L’epifania è arrivata un martedì mattina, mentre facevo la fila per il rinnovo dell’abbonamento al trasporto scolastico. C’erano solo sei persone davanti a me, ognuna col proprio numeretto in mano; in cinque minuti sarei stata fuori.
O meglio: avrei potuto esserlo se un uomo, un padre, non avesse deciso di posizionarsi – gambe divaricate, piedi ben piantati a terra – esattamente sotto il portone di uscita, impedendo a me di andarmene e alle persone dietro di lui di entrare. Abbiamo atteso pazientemente che si spostasse poi, visto che non accennava a farlo, gli ho chiesto di farmi passare. Lui non si è mosso. A quel punto mi sono fatta largo andando a sbattere contro di lui, che però è rimasto immobile lasciandomi perplessa e infastidita per quell’arroganza ostentata di chi pensava fosse permesso posizionarsi proprio lì, sotto l’unica porta di accesso.
Una volta in macchina ho ricordato di aver vissuto una scena simile la settimana prima negli uffici dell’anagrafe cittadina, dove una donna aveva bloccato l’accesso rimanendo in attesa lungo il corridoio stretto e costringendo le persone a fare slalom per poter passare.
Poi, a cascata, m’è venuto in mente che due sere prima, nel locale in cui io e mio marito andiamo talvolta a bere e rilassarci, un uomo aveva spalancato con forza la porta di ingresso e preso rapidamente posto al tavolo mentre la porta, richiudendosi senza essere accompagnata, era andata a sbattere sul viso della donna che camminava dietro a lui. Ci ero rimasta male, mi ero scusata come se fosse dipeso da me.
Per il misterioso potere della sincronicità, nei giorni successivi i miei contatti nei social avevano cominciato a lamentare episodi di quotidiana inciviltà: il motociclista che parcheggia sul marciapiede dove vorresti camminare, trattandoti male se glielo fai notare; l’autista che ti taglia la strada e risponde al tuo clacson alzando il dito medio; la signora che salta la fila entrando nello studio del medico mentre stai aspettando il tuo turno, lasciando intendere dall’espressione impettita che può farlo.
Riflettendo sugli episodi di ordinaria maleducazione avevo pensato a quanto andassero sprecati quegli appelli alla gentilezza che leggevo nei social, accorati eppure costantemente disattesi quando si trattava di calarli nella vita quotidiana, così refrattaria agli “atti privi di senso”. Eppure in quelle mie riflessioni avvertivo una stonatura, come se vi fosse uno scarto tra il mio pensiero e quello che invece avrei voluto dire.
Poi, ho capito.
La gentilezza non bastava, volevo qualcosa di più, volevo le buone maniere. Volevo sorrisi, buongiorno e buonasera, volevo i “per favore” e i “grazie”. Volevo gente in grado di mangiare nei ristoranti senza costringerti ad alzare la voce per farti ascoltare da chi ti sedeva a fianco, e persone che sapessero reggere la porta per consentire agli altri di entrare e uscire; volevo uomini e donne che considerassero disdicevole occupare posti liberi con le proprie giacche, e bambini capaci di dare del Lei.
Appena messi a fuoco questi pensieri, mi ero subito preoccupata: non mi sfuggiva un sottotesto anacronistico e vagamente fasssista, ma tant’è: ero cresciuta con una nonna che mi imponeva di mangiare con i libri sotto le ascelle per mantenere un aspetto composto a tavola e che non mi perdonava alcuna sguaiatezza, e mille anni dopo ero costretta a riconoscere che aveva ragione lei.
Non è facile insegnare le buone maniere oggi, soprattutto quando si tratta di norme comportamentale codificate in un’epoca che non prevedeva uguaglianza né parità, ma credo che molto possa essere salvato. Ho cominciato subito a imporre in famiglia quello che pretendevo agli altri e così sono diventata pedante: ho costretto i ragazzi a reimparare l’uso corretto delle posate, a tenere il tovagliolo sulle ginocchia, a ringraziare prima di alzarsi dopo ogni pasto; a tenere in ordine le proprie cose; a offrire l’ultimo pezzo di torta all’altro; a lasciare parlare l’interlocutore prima di prendere il discorso; ad ascoltarlo.
Banalità, certo. Eppure.
Quando i bambini sono piccoli ci si preoccupa di insegnare loro le norme minime della convivenza civile; non ho ancora chiaro il momento in cui tutto questo si perde perché certamente si perde se poi da vengono fuori adulti così, tranquilli e serafici davanti a un portone sbattuto sulla faccia del loro compagno.
E siccome nemmeno io sono davvero preparata in materia come vorrei, nonostante gli sforzi della nonna, ho acquistato i miei manuali di approfondimento. Mi fermerò solo quando inizierò a ritenere opportuno indossare gonne a ruota cotonarmi i capelli – dunque, nel caso, fermatemi
Galateo & bon ton moderno (ma non troppo). Le buone maniere ieri e oggi di Giovanni Della Casa e Silvia Columbano
Il saper vivere di Donna Letizia
tu lo sai, vero che Scialba della Zozza sta scrivendo il suo manuale di buone maniere per signorine agée? non sei sola, sorella
Non vedo l’ora!! Scialba for president!
Di Donna Letizia ricordo sempre il complimento a bambini brutti: “ma che belle manine”.