri. Essere in una squadra significa imparare a scambiare e cambiare.
Non è un compito banale: i bambini hanno una visione del mondo “se-stessi-centrica” ed è naturale che sia così. Così come la scuola accompagna la crescita insegnando a vivere in un gruppo, uno sport di squadra può insegnare qualcosa di più della condivisione. Nel gruppo scolastico, infatti, ognuno ha risultati personali, mentre nel gruppo squadra il risultato va condiviso e ripartito: quando sei l’artefice del bel risultato, non te lo prendi tutto, ma solo una fetta e quando provochi la sconfitta, è un peso leggero da portare, perchè non è mai colpa di uno solo. E’ un bell’esercizio di maturità!
E chi non è competitivo? Chi è meno interessato alla gara, rispetto a un tipo come il Piccolo Jedi? Ottimo anche in questo caso! Partecipare ad una squadra rafforza l’autostima. Portare il proprio contributo al gruppo, fa risaltare i propri pregi. A ognuno fa bene sapere in cosa è bravo e quali sono i suoi talenti.
Mettendo in luce i pregi, poi, si comprende l’importanza dei ruoli: per valorizzare la squadra, ognuno deve esprimersi in quello che gli riesce meglio. I ruoli non sono premi, sono il posto più giusto per ognuno. Per questo vanno rispettati, perchè così tutti possono risaltare e divertirsi al meglio.
E poi non dimentichiamo il rispetto delle regole. Le regole in uno sport di squadra sono spesso piuttosto complesse, articolate e rappresentano un vero e proprio codice. Bisogna comprenderle, memorizzarle e saperle applicare, tutte attività che prevedono anche un esercizio intellettuale.
Accanto al codice di gioco, poi, spesso c’è anche un codice etico: in molti sport ci sono comportamenti, anche non legati strettamente al gioco, che sono considerati disdicevoli o apprezzabili (come stringere la mano all’avversario comunque sia andata).
Questo insegna ai bambini a distinguere tra la norma “giuridica” e la norma “etica”: entrambe fondamentali, ma su piani diversi.
Giocare insieme in una squadra fa nascere complicità: ci si conosce, ognuno impara pregi, difetti e punti deboli dell’altro, si impara l’importanza di proteggersi a vicenda e di scambiarsi confidenze, di gioire insieme e di consolarsi. L’importanza dello spogliatoio!
E poi, non dimentichiamoci un grande pregio dello sport di squadra, quello più evidente: è divertente e permette di giocare insieme! Quanto è importante per i nostri bambini, che sempre più spesso hanno a disposizione troppi mezzi per divertirsi da soli?
(FBpC, grazie per il vostro contributo di squadra)
Post stupendo.
E illuminante: fa crescere l’autostima, insegna la condivisione e a perdere.
Mi sa che devo indirizzare Ida verso un bello sport di squadra sperando sia più atletica di sua madre 🙂
FBpC…uber alles.
Ma sai che anche mia figlia, da quando ha iniziato a fare minivolley ha cambiato atteggiamento?
Voglio dire, loro fanno partitelle di allenamento.
E di solito la sua squadra perde abbastanza spesso.
La prima sconfitta è stata un fiume in piena.
L’ultima volta mi ha fatto: Eh si abbiamo perso…ma la volta scorsa abbiamo vinto noi!.
(sul rispetto delle regole, ci stiamo ancora lavorando…ma ce la faremo, lo so…) 🙂
Pallavolista da 26 anni (ne ho 32!) e con un figlio piccolo… mi riempie di orgoglio sapere che il “mio” sport, che amo così tanto , abbia aiutato.
Rincaro la dose dicendo che, per ora, quello della pallavolo è un bel mondo – pulito, agonistico e non troppo fanatico, secondo me adatto ai bimbi.
Poi sono di parte eh… il figlio di cui sopra l’ho fatto con il mio ex allenatore (ora mio marito e allenatore di qualcun altro!)
@ri-Lucia, se ti va di approfondire fai pure: qui, nel blogstorming, dove vuoi.
(@Lucia: FBpC è stato già adeguatamente ripagato col mio impegno per tenerlo allegro! 😉 )
@Silvia, su mia sorella intendevo che fu “allontanata” da piccola da sport individuali proprio perchè avrebbero esasperato una sua competitività individuale già naturalmente sviluppata. A lei fu molto utile, in effetti, e i miei genitori in quel caso presero decisamente la decisione giusta. Anche perchè quando a tua figlia quattrenne viene proposto il vivaio agonistico in piscina e ti prospettano gli orari e la quantità di allenamento, effettivamente ti spaventi.
E’ me che forse non guardarono abbastanza, e mi tolsero appena possibile dalla piscina, e basta sport individuali per non esasperare l’impegno. E niente squadre “serie”, anche se ero portata. All’agonismo ci arrivai da sola, seguendo un’amica, ma a quel punto avevo 16 o 17 anni. Insomma tardi. Nel mio caso, sottolineo: io forse avrei avuto bisogno di sviluppare un pò più di competitività e di capacità di autocontrollo, intesa come capacità di comprendere e gestire i miei limiti. Ma il mio vuole solo essere uno spunto per riflettere sempre sul carattere dei propri figli quando li si indirizza. Poi, ovviamente, quando raggiungono l’età del Piccolo Jedi ascoltare anche le loro opinioni al riguardo, che qualche volta ci possono sorprendere e quindi insegnare molto.
