Questo mese su Genitori Crescono si parla di comunicazione, e questa rubrica parlerà oggi di un tipo di comunicazione particolare: quella pubblicitaria. Mi chiederò come ci rappresenta la pubblicità (sfiorando appena l’argomento per ovvi motivi), e se questa rappresentazione influenza la percezione di che abbiamo di noi stessi.
Mi spoilero subito: la risposta è naturalmente sì, la pubblicità, quando (non) ci rappresenta, influenza le aspettative che abbiamo su noi stessi. Ma qualcuno, soprattutto all’estero, ca va sans dire, ha preso atto del fatto che la famiglia non è (mai stata) quella tradizionale e ciò non è vergognoso, non è peccaminoso, non è contronatura, e, oh wait, si può persino rappresentare.
Abbiamo già detto tutto sugli stereotipi che negli spot (e non solo) massacrano la figura della donna. Tutti gli omosessuali del mondo si sono ribellati ai brand che non contemplavano romantici gay ai due capi di uno spaghetto.
Perché non diciamo la nostra anche noi, famiglie non-convenzionali, esistenti dalla notte dei tempi, eppure (quasi) mai prese in considerazione dalla pubblicità? Semplice, perché noi aspiriamo a essere famiglie tradizionali. Perché? Forse perché la pubblicità ci ha convinti che prima eravamo più felici. Ma forse eravamo solo più esteticamente corretti, a dire la verità.
Chi divorzia in genere non rimpiange l’uomo/la donna che ha perso, ma quasi sempre, se ha figli, di aver perso l’occasione di fare della propria famiglia un’istituzione socialmente accettabile e dunque di essere una persona degna dell’approvazione degli altri. Qualunque famiglia il divorziato con figli riesca a ricostruire, qualunque grande amore riesca a rivivere, non vanterà mai una famiglia tradizionale, quella che aveva immaginato per sè, da bambino; quella che in cuor suo sente essere quella giusta. Quella che qualcun altro gli ha detto essere la normalità.
Cari genitori separati, quando tornate a casa dopo l’ufficio, e sapete di non poter tardare neanche mezz’ora, perché la nonna, la baby sitter aspettano, orologio alla mano, di lanciarvi i vostri bambini; quando di fronte alle bollette da pagare, ai pidocchi e alle altre tragedie siete soli; quando vedete il/la vostro/a ex ricostruire serenamente la propria vita mentre voi siete ancora lì a contemplare le macerie della vostra, ecco, cari genitori separati, non preferireste essere nei panni di Stefano della Nutella?
Per chi legge da mobile o dall’ufficio e non ha cliccato su play: vi dico io chi è Stefano.
Il povero Stefano è uno stereotipo vivente. Ha fatto un medio percorso professionale (ma immaginiamo che abbia davanti una strada dirigenziale, dal momento che è ancora abbastanza giovane), ha una figlia e una moglie (la fidanzatina delle elementari) che gli prepara amorevolmente la colazione (a base, chiaramente, di Nutella), elargendo buffetti sulle guance. Brr.
Anche noi separati vorremmo tanto essere Stefano, a volte.
Ma si dà il caso che Stefano sia stato inventato. L’eventualità di diventare come Stefano è improbabile quanto l’eventualità di diventare Lady Gaga, oltre che appena appena meno eccitante . Eppure molti osserveranno questo spot e ambiranno a quel conforto dato dalle semplici cose, dalla moglie accudente e dalla vita che scorre placida sui binari giusti. Una vita che non vivremo mai. Né noi, né il resto del mondo.
Poi ci sono brand che, invece di proporre un modello falso, generando frustrazioni, provano a rappresentare un modello verosimile senza spacciarlo per vero, e ci riescono bene.
In questo spot c’è una famiglia, ma non vedo il papà. C’è una mamma, un figlio, delle scarpe da calcio, uno skateboard. C’è anche una nonna che si occupa del figlio quando la mamma esce. C’è una mamma che torna a casa brilla e un figlio che le prepara la colazione la mattina dopo. E tutto questo non è realtà. E’ il gioco di una bambina, è quello che succede dentro a una casa delle bambole. Non è vero, non viene venduto per vero. Ma è onesto.
Non vi identificate? L’importante è che lo spot vi diverta, viralizzi, vi dia una percezione positiva del marchio e che acquistiate da Ikea, tutto il resto è noia.
