In generale la convivenza di prossimità con uno o più persone presenta degli aspetti delicati e del tutto inaspettati, che possono portare a situazioni di conflitto e tensione sempre caratterizzati da un fattore: mentre la questione è in corso nessuno ha la lucidità per comprendere quale possa essere la soluzione migliore. E’ certo che rimanere freddi e sopra le parti può portare a ritrovare svolte decisive oppure a valutare tutti i punti di vista ed eliminare la causa del contendere.
La mancanza di equilibrio e freddezza è nello sport il motivo principale di sconfitte o prestazioni sotto lo standard, buchi neri all’interno dei quali anche i migliori allenatori spesso si perdono.
Un atleta stanco e non allenato reagisce in modo errato allo stress e al momento di conflitto, fino ad arrivare a eseguire azioni completamente fuori da ogni abitudine e logica sportiva. Ciò non significa solamente che verrà persa la partita, o che si arriverà ultimi, o che i tempi saranno lontani dalla media, ma in molti casi potrebbe essere a rischio la salute fisica e manifestarsi un infortunio.
Per reggere il conflitto di una situazione negativa un atleta si allena: ripete movimenti specifici in condizioni negative, carica un peso maggiore, esegue azioni in un ambiente ostile, in modo da essere preparato e non farsi sorprendere da ciò che non conosce. Sacrosanto è il sostegno e la guida del coach, che ha il compito di preparare il corpo e la mente ad affrontare un insieme di elementi di disagio, i quali devo essere sapientemente dosati per non incorrere nel rischio opposto, ovvero overtraining e burnout, vere e proprie disfunzioni del sistema nervoso che si manifestano quando il corpo non è più in grado di recuperare lo stress fisico ed emotivo e non risponde più agli stimoli generati dall’attività fisica.
Ho trovato sempre molto utile applicare il metodo che ho imparato durante gli anni dell’attività sportiva; fin da piccola mi sono resa conto che quando trovavo le difficoltà più disparate e dovevo gestire i momenti di conflitto, perdere la pazienza o farmi prendere dal panico sarebbe risultato inutile. Ciò non significa che la disciplina sportiva dia sempre i mezzi per risolvere le situazioni oppositive o stressanti, non si diventa certo monaci con deriva zen. Più che altro ho cercato sempre di valutare in modo oggettivo che tipo di situazione mi si presentava davanti: è necessario applicare molto impegno, sacrificare la propria individualità e analizzare se esiste un fallo che va rimosso.
Anche nelle dinamiche fuori dalla palestra è possibile esercitarsi ed aspettarsi il momento peggiore; si possono adoperare metodi diversi, non necessariamente codificati o definiti all’interno di didattiche standard. Spesso è sufficiente adottare il buon senso e ridurre la propria presenza egoistica in modo da dare spazio anche alle esigenze della persona o del gruppo con il quale si entra in conflitto.
Non ho detto che sia semplice e nemmeno immediato, occorre allenarsi e avere un “coach” che possa essere di sostegno e guida, una persona cara di cui fidarsi che garantisca la sua imparzialità a monte e che ci aiuti a percorrere una strada di avvicinamento, in modo da poterci permettere di camminare da soli e affrontare il momento di conflitto in modo individuale e con le armi migliori.
Si insomma, proprio come dovrebbe fare un genitore con i figli. Non credete?
– di Lucia Busca –
(foto credits @ Marsyas – Affresco del palazzo di Cnosso)
Mi riallaccio al commento di Gae: è soprattutto perchè di campioni ce ne sono percentualmente pochissimi che la filosofia sportiva è ben applicabile alle situazioni fuori dalla palestra. Il campione ha molti mezzi in più: un corpo perfetto, consulenti molto preparati nei campi più disparati, la possibilità di sottrarsi al conflitto (a volte).
Lo dicevo ieri in un commento sui social: non perderò mai la speranza di vedere diventare lo sport materia scolastica, ora non lo è. Se solo si frequentassero i corsi sportivi dei bambini da 6 a 14 anni ci si aprirebbe un mondo nuovo a noi adulti disperati: la costanza, la capacità di reagire, la grinta che dimostrano i piccoli è salvifica e assolutamente didattica.
Morirò disperata, ma non mollo 😀
Post molto interessante! Devo premettere che ho sempre molto amato gli sport di lotta e contatto e mi sono sentita diversa per il fatto di volerli praticare in quanto femmina – che dovrebbe amare la danza e non dovrebbe essere violenta – mentre ho sempre sentito che lo sport di lotta ha molto da insegnare, al contrario, riguardo all’autocontrollo. Questa dell’allenamento al conflitto è illuminante, proprio pensando a un modo di litigare in cui perdi il controllo
Post molto bello. Diciamo che, non potendo diventare tutti campioni, l’educazione dello sport dovrebbe proprio servire a questo: bisogna capirne la metafora per riuscire a farla calzare alla vita.
Per me questo post di Lucia è molto importante e lo è per motivi strettamente personali.
Ho sempre un po’ snobbato la mentalità dello sportivo, che si allena duramente per un obiettivo che ritenevo quasi incomprensibile. Era il modo di ragionare di mio padre, con il quale sono entrata molte volte in conflitto e che ritenevo del tutto estraneo al mio modo di essere: pigrizia fisica, riscattata da molto movimento mentale.
Poi è arrivato mio figlio, in questo (e in altro) totalmente diverso da me. Uno che ragiona col corpo, che esprime se stesso nel movimento. Un bambino che attraverso le dinamiche dello sport ha imparato molto più che da mille parole, soprattutto sulla gestione del conflitto con gli altri e con se stesso.
E quello che spiega Lucia nel post io l’ho visto vivere in prima persona da questo bambino che non sapeva gestire la competizione e la frustrazione e che ora sta imparando, proprio passando attraverso la pratica concreta di uno sport e attraverso la sensibilità di un bravo allenatore. E così lui impara, ma imparo anche io a usare linguaggi diversi e mi accorgo che arricchiscono anche me.
Grazie per questo post.