Per affrontare il tema di questo mese abbiamo chiesto aiuto a una psicologa e psicoterapeuta che si occupa, tra l’altro, di sostegno alla genitorialità, orientamento scolastico e lavorativo, consulenze per l’ istruzione e la formazione: la dottoressa Elena Sardo. Lei ci parlerà di cosa c’è alla base delle teorie, degli “stili” genitoriali proposti in questo o quel saggio, o manuale, o in quella “filosofia” di accudimento di cui si sente tanto parlare. In fondo sono tutte poggiate su solidi principi di psicologia e magari, andando alla fonte, riusciremo a svincolarci dalle interpretazioni che ognuno ne ha dato.
Come sostengono molti autori, tra cui G. O. Gabbard (professore di Psicoanalisi alla Karl Menninger School of Psychiatry, analista supervisore al Topeka Institute for Psychoanalysis e professore di Psichiatria all’University of Kansas School of Medicine of Wichita) “il processo evolutivo è un’interazione attiva fra tratti ereditari e fattori ambientali che modellano questi tratti”: in parole povere, possiamo dire che, il bambino ha delle capacità innate, che lo porteranno a strutturare il proprio mondo interno, la propria personalità e il proprio pensiero, che però si attivano solo all’interno della relazione, cioè in presenza dell’adulto.
La psicologia, che ricordiamo nasce come studio delle facoltà mentali e dei processi percettivi (Galimberti – 1992), e quindi non è prescrittiva come la pedagogia, si è occupata anche di osservare come sono e cosa fanno i genitori in questa relazione.
Lo psicoanalista John Bowlby, ad esempio, traendo numerosi spunti dallo studio dei legami tra gli animali, il loro comportamento sociale, la protezione dai predatori e le interazioni madre-cucciolo, integrò il modello psicoanalitico classico e pubblicò tra il 1958 e il 1963 i propri studi sull’influenza di diverse forme di esperienze familiari sullo sviluppo del bambino.
Secondo Bowlby, esseri umani e animali sono accumunati dalla necessità/bisogno e dal piacere di stare vicini: un soggetto si senta bene quando si trova vicino a chi ama, e si senta invece ansioso, triste e solo quando si trova lontano dai propri oggetti d’amore.
Il suo modello prevede che per ogni individuo siano possibili più linee di sviluppo, il cui risultato finale, i diversi “stili d’attaccamento”, dipende dall’interazione dell’organismo con il proprio ambiente; diventa quindi centrale la qualità dell’accudimento, intesa come disponibilità e capacità di risposta materna: la figura primaria di accudimento (che non è necessariamente la madre) ha una funzione non solo di nutrimento fisico, ma anche psichico e di contenitore delle emozioni del bambino, a cui fornisce una base sicura.
Secondo Bowlby, le interazioni tra madre e bambino, iniziano già durante la gravidanza (e vanno dall’abbraccio allo scambio di sguardi, alla nutrizione, alla consolazione ecc.) e strutturano ciò che viene definito come “sistema d’attaccamento”, il sistema che guida, e guiderà anche nella vita adulta, le interazioni e gli scambi relazionali affettivi.
La funzione di base sicura, nei primi anni di vita viene dunque assolta fisicamente dalla mamma (o figura primaria di accudimento) per divenire, in seguito, attraverso l’interiorizzazione, una struttura interna capace di consolare e proteggere: in questo modo il bambino, e poi l’adulto, può sentirsi libero di allontanarsi e differenziarsi gradualmente dalla mamma ed iniziare ad esplorare il mondo esterno, con la sicurezza di poterla ritrovare al suo ritorno; questa struttura interna gli permette, inoltre, di stare solo con se stesso, poiché consente di dare al Sé del bambino un vissuto di unità e di continuità.
