Correva l’anno 1993.
Lo ricordo bene perché non c’erano i mondiali e perché ero in quarta invece che in quinta.
Mi avevano bocciato il giugno precedente.
Per me era stata una grandissima ingiustizia e non l’avevo presa bene. Non tanto perché non la meritassi (che ad un certo punto, verso i primi di maggio, mi ero proprio arreso e in mona tuti) quanto perché la bocciatura in quarta era una stigmate che mi sarei portato dietro per tutto il resto della vita: chi veniva bocciato era un somaro, un fallito. In più nell’altra classe c’era Lei e me l’avevano portata via assieme all’amore platonico più devastante e assurdo di tutta la mia vita.
I miei genitori pure, anche se con gran dignità, l’avevano vissuta male: si sentivano sulle bocche di tutti; erano quelli del paesino che avevano insistito perché il figlio facesse il liceo invece che una normalissima scuola professionale o un istituto tecnico. Cosa si pensavano? Di essere dottori?
In più in quarta non bocciavano nessuno mai, che pirla.
Dicevano che ero uno sbruffone, che non rispondevo e che avevo un’aria di sufficienza in classe. Lo dicevano a mio padre quando andava a colloquio. E a lui, come a me, pareva impossibile: tutto ero sempre stato fuorché una persona poco rispettosa degli altri.
Ero timido, impacciato, inadeguato; possibile che nessuno lo capisse? Ovviamente non lo avevo capito nemmeno io, a me pareva naturale comportarmi così; sicuramente tutto passava per la mia testa fuorché l’idea di non voler portare rispetto agli adulti.
Eppure pareva proprio così. Il parere in quel consesso di persone formate e incaricate di curare la mia crescita era unanime. A parte la Azza, prof di Italiano e Latino che era stata la principale sponsor della mia bocciatura, l’ultima della sua famigerata carriera, prima di andare in pensione.
Lei nella mia bocciatura ci aveva creduto, è stata forse l’unica che l’aveva agita per quello che dovrebbe valere sempre: un’opportunità. Per lo meno è stata l’unica che abbia avuto il coraggio di dirmelo.
Venne a bussare un giorno di ottobre; era stata a trovare l’ultima classe di suoi ex allievi in quinta ma ne mancava uno: Gaetano, in quarta. Mi chiamò proprio per nome, quel giorno in corridoio; non lo aveva mai fatto prima. Io ero inca*ato nero con quella vecchia str**a e non ci avrei voluto parlare. Anche solo il ricordo mi fa incassare il collo nelle spalle come quel giorno là.
Mi chiese come stavo, bene (figurati se ti dò la soddisfazione di dirti “male”), disse che lo avrei capito, che era un’opportunità e non una punizione, che non avrei mai dovuto pensare di non avere le qualità ma che semplicemente ero arrivato in affanno e mandarmi a settembre avrebbe significato togliermi tutte le energie che poi in quinta e per la maturità mi sarebbero mancate. Che con il tempo avrei capito che, davvero, lo aveva fatto per me. “Lo abbiamo fatto per te, capito Gaetano?”
Credo che si sia accorta che avevo gli occhi lucidi, mi ha salutato e se n’è andata. Non l’ho rivista mai più.
Cambiai completamente registro comunicativo: invece che chiudermi mi aprii; forse aprii troppo: ironia e sarcasmo diventarono quasi le uniche forme di comunicazione. Iniziai a divertirmi sul serio e, nella tipica miopia adolescenziale, mi sembrava che pure i professori si divertissero.
Non sempre però.
Sul Giornale di Vicenza c”era la pagina dello studente. Non proprio un social network, chiedeva sforzo: bisognava scrivere e spedire per posta. Molto sullo stile “Gialappa’s band” ad onor del vero con rubriche che assomigliavano molto a quelle popolari di Mai dire Gol. Assieme a Pippo, compagno di banco insospettabile (pensate che lui arrivava dal seminario che doveva andare prete), raccogliemmo tutte le frasi strampalate che i professori dicevano e le inviammo alla rubrica “Verba Manent”. Non potevano non pubblicarle, erano esilaranti.
Erano anonime, innocue.
Felicissimi di essere finiti sul GdV, per quanto in forma anonima, fotocopiammo l’articolo e lo appendemmo alla porta della classe; ero quello che era stato bocciato che aveva un pezzo pubblicato sul giornale… già mi vedevo a limonare duro con le fans in Piazza Matteotti.
Invece il giorno dopo entro il professore di Filosofia che era anche vicepreside: “Chi è stato?”
Ero talmente sicuro di non aver fatto nulla di male che alzai la mano subito. Con un sorriso mezzo nascosto dai baffi disse: “Buson, lo immaginavo. Ti è parsa una buona idea, mettere alla berlina i professori?”
“È anonimo, prof”.
“Sulla porta della nostra classe?”
Ci rimasi davvero male, non avevo la minima intenzione di ferire nessuno. Quel giorno iniziò a maturare la consapevolezza che alcune persone sono fragili e nella vita in qualche modo richiedono protezione. Non sta scritto da nessuna parte che non possano essere anche insegnanti. Mi alzai e tolsi l’articolo dalla porta. Mi sembrava di essere Franti.
O Bassano, uno dei protagonisti di un video che gira in questi giorni su una classe che “bullizza” una povera professoressa incapace di gestire una classe in un climax di mancanza di rispetto.
Tutti a dire di quei ragazzi e non è più come una volta e ma i genitori e il preside che lascia lì la prof e il ministero e piove governo ladro. Si, tutto giusto, se pensiamo ad un sistema con una sola variabile.
Ma mi chiedo se il povero Bassano ha la fortuna di avere due prof o due educatori o anche due adulti di riferimento (non necessariamente i genitori) come li ho avuti io, che lo chiamino per nome e non cerchino di punirlo ma di fargli capire che si, quella prof magari non dovrebbe insegnare ma non per questo merita di essere sbertucciata da chiunque.
Finché continueremo a “risolvere” il problema imputandolo ai social o a qualcun altro, perdiamo un’occasione per fare qualcosa di utile per questi ragazzi che hanno ancora bisogno di noi, anche se non ci chiedono più aiuto.