Non abbiamo bisogno della pubblicità, per sapere se facciamo bene o male. E’ la pubblicità che ha un gran, gran bisogno di noi. Che non ci prenda sempre in giro, dunque, e che faccia il suo lavoro: che ci diverta, che ci intrattenga, che ci convinca, ma che non ci dica che cosa dobbiamo sognare.
La pubblicità non lo può sapere, che cosa sogniamo noi.
– di Valentina Santandrea aka pollywantsacraker –
@mammame: certo, sono d’accordissimo con quello che dici. I pubblicitari sanno quello che fanno, certo. Anche quelli dell’ikea vogliono dirci in chi dobbiamo identificarci e cosa dobbiamo sognare (per farci acquistare), sennò sarebbero Genitori Crescono e non una multinazionale ;).
La differenza tra i due spot che ho proposto è che Ikea prende in considerazione l’ipotesi che esista qualcuno (a occhio e croce non proprio una nicchia di mercato) che non si identifica nella famiglia che ci hanno proposto finora. La seconda cosa che mi piace di quello spot è che mamma e bambino che si divertono al mattino a colazione non sono spacciati per inconfutabilmente veri: sono due bambole nella casa giocattolo di una bambina.
(adoro anche lo spot del bambino che tu dici. Anche quello fa vedere un bambino che non sogna necessariamente Babbo Natale. Prende in considerazione il pluralismo dei sogni, ecco. Quindi è sempre pubblicità atta a vendere, chiaro, ma a mio avviso non crea un condizionamento sociale troppo pervasivo, è onesta).
Ben scritto Valentina…come sempre!!! 🙂 Ci vorrebbero più persone come te, meno convenzionali e rispettose delle diversità altrui, oltre che delle proprie!!! Termini come diverso, originale, sono comunque etichette ma dal mio punto di vista, rimandano a qualcosa di bello, di nuovo e di positivo. Nonostante questa considerazione, amo anche la tradizione, forse è per questo motivo che è così difficile fare pubblicità e marketing, forse perchè ognuno di noi ha in sè numerose contraddizioni…io sicuramente!!!
la tua riflessione – quanto la pubblicità sia pervasiva nel condizionarci rispetto a quello che persino dobbiamo sognare – la trovo molto interessante. E appunto la creatività, la a volte geniale professionalità che ruota intorno ad uno spot,(ho lavorato parecchio tempo in pubblicità e l’ho visto con i miei occhi) è proprio diretta a trovare quel punto di emozione che ti fa identificare e che fa scattare il bisogno, se non erro. Dunque alla fine di tutto penso che dabogirl abbia ragione, sanno molto bene quello che fanno e come lo devono fare e lo fanno bene. Anche Ikea, se ci pensi, spostandosi dallo stereotipo cerca la sua nicchia e la trova: a me è stato raccontato ancora prima di vederlo lo spot in onda in questo periodo del bimbo piccolo che prepara il “divano” al fratello grande. Da chi mi è stato raccontato? Dall’ amica che ha appena avuto un bambino e ne ha uno adolescente da precedente unione. E quale mamma single non vorrebbe identificarsi nella colazione con bimbo scoppiettante e simpatico alle sette di mattina? Invece di avere per esempio un vago ma incoercibile senso di sconfitta? Non pensi, Polly, che alla fine pur con intelligenza e ironia, anche Ikea proponga un modello scanzonato(quello della mamma felice e contenta di essersi finalmente liberata del compagno e aver raggiunto una nuova famiglia che comunque funziona)che spesso e volentieri è un po’ fuori dalla realtà? O che comunque, come tu ci insegni, costa parecchia fatica raggiungere? (E che comunque certamente a me personalmente fa ridere e mi piace di più di stefano!)
Eppure, io che sono cresciuta in una famiglia tradizionale, giunta all’adolescenza, mi sentivo soffocare. Non che fosse una cattiva famiglia, voglio molto bene ai miei, ma tutta questa “normalità” mi ha fatto per anni desiderare un po’ più di originalità, se non qualche volta proprio la trasgressione.E poi la vita ti capita. Ma non ho modelli ideali. Non ho quadretti a cui aspirare. Delle volte,a sorpresa, una giovinezza in una famiglia tradizionale ti vaccina da spot nutellosi
Chiara, ottimo commento.