Lo sviluppo della personalità risente, dunque, della possibilità o meno di aver sperimentato una solida base sicura e ogni individuo possiede un particolare stile d’attaccamento, frutto della propria esperienza infantile, che caratterizzerà le sue interazioni/relazioni affettive e, dal momento che struttura la fiducia in sé e la conseguente capacità di dare a propria volta sostegno, influenzerà a sua volta lo stile d’attaccamento del proprio bambino (lo stile d’attaccamento può comunque modificarsi nel corso della vita, attraverso interazioni affettive significative, che permettono all’individuo di introiettare la funzione di base sicura, che non ha potuto ricevere dalla propria madre.).
Qualsiasi maternage è atto a sviluppare l’attaccamento sicuro nel bambino perché è un comportamento innato e perchè qualsiasi mamma sana di mente (il “sufficientemente buona” di Winnicott), fa ciò che è giusto fare, per istinto!
– di Elena Sardo, psicologa e psicoterapeuta –
(*foto credits rachelsbabies usata in creative common licence)
@Elena, allora aspetto il prossimo. E sono curioso di leggere per l’ennesima volta a quale “crisi della figura paterna” mi dovrò confrontare… (ps. e pensare che mia nonna diceva che i figli si fanno in due…).
Closethedoor torneremo anche su questo tema! Perchè è importante. Certe correnti di pensiero prescrittive perdono di vista il fatto che l’obiettivo dei genitori è quello dell’autonomia dei figli e perdono anche di vista che gli esseri umani sono tutti portatori di bisogni e crescere vuol dire trovare l’armonia tra il soddisfacimento dei propri bisogni e di quelli degli altri: questo aspetto lo si impara proprio nelle relazioni primarie, perchè la mamma non è solo mamma è anche altro e l’abnegazione per il neonato dopo un po’ deve fare spazio agli altri aspetti della vita della persona-mamma. Ma non solo: anche il bambino non è solo “il bimbo della sua mamma”, ma è un essere sociale che ha bisogno degli altri e della relazione con gli altri.
Adele, non esiste la perfezione…solo Dio è perfetto, per chi ci crede. Adler direbbe che noi esseri umani aspiriamo alla perfezione, cioè tendiamo a migliorarci e a dare il meglio di noi; ma direbbe anche che chi persegue “la perfezione” in senso stretto è nevrotico…il “sufficientemente buona” di Winniccot è un concetto bellissimo, perchè dice proprio questo: che qualsiasi madre non psicopatologica, fa per istinto ciò che è bene per i propri figli. Quindi vuol dire, non solo che si può sbagliare, senza fare danni, ma che è giusto essere fallaci, perchè insegnamo ai nostri figli che gli esseri umani non sono perfetti, gli insegnamo che si deve cercare di dare il meglio di sè e facendolo si può sbagliare, ma non succede niente di grave!
E quello che conta è la molla che ci muove: l’amore.
Tullia, il titolo non l’ho scelto io, io avrei messo “L’Attaccamento” 😉
Vittore…mi vuoi far anticipare i tema del prossimo articolo? 😉
In linea di massima, la figura paterna, il papà, detto in modo semplicistico e non esauriente (ma, appunto, non voglio anticipare il prossimo articolo) è inizialmente il sostegno alla madre nell’assolvere questo compito (ma vedremo che non fa solo questo. Poi col passare dei mesi si inserisce sempre più nella relazione col bambino fino ad arrivare ad espletare una funzione, quella paterna, cruciale per lo sviluppo di una sana personalità (anche se vedremo che c’è un po’ una crisi della figura paterna in questo senso)
Spero di aver comunque risposto un poochino alla tua domanda.
Mi collego al commento di Tullia, ho letto anch’io i libri di Sears che per i miei gusti sono parecchio prescrittivi e rigidi sui punti classici dell’Attachment Parenting (allattamento prolungato, fascia, presenza della madre o care giver da 0 a 3 anni, co-sleeping). Ricordo in un forum un intervento allucinante della moderatrice che cercava di bloccare gli insulti ad una poveretta che pur dichiarandosi “AP mother” non praticava il co-sleeping. Negli USA per quel che ho visto, spesso adottano approcci educativi come fossero religioni e guai a cambiare.
