Cosa possiamo fare noi genitori per combattere il razzismo e favorire l’integrazione? Proviamo a concentrarci su un piccolo semino alla volta.
Scusate ma ho la crisi dello scrittore. Curioso fenomeno che, evidentemente, può colpire anche i non scrittori come me. Sarà il retaggio del tema in classe: se c’è un tema, vado in panico. L’unico che ricordi essere andato bene in tanti anni di scuola è stato un tema di quarta liceo dove dal ritrovamento di una fantomatica lapide in latino, si doveva inventare una storia. Lo scrissi di getto e l’anziana prof di Italiano (Bravissima) che di solito mi demoliva, me lo riconsegnò dopo la correzione, elogiando il mio componimento e dicendosi rammaricata che i programmi scolastici non permettessero di “svisare” più spesso in esercizi di creatività come quello. La cosa più interessante era che avevo persino tradotto correttamente la lapide in latino, materia che, se esistesse una all of fame dei somari, mi vedrebbe certamente nella top ten mondiale.
Perché sono partito da questo aneddoto?
Perché a volte sono tentato di dire che la scuola ed i professori non hanno mai capito niente e mi hanno sempre segato e adesso invece guarda qua, che ho un bel lavoro e scrivo pure su qualche blog. Ma non lo dico. Primo perché, anche se scrivere mi sta dando soddisfazione, non sto facendo nulla di particolarmente degno di nota e lavorare è pure un dovere; secondo perché in realtà la vecchia prof, con quella restituzione, un semino lo aveva messo. In qualche modo mi aveva dato un segnale, magari in codice, che diceva: non sei tutto da buttare, devi solo trovare la tua strada, il tuo stile. Lei lo aveva capito. Ed io mi ricordo di più quel piccolo episodio che le decine di insufficienze che mi ha dato.
Così oggi, mettendomi davanti allo schermo, ho pensato che avrei scritto una schifezza, come quei temi che mi vergogno di rileggere, invece poi è successo un fatto: mia moglie è stata eletta rappresentante di classe.
Mia moglie, dovete sapere, sognava di diventare Segretario generale delle Nazioni Unite. Lo diceva alle elementari, dice mia cognata. Non è mai stata una che si accontenta di poco, mia moglie e, anche se la vita l’ha portata altrove, l’ideale umanitario le è rimasto; così, al Primo Consiglio di Istituto, se ne esce con la proposta che invece di raccogliere fondi per il gelato a fine anno o altri corollari carini ma comunque non fondamentali, il consiglio di istituto potrebbe promuovere percorsi di sostegno degli studenti stranieri e di alfabetizzazione dei loro genitori.
Entusiasmo da parte di una insegnante in particolare: in effetti i bambini di origine straniera sono immancabilmente indietro, sono poco seguiti a casa (d’altro canto se i genitori non conoscono bene l’Italiano è abbastanza comprensibile) e rallentano in modo inevitabile la classe.
Eh ma sarebbe bello fare qualcosa per i nostri.
Nessuno lo ha ancora detto, in questo contesto, ma verrà detto, speriamo almeno apertamente.
Si tratta di andare a definire chi siano “i nostri” visto che i contributi vengono chiesti anche ai bambini stranieri.
Poi io vedrei due motivi, uno più pratico, l’altro più valoriale:
Quello pratico è quello già evidenziato dalla maestra: se tutti stanno al passo, tutti apprendono di più. Tra ghettizzare le persone che fanno più fatica e cercare di metterle in condizione di recuperare, io scelgo la seconda. Sempre.
Il motivo più valoriale si sposa con il recente triste anniversario degli attentati di Parigi. Facile dire “je suis”, ma cosa ci ha lasciato in eredità quell’episodio?
A me personalmente, pensare che un gruppo di ragazzi, nati e cresciuti in quella città, si arma per andare ad ammazzare dei coetanei, non so, mi fa pensare che qualcosa si poteva anche fare. Magari erano stufi di andare nell’altra classe con l’altra maestra, di non essere invitati ai compleanni semplicemente perché i loro genitori non avevano whatsapp, l’email o che so io.
Sicuramente la semplifico troppo, ma mi piace pensare che il mondo dei nostri figli potrà essere migliore e meno a rischio se saremo capaci di fare i nostri compiti per casa, se riusciremo a piantare anche nelle persone che adesso viviamo come un problema quel semino di speranza di potercela fare come la mia vecchia prof fece con me al liceo.
Magari potremmo sperare che un giorno, davanti ad un bar frequentato da coetanei, si ricordino di quel piccolo segnale di apertura e non di tutta la merda che circola su social e giornali e magari in quel bar, ci entrino solo per bere in compagnia.
p.s. ho la certezza di vivere in un paese che non è particolarmente all’avanguardia nelle politiche di integrazione scolastica e civile, se qualcuno ha la fortuna di conoscere/vivere buone prassi in tal senso, non lesini consigli, scambi idee, faccia sentire la propria voce.