Certo, non è solo la pubblicità a veicolare modelli opinabili. A me in passato ha fatto sentire inadeguata Facebook(dunque ho chiuso l’account e ho aperto un profilo mezzo fake che uso per amministrare la pagina aziendale), e la tv in generale (dunque ho abolito la tv).
La pubblicità, più che farmi sentire inadeguata, ha spesso generato bisogni che non avevo, che pareva potessero essere colmati da un oggetto. Dopo aver comprato l’oggetto mi rendevo conto che non solo non mi aveva risolto il problema, ma anzi l’aveva proprio generato.
Io posso solo dire che non so quanto c’entri la pubblicità (è nato prima l’uovo o la gallina?) ma una cosa è certa: io combatto ogni giorno contro il pensiero strisciante che la mia famiglia non è e mai sarà “giusta”. Ci scherzo, mi analizzo, sono autoironica, sdrammatizzo, tutto quello che volete. Ma accuso comunque il colpo del luogo comune, che magari non sarà solo il prodotto della pubblicità, ma che certo anche dalla pubblicità è amplificato, consolidato, reso indiscutibile ed esteso territorialmente dal più piccolo dei paeselli retrogradi alla metropoli più cosmopolita. Il discorso vale ovviamente per tutti gli stereotipi. Io ad esempio mi scontro ogni giorno con quelli relativi a stranieri e musulmani. E’ un cane che si morde la coda. La pubblicità deve assecondare la pancia “della ggente” e non educare. Vabbè. Però è anche vero che tutto questo amplificare all’infinito forse creerà guadagno per alcuni (pochi), ma sicuramente crea malessere per moltissimi e discriminazione (anche grave) per alcuni.
@elgae: secondo me ognuno ha i suoi standard di felicità, ognuno ha i suoi sogni e ognuno ha i suoi problemi. I condizionamenti sociali rappresentano, secondo me, una forma di controllo che il sistema (che nel nostro caso è un sistema prima economico che sociale) applica per autoconservarsi (nel nostro caso, ho l’impressione che il valore supremo siano i soldi di qualcuno). Ma siccome io di vita ne ho una sola penso al mio bene, e non a quello del sistema. Se sei felice, anche tu stai pensando al tuo bene, a prescindere da cosa fai per essere felice.
@dabo: pare che faccia marketing anch’io. Non era evidentemente un post contro “i pubblicitari”, o “i creativi” o i “marketing” perché tu saprai benissimo che dietro a spot come quelli sopra ci sono alcune decine di persone, e non sono opera di un pubblicitario, bensì di un team di creativi, grafici, marketing, comunicazione, con una linea comune che potrebbe essere a grandi linee definita dalla mission e dalla vision aziendale. Stiamo parlando di valori che io considero limitanti, non di singole persone o singole campagne.
@deborah: pare che anch’io abbia una vocazione minoritaria.
Come sapete vivo in Svezia e proprio dal punto di vista pubblicitario e del marketing noto differenze abissali rispetto alle pubblicità italiane ( e non è un caso che la seconda pubblicità sia di Ikea). Ma non voglio fare il solito discorso Svezia contro Italia perché non è molto interessante. Vi propongo una riflessione: l’aspirazione alla tovaglia pulita per me c’è in entrambe le pubblicità evidenziate da Polly. Quella di Ikea infatti propone una famiglia più vera, ma crea pur sempre voglia di vedersi nei panni di quella mamma e quel bambino, così unici e speciali nel loro rapporto. L’aspirational c’è tutto. L’errore nel primo caso è che è un vecchio stereotipo e puzza di stantio, di noia, di sempre le stesse cose. Ecco credo che questo sia l’errore principale fatto da Nutella nel caso in questione. Tutto ciò però va Off Topic rispetto al tema sollevato da Polly, che mi sembra ancora più interessante. Quanto ci lasciamo condizionare dalle pubblicità? Quanto questa immagine di famiglia condiziona il nostro immaginario e ci porta ad essere più o meno (in)soddisfatti della nostra famiglia?
Io potrei essere visto, da lontano, come uno che calza nella vita-stereotipo di Stefano della Nutella. Ma queste generalizzazioni che la pubblicità ci propina (ricordo l’odiata famiglia del mulino bianco) non le sopporto. Perché lo sa dio tutte le madonne che servono per avviarci al mattino, altro che amore e buffetti sulla guancia.