Insomma,dopo la nascita di mia figlia ci siamo trovati a fare spontaneamente senza ancora aver letto nulla – con nostre personalizzazioni- cio’che l’Attachment parenting prevede, anche perche’e’compatibile con il nostro stile di vita; pero’ ho decisamente preferito l’approccio morbido di Gonzales (Besame mucho), che -se non sbaglio- cita molto spesso Bowlby.
P.S.
“Allora o sono io che non ci ho capito nulla, o l’AP come ci viene divulgato … è cosa totalmente diversa da quel che è in realtà.”
Il che, dimenticavo di aggiungere, sarebbe un’ottima notizia 😉
Bello e atteso questo articolo di Elena che conosco – almeno virtualmente – e stimo. Un solo dubbio: mi risulta che per “attachment parenting” si intenda un modello pedagogico elaborato dal pediatra William Sears. Un modello prescrittivo, che cioè individua e consiglia alcune “buone pratiche” di accudimento, a differenza dell’approccio proprio della psicologia, che, come ci spiega Elena, studia, ma non prescrive. Questo articolo mi pare invece parlare di alcune teorie che in parte sono alla base dell’attachment parenting, ma in parte si discostano anche da esso, per esempio sul ruolo della figura materna, considerata dall’AP insostituibile e non interscambiabile o sovrapponibile con quella paterna. Le stesse teorie sono, mi sembra, anche alla base di modelli pedagogici completamente diversi dall’attachment parenting quando non apertamente contrari. Allora o sono io che non ci ho capito nulla, o l’AP come ci viene divulgato (madre presente ed esclusiva fino a 3 anni, contatto continuo, allattamento prolungato ecc. ma soprattutto l’idea che solo se fai queste cose farai bene) è cosa totalmente diversa da quel che è in realtà.
@Supermambanana; ho notato proprio quello che hai sottolineato. Con ogni figlio, mia moglie è tornata al lavoro molto presto ed io ho passato molto più tempo con loro. Tanto che nei primi anni al risveglio notturno non chiamavano mai mamma, ma papà. Non si tratta di rivendicare un ruolo (quello del padre) ma di agganciare talune teorie alla realtà, che a volte si dimostra diversa…
Ecco, ci siamo incrociate con Supermambanana (eh, noi expat), infatti la mia impressione, forse sbagliata, è che con “altre figure di accudimento” si pensasse in genere alla tata, zia, nonna o matrigna di povero bimbo orfano con padre vivo, o sbaglio?
Anche io come close mi trovo in difficoltà su una cosa in particolare, e mi collego al commento di Vittore. Nonostante si precisi (Vittore, noterai) nel testo “la figura primaria di accudimento (che non è necessariamente la madre)”, trovo però che nel declinare la funzione di questa “figura primaria di accudimento” si faccia sempre riferimento a caratteristiche che non possono non essere materne, ed è sempre la madre ad essere esemplificata (appellarsi all’istinto materno o al legame che parte in gravidanza sono solo esempi di questa attitudine). Mi chiedo quindi se le figure altre di accudimento, il padre in particolare, non siano troppo marginalizzate a “second best”, quelle che, solo in mancanza, per motivi vari, della madre, possono sopperire. E non invece come figure di accudimento “di prima scelta”. Mi chiedo se le teorie normalmente citate in questi casi non andrebbero rinfrescate alla luce degli ultimi venti anni, anni in cui il ruolo del padre-che-cura non è più né un’eccezione, né un ripiego, ma una scelta propositiva. Magari ce ne sono di teorie più “moderne” che tengano in conto che il padre accudente non può più essere ignorato o considerato di nicchia?
Quando è nato mio figlio io ero depressa e tre giorni dopo lavoravo di nuovo e mio marito è stato licenziato, ergo la figura di accudimento secondo me ce la siamo divisi bellamente in due, ma lui nel frattempo accudiva anche me.
La domanda che mi sorge è in che modo la teoria sugli stili di accudimento tiene conto della situazione attuale, in cui i padri sono sempre più presenti nell’ accudimento dei figli piccoli.
