A volte si ha paura di scoprire che i nostri figli non siano come gli altri. Eppure in alcuni casi una diagnosi ci permette di chiamare le cose con il nome giusto, e iniziare a lavorare per trovare una soluzione che permetta prima di tutto ai figli stessi di vivere meglio. Marzia ha deciso di raccontarci la sua storia.
Avete presente Masha? Quella bambina irrequieta e testarda, che vive in una casa sperduta nella taiga russa e che ha come migliore amico un orso? Difficile non trovarla simpatica, così curiosa e intraprendente, anche se con la sua vivacità combina spesso dei guai. Il più grande dei miei figli da piccolo era come lei. Saltava sui divani, correva dietro ad ogni insetto o animale che capitava nel suo campo visivo, non riusciva a bere un bicchiere di latte senza rovesciarne metà sul tavolo, parlava in continuazione, cominciava a un gioco dopo l’altro senza mai finirne uno. “Così sono i bambini”, ci dicevano tutti. Sì, pensavamo noi, ma non tutti i bambini fanno così sempre. Lui invece sì, dalle sette del mattino alle nove di sera, senza fermarsi mai. L’unica cosa di fronte alla quale si fermava era uno schermo acceso. A stare con lui un’oretta (due puntate di Masha, per intenderci) si divertivano tutti. Ma dopo un’ora non ce la faceva più nessuno. E poi all’asilo con i compagni non è che filasse sempre tutto liscio. Ogni tanto gli poteva venire in mente che la torre costruita con pazienza dagli altri fosse più divertente buttarla giù che starla a guardare, per esempio. Oppure fare ‘buh’ a qualcuno che non se l’aspettava proprio. O cose simili. Nella sua testolina non faceva in tempo a pensare una cosa che già l’aveva messa in atto, così che succedevano sempre più spesso cose di cui lui non aveva fatto in tempo a ponderare le eventuali conseguenze. E la sua popolarità tra i compagni di asilo non è che fosse proprio alle stelle. E neanche l´incolumità sua e degli altri, a dirla tutta. Perché non lanciare un oggetto dal quinto piano per vedere se riesco a colpire l’albero di fronte? Perché aspettare il semaforo verde prima di attraversare per raggiungere l’amichetto dall’altro lato della strada?
Fu la maestra a suggerire di parlare della situazione con il medico di base, che a sua volta ci indirizzò allo psicologo. Lui aveva allora cinque anni. La psicologa lo incontrò un paio di volte, gli fece fare dei test, poi andò ad osservarlo all’asilo e poi una volta a scuola (aveva intanto cominciato il primo anno delle elementari), fece compilare dei questionari a noi genitori e poi alle insegnanti. E dopo circa sei mesi ci convocò per raccontarci che il comportamento del bambino corrispondeva ai criteri diagnostici per il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD). Non fu per noi una sorpresa. Il problema c’era e noi lo sapevamo, solo che adesso aveva un nome. Ma “cosa c’è in un nome?”, scrive Shakespeare, “Una rosa profuma di rosa comunque tu la voglia chiamare”.
Ci sono diagnosi a cui non si può sfuggire. Quello che scrivo qui riguarda una diagnosi che volendo si può evitare di avere. Ovvero si può non “cercarla”. Nello specifico, la diagnosi di ADHD è stata oggetto di decenni di dibattiti. In Francia, ad esempio, non è sostanzialmente riconosciuta. E il percorso diagnostico necessario può essere iniziato solo se i genitori consentono, ovviamente.
Io personalmente credo che il primo passo per affrontare un problema sia riconoscerne l’esistenza. Dargli un nome, in questo caso una diagnosi, consente di inquadrarlo e di mettere in atto degli interventi mirati. E poi, quando è abbastanza grande per capire, di spiegarlo al bambino, perché impari a gestirlo e a vivere la sua vita al meglio. Non bisogna mai avere paura di capire, di dare un nome alle cose. Crescere un figlio è un progetto impegnativo, spesso faticoso e non sempre gratificante. Anche se non sempre siamo disposti ad ammetterlo, facciamo fatica ad accettare che la personcina che abbiamo messo al mondo non corrisponda del tutto alle nostre aspettative. È naturale che ogni tanto ci venga da pensare che la nostra vita sarebbe stata più semplice se il bambino fosse stato meno problematico, e crogiolarci nell´autocommiserazione. Ed è proprio qui il punto. “Devi pensare che lui ha un problema, non è un problema”, mi disse una volta il papà di un compagno di squadra di mio figlio che ha la stessa diagnosi del mio. Per me è stato determinante riuscire a cambiare la prospettiva, mettere a fuoco il fatto che chi davvero stava male era il bambino, che noi vivevamo solo il riflesso del suo problema.
“Devi pensare che lui ha un problema, non è un problema”
Se è vero che per noi genitori è faticoso riconoscere e affrontare il problema, è certamente più faticoso per il bambino convivere con qualcosa che non riesce a inquadrare e che lo fa sentire sempre sbagliato. E non c´è nulla di più pauroso, per un bambino (ma anche per un adulto, in fondo) dell´indefinito. “Stai attenta quando ti addentri nel bosco per andare dalla nonna, potresti incontrare il lupo”, diceva la mamma a Cappuccetto Rosso. Il lupo è un pericolo definito, che il bambino riesce a prefigurarsi, a immaginare. “E´ brutto, nero e peloso, quando lo vedo lo riconosco”, pensa Cappuccetto. Se la mamma avesse detto a Cappuccetto di stare attenta perché il bosco è pericoloso, senza spiegarle perché, Cappuccetto avrebbe con tutta probabilità fatto il tragitto con molta più ansia. Come poi vada a finire per Cappuccetto è secondario in questo momento. Non potremo mai proteggere i nostri figli da tutti i pericoli della vita, possiamo solo cercare di dar loro qualche chiave per capire cosa temere e cosa no, e come affrontare il pericolo, se lo riconoscono.
Ricevere una diagnosi può spaventare, certo, ma può essere il punto di partenza per affrontare il problema e imparare a conviverci serenamente, con meno paura.
In fondo, come dice mio figlio, sono solo 4 lettere.
– Marzia
Per noi la diagnosi è stata salvifica dopo anni di problemi, bullismo, preoccupazioni, sensi di colpa, la sensazione di non essere un genitore bravo, o quantomeno utile a nostro figlio. E per il piccolo, che essendo stato diagnosticato prima ha ricevuto anche più cure, è stato fondamentale il gruppo di bambini ADHD, la maggior parte messi molto peggio di lui, e gli incontri con la psicologa che gli ha spiegato che lui funzionava a modo suo, di imparare a riconoscere i propri punti forti e imparare a chiedere aiuto per quelli deboli. gli ha fatto tantissimo e lo ha aiutato a non sentirsi più un fallito, a 8 anni, che voleva morire.