E dico di più: siccome la Nutella non la posso neppure mangiare, mi tengo le mie madonne. Mi diverto molto di più
Polly, let’s agree to disagree, ti rispondo solo al punto uno:
lo dice la gente. La ricerca di mercato va a chiederlo appunto a tantissime persone di tutti i tipi (ovviamente, in target)
e anche al punto 3: no, ci sono fiori di studi scientifici a riguardo, che chiunque lavori nel marketing conosce.
poi figurati, sono abituata da secoli ad essere considerata la cattivona dei film di James Bond che carezza il gatto pianificando il male, solo per il fatto di lavorare nel marketing, avere un fratello pubblicitario e due genitori che (negli anni ’60) si conobbero al corso di laurea in pubblicità, ormai vivo serena anche così.
Ho visto ora la pubblicità della Nutella! Mamma mia, che angoscia, che tristezza! Scusate, ma c’ho una vocazione minoritaria.
Sorry, ma non sono d’accordo.
1) “la gente vuole anche la favola, non solo la realtà”: sì, ma quale favola? La gente vuole essere Stefano e non Lady Gaga? E chi lo dice?
2) “non è manco vero che la realtà sia solo tovaglie sporche e famiglie sparse che non fanno colazione”. Da quando la gente ha cominciato a confidarsi con me, ho smesso di credere che la tovaglia pulita significa che quella genete è a posto e soprattutto è felice, ma magari le persone che conosci tu sono diverse, meglio così.
3) “come ben si sa a livello scientifico da secoli, non è che basta vedere una pubblicità per aderire a quel modello e/o volere quel prodotto” ah no?
3) “non è che i pubblicitari si divertano, ad aderire a certi schemi” i pubblicitari non fanno i pubblicitari (solo) per divertirsi, ma anche, per promuovere/vendere. E se, come tu dici, la tovaglia pulita è ciò che la gente vuole, allora i pubblicitari ti assicuro che non lavorano contro la propria volontà.
la gente vuole anche la favola, non solo la realtà (che poi non è manco vero che la realtà sia solo tovaglie sporche e famiglie sparse che non fanno colazione, eh.)
quando si fa ricerca di mercato fatta bene (e i grandi marchi la fanno quasi sempre bene, anche se non la fanno sempre col mio istituto) si va proprio a “scavare” sulle motivazioni, per trovare sempre nuove leve, nuovi modi di proporre (perchè, come ben si sa a livello scientifico da secoli, non è che basta vedere una pubblicità per aderire a quel modello e/o volere quel prodotto – tutto è filtrato a livello personale e, soprattutto, sociale)
non è che i pubblicitari si divertano, ad aderire a certi schemi. Anzi.
Cara, dici bene,la famiglia tradizionale non esiste. Noi siamo in tre, mamma papà e bambina e ce n’è voluto per far capire al circondario che sì, in 3 si sta bene e che no, un altro figlio non era nei miei progetti. Non ero, nè sono , abbastanza tradizionale. Chi poi ne ha 4, di figli, è uno svalvolato, non è tradizionale neppure lui. E che ci vuoi fare! Le aspettative del sistema sono troppo alte per tutti. A questo punto mi sa , si adeguerà il sistema.A me comunque, la famiglia alla Barilla, fa sonno.
Ma la gente vuole la tovaglia candida perché i brand investo miliardi per convincere la gente che vuole la tovaglia candida, o davvero la pubblicità rappresenta quello che vuole la gente?
Io sono per la prima ipotesi, sennò non mi spiego perché se tutti vogliono la tovaglia candida, poi scelgono la tovaglia sporca tra mille sensi di colpa e di inadeguatezza.
purtroppo lo sa.
dico purtroppo perchè io sono una di quelle che va a chiedere alle persone *normali* cosa pensano, cosa sognano, cosa vogliono sentirsi dire, come vogliono sentirselo dire.
E la maggioranza di loro… vuole questo.
vuole la tovaglia candida, la colazione lenta, la famiglia in modulo da 4, e tutto quello che sappiamo.
e siccome la pubblicità non deve educare, ma vendere, dà quello che le persone (in maggioranza) vogliono.
La pubblicità purtroppo sa benissimo cosa vogliono. E dico purtroppo, perchè tanti creativi vengono, in questo modo, castrati.