Per esempio, a me avevano regalato la Garzantina di puericultura che a me è sempre sembrata mammocentrica anche su cose che non hanno niente a che fare e che pertengono al mio campo di studi: per esempio sulle famiglie bilingui insistevano sul fatto che al bambino si insegna una lingua alla volta partendo da quella della madre, senza mai tener conto della lingua nel paese di residenza, nei ritmi di accudimento, in altre persone a stretto contatto con il bambino. No, la lingua materna è quella della madre, punto. Cosa che chiunque sappia di bilinguismo confuta da almeno 40 anni.
E avendo una famiglia allargata multilingue, basterebbe l’ esempio del mio nipotino di tre anni, che ha vissuto prima in Francia e adesso in Italia, parla italiano con la madre, francese con il padre non convivente e polacco con la tata e la nonna paterna. E se a molti questo sembra un esempio estremo, per me è il quotidiano. Allora, riportando il discorso a quanto detto, non è che l’ attaccamento in molte famiglie non passa più solo ed esclusivamente per la madre? Ci sono ricerche su situazioni più recenti?
Io ricordo che con figlio 1 avevamo fatto un corso di haptonomia proprio per lavorare sulla presenza e il riconoscimento del padre fin dalla fase pancia, e che nel nostro piccolo i risutati empirici ci dimostravano che il pupo scalciava e ‘rispondeva’ diversamente a seconda se il contatto lo avviavo io o suo padre o altre persone. Poi il nostro sarà stato wishful thinking, ma siccome in olanda e Francia l’ haptonomia è anche una pratica diffusa da un ventennio almeno, mi piacerebbe sapere se nessuno ha fatto ricerche in proposito.
Non so nemmeno se fare la domanda: periodicamente mi trovo confrontata con l’emergere della corrente di pensiero detta appunto “attachment parenting” che nella sua forma classica, almeno a me nota, propone la triade: allattamento a richiesta. fascia porta-bebè, co-sleeping, e a cui si aggiunge eventualmente il fatto che la mamma non lavori / lasci il lavoro finché il bambino non raggiunga l’età dei tre anni. Ho usato in modo non continuativo le tre pratiche indicate perché nei primi mesi me la sono goduta a tenermi in braccio la mia cucciolina, e perché quando è cresciuta abbiamo ammortizzato tanti cambiamenti con qualche notte nel lettone. Ma vederle proposte come delle pratiche senza le quali il bambino starà male mi rende scettica, anche se è soprattutto il 4° punto che attira di più la mia attenzione critica, per molti motivi non tutti legati al benessere della mamma ma anche a quello del bambino. Io stavo bene andando all’asilo perché avevo dei bambini con cui giocare e stavo bene avendo una mamma che lavorava perché non l’avevo sempre con me dato che quando stava con me mi correggeva continuamente. Pertanto confesso che faccio fatica a capire il desiderio di una mamma di voler passare 24 ore su 24 con i suoi figli. Non sto dando giudizi – né li chiedo – porto solo una testimonianza critica su un modello.
Qualche tempo fa ho partecipato a un incontro in cui si parlava di prevenzione dei comportamenti devianti nei ragazzi. La psicoterapeuta ha iniziato proprio con l’importanza della figura di attaccamento e della creazione di una base sicura, a cui il figlio potrà tornare dopo ogni allontanamento. In effetti nella nostra cultura, di solito, la figura di attaccamento primaria è la mamma, ma il papà avrà poi un ruolo fondamentale direi… Spezzare simbolicamente il legame simbiotico Madre-figlio e accompagnare il bambino nel mondo. A quanto pare, nessun bimbo può aspirare a una relazione d’attaccamento perfetta, ma una “sufficientemente buona” può bastare per cercare di prevenire un po’ di problemi ????
“la figura primaria di accudimento (che non è necessariamente la madre) ha una funzione non solo di nutrimento fisico, ma anche psichico e di contenitore delle emozioni del bambino, a cui fornisce una base sicura.”
“La funzione di base sicura, nei primi anni di vita viene dunque assolta fisicamente dalla mamma (o figura primaria di accudimento)…”.
… faccio fatica a capire come si integrano queste due affermazioni. Curiosità, semplice, di comprendere, in che modo si integra la figura del padre.