Sai che con me sfondi una porta aperta, purtroppo ho poco tempo, ma ci sarebbero da dire altre cose, approfondire e specificare. Io condivido la totalità di quello che hai scritto, bel post (soprattutto visto che non sei una specialista:-) PS: FBpC dovrebbe farsi pagare le consulenze, i suppose
anch’io niente sport di squadra e probabilmente mi manca un pezzo. due cose mi hanno colpito: il divertimento che secondo me non deve mancare sempre e in ogni caso e a questa età più che mai e la presenza di un adulto di riferimento che NON sia il genitore con un ruolo di guida e contenimento ben più incisivo rispetto a migliardi di predicozzi genitoriali che non si svolgono sul campo insieme ai pari. bravissimo PJ!
Bellissimo post, io non ho mai fatto sport di squadra, e sinceramente mi avrebbe fatto bene. Non vedo l’ora di lanciarci in mezzo la mia quattrenne!
Bellissimo post.
Io ho praticato sia sport di squadra che individuali, sicuramente però, quelli di squadra mi hanno formato di più, ne sono certa.
La condivisione di un progetto, una partita o un torneo, mi ha aiutato anche nella vita di tutti i giorni.
Fare squadra non è da tutti, ma è fondamentale per riuscire ad ottenere quei risultati che solo insieme si possono raggiungere.
@Barbara, è ovvio che lo spazio di un post costringe alle generalizzazioni.
Ovviamente, io parlavo di sport per bambini in età scolare, non di agonismo per giovani adulti. lì bisogna arrivarci con un carattere già formato e bisogna sceglierseli se sono adatti al proprio modo di essere.
Per esempio noto che, nelle scuole calcio, già per i piccoli si fa la distinzione tra chi “merita” di giocare la partita e chi no. Nella pallavolo e in molti altri sport meno “in evidenza”, gli allenatori fanno giocare tutti: rotazione totale e senza riserve, perchè i bambini sono lì per divertirsi, pur riconoscendo quello bravo in un ruolo.
Si sta attenti a non definire neanche “tornei” gli incontri tra squadrette: sono detti “concentramenti” (sì, brutto termine), per dire che più squadre si concentrano tutte in un posto per giocare insieme, senza rilievo alla classifica. Ogni tanto una palestra ospita un concentramento: si gioca a rotazione gli uni con gli altri e poi, la prossima volta, ci si vedrà a casa di un altro.
Se mi dici che tua sorella era “egocentrica e competitiva” e per questo lo sport di squadra era adatto a lei, mi permetto di dissentire: forse lo sport di squadra non le è stato sufficientemente utile, non lo ha ben sfruttato per smussare i suoi angoli, non tanto arrivata all’età dell’agonismo da giovane adulta, ma ben prima.
Non per questo ho qualcosa contro gli sport individuali. Io, come jolesulprato, ho praticato solo quelli e, come lei dice, comincio a vedere l’importanza della squadra tramite gli occhi del mio figlio.
Per esperienza personale, ti dico che la scherma è moooolto individuale, nella quale la squadra è solo un gruppo. Sulla pedana sei da solo, dietro la maschera (e non è un elemento secondario)… e ti assicuro che anche quello è bellissimo!
bellissimo condivido tutto!
Però… però. Io sono una profonda sostenitrice degli sport di squadra, intendiamoci, e sono d’accordo al 100% con quello che scrivi, ma ho imparato sulla mia pelle che a volte non bastano. Io, secondogenita di una che qualunque cosa facesse era la migliore, figlia di altrettanto padre, sono stata cresciuta a sport esclusivamente di squadra perchè così faceva mia sorella. Che era egocentrica e competitiva, quindi per lei erano perfetti. A me, invece, hanno tarpato quel pochino di competitività che avevo di mio e mi hanno affossato ancora di più. A 18 anni, per intenderci, io ero felice di stare in panchina e sono venuta su con la convinzione che quello fosse il mio posto (nella vita, intendo). Perchè la squadra era più importante, e in squadra c’era gente più brava di me, e allora il posto in campo era loro e io dovevo esserne, e ne ero, contenta per la squadra.
Ora, qui ovviamente sto parlando di sport agonistico per giovani adulti, campionato nazionale: in genere gli allenatori intelligenti di squadre infantili fanno giocare tutti comunque, ma tant’è.
Secondo me lo sport di squadra è fondamentale per la crescita psico-emozionale del bambino, dico solo che a volte può non essere la scelta migliore e si può provare, se possibile, ad affiancare uno sport individuale anche solo per un periodo. Di quelli in cui devi lottare contro il cronometro, e hai la possibilità di valutare te stesso in confronto a qualcosa di assoluto al te stesso di ieri.
Qualche mese fa un’amica mi ha fatto riflettere sugli sport “vie di mezzo”, come per esempio la scherma: c’è sia il fattore squadra che quello individuale.
Quanta verità nelle tue parole! Anche a casa nostra le scene in cui volavano i tabelloni dei giochi da tavola appena lui iniziava a perdere,o le lacrime amare non mancano, ma già qualche mese di allenamenti (nel nostro caso rugby) è si inizia intravedere una personcina nuova. Io che non ho mai fatto lo sport di squadra, comincio a vedere la loro importanza tramite gli occhi del mio figlio.
Fare squadra, un insegnamento che ci segue tutta la vita. Che bello questo post!