Era l’estate del 2008, ed è stata una tra le peggiori della mia vita.
Io e il babbo delle bambine avevamo comprato casa a gennaio e i lavori di ristrutturazione procedevano lentissimi; pagavamo mutuo, affitto, artigiani e tre asili nido tutti i mesi; solo lui aveva un lavoro fisso, mentre io facevo lavoretti saltuari come collaborazioni giornalistiche, ma anche tutto quello che capitava. A giugno dovevamo lasciare la casa in affitto e la casa nuova non era ancora pronta: in particolare, mancavano gli infissi, che arrivarono solo a settembre.
Molti di voi sanno quanto stress comporta ristrutturare casa: molti degli artigiani che ho incontrato erano solerti nel proprio lavoro, quanto poco precisi nei preventivi, nelle tempistiche, nella burocrazia. E c’erano continuamente soldi da pagare: il notaio, la banca, i materiali, gli artigiani, gli allacciamenti. Eravamo stremati.
Io e le bimbe passammo qualche mese accampate da mia madre, mentre il loro papà, più sportivo, dormiva già nella casa nuova, senza infissi e senza cucina. Tutti i nostri oggetti erano stipati in degli scatoloni nel garage di un amico, che dopo qualche mese ebbe naturalmente bisogno di liberarlo.
Non avevamo un soldo, e io e il papà delle bimbe eravamo arrabbiati l’uno con l’altro perché non ci stavamo garantendo una vita dignitosa. Solo tre anni prima eravamo due innamorati che vivevano a cinquecento chilometri di distanza, e ora c’erano tre figlie piccole, troppe spese, un mutuo ventennale che era più che una promessa matrimoniale, e, al momento, nessun tetto sopra alla testa.
Facemmo quello che c’era da fare, cioè tener duro, fino al momento nero successivo, che fu la morte di sua sorella, dopo un anno: l’ultima sofferenza che vivemmo sotto lo stesso tetto.
Io lasciai momentaneamente i lavoretti che non mi portavano abbastanza denaro, e andai a chiedere al gelataio del paese di assumermi come cameriera ai tavoli. Una collega ad agosto partiva per le ferie e mi chiese se potevo prendere il suo posto come ragazza delle pulizie.
La mia estate procedette in questo modo: mi svegliavo alle 7 per portare le bimbe al nido fino a fine luglio; alle 9 tornavo a riposare un paio di ore; alle 13 le andavo a prendere perché Carolina era entrata come part-time; le portavo da mia madre a pranzo; andavo a fare le pulizie; nel tardo pomeriggio passavo dalla nostra nuova casa a vedere come procedevano i lavori, a volte aiutavo a spostare sacchi e macerie, e alle 7 andavo a fare la cameriera, in media fino all’1, le 2 di notte, tutti i giorni. A volte, dopo il servizio, con gli altri camerieri ci fermavamo a chiacchierare, a ridere di un avventore idiota, a lamentarci della nostra condizione.
A me angosciava soprattutto il pensiero che non mi sarei aspettata, a venticinque anni e una laurea, di fare pulizie, avere tre figlie e dormire nel letto con mia madre.
Fu una bruttissima estate: la mia relazione cominciava a incrinarsi; il lavoro ancora non decollava; le bambine, per quanto stupende, mi stremavano.
Poi le cose pian piano cominciarono a sistemarsi, una dopo l’altra.
Dopo vent’anni passati a cambiare appartamento ogni volta che mamma era rimasta troppo indietro con il pagamento degli affitti, stavo per possedere una casa mia: una casa dove ogni singolo mattone avrebbe rappresentato un sacrificio. Una casa dove sotto alle piastrelle, mio zio, che colava il cemento il giorno in cui nonna ci lasciò, scrisse “ciao mamma”. Una casa dove sotto all’intonaco dell’ingresso c’è scritto, con la bomboletta: “Vale ti amo”.
Una casa dove sarei stata finalmente felice di tornare ogni sera; una casa che, tornata dalle vacanze, avrei avuto voglia di rivedere, come fosse una persona. Una casa dove le bambine avrebbero potuto anche disegnare le porte, e non ci avrebbero cacciato o chiesto i danni, per questo.
A settembre montarono gli infissi. La ditta dimenticò la porta del bagno. Trovai un buon lavoro. Ripresi a scrivere. Le gemelle cominciarono la scuola materna.
Ci giurammo che sarebbe stato per sempre. Fu un anno bellissimo.
Cercavo idee per ristrutturare una casa che ancora non ho…
Ho trovato una scrittrice che sa regalare emozioni.
Un groppo in gola anche qui per tante ragioni. Grazie, Vale
Mi hai fatto venire voglia di una casa dove sotto all’intonaco dell’ingresso ci sia scritta una frase romantica con la bomboletta. Temo che non l’avrò mai.
Mi piace molto quella frase sul mutuo ventennale che è più vincolante di una promessa di matrimonio. Se penso a quanti matrimoni durano vigliaccamente solo perché c’è un mutuo penso che dovrebbero obbligarci sempre a farne due distinti, uno per il marito ed uno per la moglie.
Ma queste mie parole non hanno senso, è solo per riuscire a “sgroppare” le budella dopo aver letto il tuo bellissimo post.