La distanza tra Milano e Baltimora

Tutti abbiamo reagito ai fatti di ieri a Milano. Tutti abbiamo reagito condannando e tutti abbiamo reagito dalla distanza delle nostre case, che siano chilometri o solo poche decine di metri dai luoghi della devastazione.

Foto di Remo Cassella utilizzata con licenza Creative Commons
Foto di Remo Cassella utilizzata con licenza Creative Commons

Ma ci sono reazioni sulle quali riflettere:

  1. che si chiamino a raccolta i genitori.
    Come JK Rowling disse in un bellissimo intervento alla cerimonia di conferimento delle lauree ad Harvard qualche anno fa (ve lo consiglio, è da pelle d’oca) esiste una data di scadenza sulla recriminazione verso i genitori quando le cose vanno male, sia per noi stessi sia per gli altri.
  2. che si chiamino a raccolta le “mamme”,
    certo ispirati dalla mamma del ragazzo di Baltimora che prende a ceffoni il figlio mentre prende parte alla dimostrazione.
    Alla fine di un bellissimo mese su genitoricrescono sulla questione di genere e di generi, mi pare una chiosa interessante e cruciale: evidentemente, non siamo ancora pronti ad affrontarla del tutto, la questione di genere, lo siamo forse a livello intellettuale, ma “di pancia” quando arriviamo al dunque, no, non lo siamo.
  3. che si chiami ad esempio la mamma di Baltimora.
    Questo è forse il simbolo della incompletezza con cui a volte digeriamo le notizie, senza approfondirle, nella bulimia dello stato sul social che tutti approvano e rilanciano.
    La mamma di Baltimora non era alterata perché il figlio stava combinando di tutto e di più, no. Era terrorizzata che la polizia di Baltimora le ammazzasse il figlio. Lo era con certo grado di supporto dai fatti: se sei un ragazzo di colore la probabilità che la polizia ti becchi è molto molto maggiore che se sei un ragazzo bianco; anche se non hai fatto niente e passavi per caso. Una volta che ti punta, la probabilità che la polizia ti spari è anche molto maggiore se sei nero, piuttosto che bianco. I ragazzi lì a Baltimora dimostravano proprio contro un episodio del genere: “non voglio che tu sia il prossimo Freddie” questo diceva la mamma di Baltimora prima di portare via il figlio dal tafferuglio, e nello spavento del momento ha reagito con i ceffoni. Cosa di cui si è poi prontamente pentita, come traspare dalle varie interviste rilasciate dopo. Anche per il fatto che la polizia le ha addebitato (al figlio e quindi a lei) un conto danni che non si potrà permettere mai, né in questa vita né nella prossima.
    Ma certo l’icona della mamma che trascina il figlio per la collottola ancora ci piace troppo per non accoglierla come icona, appunto, senza approfondire.

Credo sia naturale e comprensibile, e lo sono anche io, essere sconvolti dai fatti di Milano. Ma in un mondo globale, in un mondo in cui vogliamo essere da esempio per i nostri figli, dobbiamo, e mi rendo conto i miei post si concludono sempre nello stesso modo, ma tant’è, dobbiamo dicevo puntare all’integrità, alla testa, non alla pancia.

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4 thoughts on “La distanza tra Milano e Baltimora”

  1. Anche io ho chiamato in causa Toya Graham, era un’alternativa diplomatica per dire che se potessi, ci andrei io personalmente a prenderli per la collottola e trascinarli via a ceffoni. Mi fermo con questo commento perché forse per un blog di genitori andrei fuori tema.

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    • Close, grazie per il tuo commento, ci tengo a sottolineare che non voglio e non volevo parlare dei fatti di Milano e di cosa andrebbe o non andrebbe fatto e detto ai dimostranti, così come il problema per me non è tanto chiamare in causa Toya Graham, ma questa, leggerezza? nell’ipotesi di isomorfismo fra la mamma di Milano e la mamma di Baltimora, l’immedesimazione funziona solo fino ad un certo punto, anzi si ferma quasi subito in realtà. Ho appena finito di leggere un libro molto bello, The Fortress of Solitude, di Jonathan Lethem, e nelle ultime pagine ho trovato questa perla: “‘What age is a black boy,’ Dylan asks himself, ‘when he learns he’s scary?’ “. Questa è la differenza profondissima fra le due situazioni, e questo è quello per cui, mi scuso con chi legge, ho sussultato un paio di volte ieri sui social quando la mamma di Baltimora è stata chiamata in causa. Se ti va, posso suggerirti questo TED talk?
      http://www.ted.com/talks/clint_smith_how_to_raise_a_black_son_in_america

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      • Grazie Supermambanana. Certo la differenza fra le due situazioni non mi sfugge, diciamo che se al ragazzo di Baltimora non posso dare torto per la rabbia che cova, qui invece mi sembra di essere di fronte semplicemente a un manipolo di esaltati senza causa, che stanno facendo – come sempre dal 2001 in poi – il più grande favore a chi vuole favorire reazioni autoritarie. Sono però del parere che, anche se la causa è differente, quando il linguaggio della contestazione è lo stesso ci sono evidentemente alcune analogie fra i due fenomeni. Mi collego al post di due giorni fa “Dalla parte dei bambini (maschi)”.
        C’è chiaramente un problema con l’autorità, che non può e non deve essere rappresentata unicamente dalla polizia. Forse è solo una coincidenza il fatto che Toya Graham sia rimasta da sola a tirare su 5 figli e quindi poteva essere solo lei a prendere a ceffoni il figlio. Ma ecco a me torna insistentemente in mente il film “La Haine” di Mathieu Kassovitz in cui il conflitto è fra degli adolescenti maschi e degli adulti che sono sempre solo poliziotti. Ci sono donne, sorelle, madri, nonne. E nemmeno un padre. Mai.
        Sono anni ormai che si scrive che viviamo in una società senza padri, e questo temo che sia un denominatore comune fra Milano e Baltimora, al di là di qualche click frettoloso via Twitter.

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        • P.S. Sto guardando il TED talk, e più vado avanti più mi convinco che la condizione femminile e quella dei neri abbia straordinarie somiglianze.

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